ANTONIO BANFI
Cenni biografici sull’autore
Antonio Banfi nacque a Vimercate, in provincia di Milano, il 30 settembre 1886 da una famiglia di tradizione colta, cattolica e liberale. Il padre Enrico era ingegnere e per quarant’anni fu preside dell’Istituto tecnico di Mantova, il nonno paterno fu ufficiale napoleonico e quello materno era uno Strambio de Castiglia, nome questo che richiama direttamente quella tradizione della nobiltà milanese in cui le ispirazioni patriottiche e nazionali si fondevano, per un verso, con un’interpretazione moderna e positiva del cattolicesimo, e per altro con gli influssi illuministici valorizzati soprattutto nella loro componente tecnico-scientifica. Questo fu l’ambiente che circondò la primissima formazione del giovane Banfi.
Qualche mese dopo la tesi di laurea, nel marzo del 1910, Banfi con l’amico Cotti prese la via della Germania. In questo anno fu vicino a Simmel. Nella primavera del 1911 Banfi ritorna in Italia e prende parte ai concorsi per le cattedre di filosofia nei Licei.
Il 4 marzo 1916, al municipio di Bologna, si unì in matrimonio con Daria Malaguzzi Valeri, che poi per tutta la vita sarà la sua amorosa e sollecita compagna, vivamente partecipe del suo mondo intellettuale e morale.
Nel 1925 fu tra i firmatari della famosa risposta, redatta da Benedetto Croce, a un manifesto degli intellettuali fascisti.
Dal 1932 iniziano gli anni più proficui dell’insegnamento banfiano ed è in quel periodo che si venne formando quel solido nucleo di studiosi che, nella cultura filosofica italiana, oggi vengono definiti «della scuola di Banfi».
Il suo atteggiamento, in quel periodo tragico della cultura nazionale, fu sempre improntato alla più viva libertà di pensiero e le sue lezioni, oltre che un rigoroso insegnamento filosofico, costituirono una scuola di antifascismo. Nel 1940 fondò la rivista «Studi Filosofici» che divenne il centro di raccolta delle nuove energie che uscivano dalla sua stessa scuola. Sul finire del 1941 Banfi entrò in contatto con l’organizzazione clandestina del Partito comunista italiano e aderì a questo movimento.
Nel periodo che va fino all’8 settembre 1943 Banfi partecipa a numerose riunioni di professori che avevano lo scopo di porre le basi per un sindacato libero della scuola.
Dopo 1’8 settembre Banfi prende direttamente parte all’organizzazione della Resistenza. Nel 1944 fonda con Eugenio Curiel il «Fronte della Gioventù». Nello stesso periodo fonda l’«Associazione professori e assistenti universitari», l’organizzazione clandestina che dirige la lotta antifascista nel settore universitario. Durante tutto il periodo della Resistenza Banfi prosegue le sue lezioni accademiche che cessano solo il 17 marzo 1945, poco prima della fase insurrezionale. Dopo la Liberazione Banfi si prodigò per organizzare quelle strutture culturali necessarie per il rinnovamento intellettuale e morale del Paese. Immediatamente dopo l’insurrezione fonda il «Fronte della Cultura» che vuole raccogliere tutte le energie moderne e sensibili dell’intelligenza nazionale.
Sul piano più strettamente politico Banfi partecipa alla vita del Partito comunista con conferenze, dibattiti, comizi. Nel 1948, come candidato del «Fronte democratico popolare», viene eletto senatore nel collegio di Abbiategrasso.
Nonostante la ricca partecipazione alla vita politica, l’attività fervida dedicata all’organizzazione della cultura, gli interessi molteplici della sua personalità anche in questi anni tenne regolarmente i suoi corsi universitari, ebbe cura dei suoi nuovi scolari, indirizzandoli e aiutandoli negli studi scientifici e proseguì la ricerca teorica.
Nell’estate del 1957, dopo aver regolarmente terminato i corsi all Università degli Studi, dove dirigeva la scuola di perfezionamento, e all’Università Bocconi, cadde ammalato ai primi di luglio. Dopo circa 20 giorni di malattia morì alle 15,30 del 22 luglio alla clinica Columbus di Milano circondato dalla moglie, dal figlio e dal gruppo dei suoi più affezionati scolari. Le sue ultime parole, come un estremo invito alla vita, furono: «che gioia, che gioia».
Antologia
IL PENSIERO DI LENIN
Nessuno è più sensibile di Lenin alla potenza creativa della storia. Così il pensiero leninista è sempre energico a difendere la coscienza della lotta di classe e l’autonomia storica del proletariato
di Antonio Banfi, da Il Politecnico nr.6 del 3 novembre 1945
La volontà rivoluzionaria di Lenin si è innestata nell’intimo corso della storia subendo e dominando gli eventi senza mai spezzarsi. Essa era dunque nella verità che non sovrasta aerea, ma penetra le cose e gli uomini. In essa era un pensiero, che è pensiero umanamente concreto e fecondo, fecondo sino a quando in esso sarà risolta tutta la tensione di realtà umana che l’ha suscitato.
