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Contributo
di Andrea Catone per l'incontro del 14 dicembre a Roma per l'unità dei comunisti ricevuto
da Centro Culturale
La Città del Sole
I comunisti e il lavoro
culturale
Andrea Catone
Sembrerebbe che affrontare le questioni di una organizzazione
della cultura funzionale alla lotta politica di trasformazione sociale, che
esige anche in questa fase storica la presenza attiva di un partito comunista
ben strutturato e organizzato, sia un compito da ‘intellettuali’, in una sorta
di divisione del lavoro per cui i politici si occupano della politica, da quella
di bassa cucina alle scelte strategiche, e gli intellettuali fanno gli
intellettuali, elaborano programmi o teorie nel campo della cultura, sono
designati a firmare appelli, ecc., con una netta separazione tra elaborazione
culturale e gestione della politica.
Questa separatezza è il retaggio e il riflesso della divisione
di classe, dall’antichità al capitalismo.
Contro questa separatezza si sono battuti i marxisti e i
comunisti. Il comunismo italiano ha, a questo proposito, un ricchissimo
patrimonio nelle riflessioni ed elaborazioni di Gramsci sul ruolo degli
intellettuali.
In quanto si propongono di dirigere il movimento di massa per
la trasformazione socialista della società, i comunisti sono
intellettuali.
Non è affatto retorico questo esordio, ma è forse proprio il
cuore del problema che intendiamo affrontare. La cosiddetta ‘crisi della
politica’, per quanto ci riguarda, nasce anche dal fatto che i due principali e
piccoli partiti comunisti in Italia (Prc e pdci) sono divenuti organismi nei
quali la formazione culturale e politica non è organizzata, nei quali non vi è
elaborazione collettiva dei problemi, nei quali non si studiano con metodo
rigoroso le classi, il loro movimento nella società, le contraddizioni, i
processi in corso. La lotta politica si riduce spesso a machiavellismo deteriore
e i concetti stessi che vengono impiegati soffrono di una forte torsione
politicista. Non si ragiona in termini di contraddizioni di classe, ma di
“schieramenti”, “formazioni politiche”, “spazi politici” da
occupare.
Il partito politico del proletariato, il partito comunista, è
strutturalmente diverso dai partiti borghesi, anche se in alcuni aspetti
esteriori può somigliare ad essi. Esso è un partito che organizza il progresso
intellettuale dei suoi militanti, che si muove per il superamento della
divisione tra dirigenti e diretti. Ma la forte degenerazione lo ha portato ad
essere un partito in cui la separazione si è accentuata e ad avere spesso un
ceto politico di basso livello.
Bisogna comprendere perché, nelle sue radici strutturali, il
PRC non abbia mai organizzato in modo organico, seriamente (ma neppure poco
seriamente) la formazione politica, nonostante spuntassero di tanto in tanto
appelli a farlo. Questa assenza organica, metodica, strutturale, di attenzione
alle questioni della formazione e della cultura politica, è una spia del
fallimento del PRC.
L’accantonamento di un disegno di formazione promosso
centralmente – scuola di partito e seminari – era già nel PCI degli anni 80. E
rifletteva ampiamente la crisi di identità e di prospettive strategiche di
quell’ancora grande partito, che sarebbe stato travolto e stravolto nel decennio
successivo.
Perché la formazione e l’educazione comunista e marxista sono
state inderogabilmente la mosca bianca nel PRC? Perché si è sempre preferito
adottare il criterio secondo cui c’erano cose più importanti da fare nella
pratica politica? Si cavalcava anche il pregiudizio anti-intellettualistico, che
riprendeva il disprezzo anarco-sindacalista per la teoria e il senso comune
delle masse (egemonizzato dalla classe dominante), secondo cui filosofia e
teoria sono chiacchiere vuote, mentre occorrono i ‘fatti’, la ‘pratica’,
dimenticando che esiste una pratica della teoria, che il lavoro teorico non è
meno prassi del lavoro manuale. Ma quest’assenza di organizzazione
della formazione, se anche si è rafforzata per questi pregiudizi, uniti al
timore di fare i ‘dogmatici’, gli scolastici, ecc., in realtà ha avuto nel PRC
ragioni molto più profonde, legate alla natura stessa del PRC, che, anche nei
momenti migliori della sua vita, non si è mai collocato, non si è mai posto o
proposto come avanguardia strategica della rivoluzione, ma ha piuttosto guardato
allo spazio politico elettorale da mantenere o conquistare. La carenza di
un’organizzazione coerente della formazione e della cultura politica, al pari
della mancata strutturazione di un lavoro di massa sindacale, rivelano che il
PRC si poneva come forza residuale, che giocava di rimessa, cavalcando talora i
movimenti, ondeggiando tra ipermovmentismo e istituzionalismo
subalterno.
Fintanto che la formazione politico-culturale sarà concepita
come pleonastica, un orpello o un fiore all’occhiello, i comunisti non avranno
chance, rimarranno subalterni, non saranno comunisti nel senso alto del termine.
La questione della formazione politico-culturale deve essere parte integrante
del progetto di ricostruzione di un partito comunista.
Si richiede anche oggi una gramsciana riforma intellettuale e
morale.