Non è difficile rintracciare questo pensiero se si avvertano gli errori contro cui ha lottato. Ha lottato contro la metafisica, e metafisica è ogni arresto del pensiero in cui un’idea astratta, come soluzione e significato assoluto del processo della realtà, ha lottato per la libertà del pensiero che solo dialetticamente, risolvendo cioè ogni fissa posizione concettuale nella legge del loro rapporto, s’adegua al corso vivo della realtà. E tra le metafisiche soprattutto ha lottato contro quella idealistica, la più pericolosa, perché storicamente legata con Hegel alla scoperta del metodo dialettico. Ma l’idealismo hegeliano aveva pagato lo scotto del suo ardimento. Esso aveva voluto risolvere la solidità delle cose e degli eventi e il loro certo concreto nel moto eterno ed assoluto dell’idea. E, come per vendetta, le cose, l’uomo, la storia avevano – con Jenerbach e Marx – assorbito e disintegrata nella loro realtà l’idea. Perciò a Lenin l’idealismo si presentava in altre forme, come spiritualismo, come certezza, sopra il tumulto dell’esistente, di un mondo ideale d’onde trarre le norme della vita. Questo spiritualismo era nella tradizione religiosa dei grandi scrittori russi, ma come un fondo oro su cui più intensa si disegnasse la vita. Ora invece serpeggiava come un sogno d’evasione nelle pagine ispirate ed edificanti del pseudo-marxista Berdjaiev, che doveva poi riempire l’Europa del suo morbido esistenzialismo. Ma più ancora Lenin ne avvertiva il pericolo nelle dottrine rivolte a distruggere la certezza della realtà concreta, nelle forme crepuscolari dell’empiriocriticismo.
Perciò, e non per un’ortodossia dogmatica, Lenin insisteva sul termine di materialismo. Il materialismo non è per Lenin come non fu per Marx o Engels una metafisica; è un orientamento di pensiero rivolto all’azione.
Il materialismo leninista significa la lotta contro tutte le evasioni e le genericità, e perciò significa lo storicismo più risoluto, attento, penetrante, sensibile non alla storia in astratto, ma agli uomini che fanno la storia e alla situazione in cui operano. Nessuno è più sensibile di Lenin alla potenza creativa della storia e assieme alla complessità delle sue linee di sviluppo. Per ciò egli disprezza il folklorismo romantico che parla delle tradizioni e dell’anima di un popolo come un che di stabile, e in particolare combatte ogni traccia di slavofilismo quale ancora si trovava nell’immagine mistica del contadino, presente al rivoluzionarismo romantico dei socialrivoluzionari. Ma combatte insieme l’utopismo ovunque s’ annidi, l’astratto dover essere del mondo e dell’uomo, fonte di alibi pigri e di oscure contaminazioni.
La storia ha alla sua base il rapporto tra l’uomo e la natura, il lavoro, la produzione e lo sviluppo dei suoi sistemi. E l’unità della storia nella coscienza di una sua legge interiore che è legge dialettica d’intima tensione e conflitto, giacchè proprio solo in tal forma è per noi concepibile, senza riduzione, un divenire reale.
La legge unitaria storica è così nella forma della lotta di classe non come fatto obiettivo astrattamente concepito, ma come coscienza della storicità vissuta nell’atto di crearla. La coscienza di tale lotta è una sola cosa con la coscienza di una delle sue parti, della classe lavoratrice. E’ la classe lavoratrice, in quanto conscia della lotta di classe, in quanto organizzata, è veramente al centro del corso della storia, all’avanguardia del suo movimento. Così il pensiero leninista è sempre energico a difendere la coscienza della lotta di classe e l’autonomia storica del proletariato, sia che combatta a Zimmerwald le seduzioni dell’imperialismo borghese, sia che a Pietrogrado passi oltre al democraticismo esitante di Plechanov.
Ma Lenin sa che come la coscienza di classe deve essere sostenuta, fortemente sviluppata e rafforzata in ogni circostanza, la politica classista, che permetta al proletariato di porsi, non di principio, ma di fatto, al centro della vita sociale, deve saper seguire con elastica aderenza i fatti concreti e saggiarli volta per volta con prudente energia. Di qui lacura per l’organizzazione del partito e della sua azione, di qui la tecnica rivoluzionaria sviluppata come risposta sempre viva e coerente alle esigenze dei fatti. Da questo estremo senso realistico e storico nasce il concetto leninista del partito come avanguardia organizzata della massa lavoratrice, che ne conserva e promuove la coscienza di classe e realizza la sua posizione storica universale, o, come si suol dire, la dittatura del proletariato. E nasce l’estrema elasticità dell’azione e la critica alla luce dei fatti, l’assoluta serietà d’impegno e quel rivelarsi schietto e nudo, in tale impegno, delle persone di fronte al compito comune, voluto e perseguito con sempre rinnovata concretezza.
Materialismo dialettico, materialismo storico, lotta di classe, spogli da ogni interpretazione dogmatica, esprimono in Lenin questa intima coscienza del divenire storico. La verità del pensiero rivoluzionario è in lui concreta efficacia dell’azione e l’azione è un calcolato attuarsi della verità. Se nell’ottobre 1917 egli poteva affermare che tutto il popolo russo era coi bolscevichi, questo non era né frase retorica, né dato di fatto: era piuttosto verità storica realizzatesi nell’azione. Chè di fronte allo sfaldarsi ed oscillare incerto di tutte le altre energie, di fronte a Kerenski che parlava della rivoluzione come « di un miracolo, un atto di creazione compiuto dal volere dell’umanità, una spinta epica verso l’ideale universale ed eterno», il bolscevismo era l’unica volontà insieme universale e concreta, poggiante sulla realtà, sgorgante anzi da essa e destinata a trasformare la realtà.
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