La cultura marxista è divenuta oggi ampiamente
minoritaria nel paese, dopo essere stata egemone o comunque fortemente
radicata tra il secondo dopoguerra e la metà degli anni 70. Scrittori, registi,
attori, manuali scolastici, insegnamenti universitari – soprattutto nel campo
delle discipline storico-filosofiche e letterarie – erano in qualche modo
influenzati dal marxismo. Una grande casa editrice collegata al PCI, Editori
riuniti, pubblicava volumi importanti, dai classici del marxismo (di grande
importanza l’edizione delle opere complete di Lenin e quella – rimasta
incompiuta – di quelle di Marx ed Engels, ripresa ora meritoriamente dalla Città
del Sole, diNapoli), al pensiero politico contemporaneo, alla storia del
movimento operaio (documenti dell’Internazionale comunista), e riviste
(Critica marxista, Studi storici, Democrazia e diritto) e di
collegamento internazionale dei partiti comunisti. Più debole fu in Italia il
marxismo nel campo delle scienze naturali – anche se una generazione di fisici e
scienziati naturali ne fu attraversata e un grande filosofo e storico della
scienza come Ludovico Geymonat ne sentì in profondità l’influenza. Ancora negli
anni 70 testi sovietici di Fisica venivano adottati in alcune università
italiane. Ma anche altre case editrici, da Feltrinelli alla prestigiosa, oggi in
quota Berlusconi, Einaudi (basti ricordare gli investimenti nell’edizione delle
opere di Gramsci, compresa l’edizione critica dei Quaderni del carcere)
contribuivano in modo autonomo alla diffusione di una cultura marxista. Una
rivista settimanale come Rinascita, nei suoi momenti migliori, riusciva
ad essere lo strumento di formazione teorico-politica dei quadri e degli
intellettuali, svolgendo contemporaneamente la funzione di lavoro critico e
orientamento nelle battaglie quotidiane. L’Istituto Gramsci e la scuola di
partito alle Frattocchie, con la pubblicazione di opuscoli di formazione,
contribuivano in modo coordinato e organizzato allo sviluppo del lavoro
culturale nei suoi versanti della formazione quadri e dell’elaborazione teorica.
L’elenco potrebbe continuare a lungo e suscitare rimpianti per l’abisso che
separa la ricchezza culturale passata dalla miseria presente. Tra gli anni 60 e
gli anni 80 vi fu anche una fioritura di riviste ‘eretiche’ legate ai movimenti
del 68, sul cui effettivo ruolo sarebbe oggi utile un bilancio critico. Più
povera fu la produzione teorica di movimenti e partiti
marxisti-leninisti.
Negli anni ’80 si consuma l’erosione e la crisi della cultura
marxista – che aveva raggiunto il suo apogeo negli anni 70 (non a caso uno degli
ultimi prodotti di tale sviluppo è la Storia del marxismo sotto la
direzione di Hobsbawm edita in 5 grandi volumi da Einaudi, storia critica – e
per diversi aspetti anche criticabile -, fatta di diversi approcci e diverse e
non sempre omogenee voci, ma comunque una pietra miliare per seguire lo sviluppo
del marxismo nel mondo) legata allo sviluppo del movimento operaio e dell’onda
lunga di lotte sociali, politiche, culturali nell’intenso decennio
1967-1978.
L’erosione del marxismo, che aveva dispiegato grandi
potenzialità nel trentennio precedente e aveva avuto un’egemonia non effimera
(le categorie gramsciane entrarono non solo negli studi specialistici e
universitari, ma anche nei testi scolastici) cominciò negli anni 80, non a caso
legata ai segni di crisi nel movimento comunista internazionale, che pure aveva
raggiunto alla metà degli anni 70 una grandissima vittoria politica, militare e
simbolica con la sconfitta degli USA in Vietnam. Il campo socialista si
presentava profondamente diviso con l’acuirsi del contrasto Cina-URSS, con una
vera e propria guerra tra Cina e Vietnam, il disgregarsi del fronte indocinese,
le difficoltà di tenuta dell’URSS al suo interno e nei rapporti con i paesi
dell’Europa centro-orientale – Polonia prima di tutto – e sullo scacchiere
mondiale dove la frattura Cina-URSS fu usata dall’imperialismo per dividere i
movimenti antimperialisti, dall’Asia (Afghanistan) all’Africa.
La crisi del marxismo in Italia fu legata alla caduta di
progetto strategico nel PCI, alla sua incapacità di darsi una linea convincente
dopo il fallimento del compromesso storico. È tutta una storia da scrivere e
approfondire in modo critico.
E il non averlo fatto a tutt’oggi è segno inequivocabile del
degrado culturale e politico in cui siamo precipitati. Non solo non esiste una
storia condivisa del comunismo italiano, non si sono fatti i conti con esso –
quei conti che invece aveva saputo fare il Pcd’I con il socialismo italiano e
con le sue stesse origini (III Congresso, “Tesi di Lione”, gennaio 1926,) ma non
si è neppure tentato di farla, salvo che per iniziative
individuali.
La Bolognina di Occhetto venne alla fine di un decennio in cui
la flessione del consenso elettorale fotografava solo in parte la ben maggiore e
profonda erosione della cultura marxista e dello snaturamento e svuotamento
dall’interno del partito comunista. La svolta di Occhetto – favorita e
accelerata dalla crisi e tracollo dell’URSS e del socialismo reale e
dall’ideologia del gorbaciovismo, alla cui elaborazione non fu estraneo
l’apporto di ideologi antimarxisti del PCI – riuscì a sottrarre alla prospettiva
comunista la maggioranza del PCI, perché già molto del suo patrimonio storico e
culturale era stato eroso dall’interno. Essa, invero, non abbandonava del tutto
la bandiera della trasformazione sociale e delle riforme, ma la collocava tutta
all’interno del riformismo socialdemocratico e dell’accettazione del capitalismo
come ultimo orizzonte della storia. E Occhetto impugnava la bandiera
socialdemocratica quando il progetto socialdemocratico stesso entrava in crisi a
causa della apertura del mercato mondiale che significava concorrenza
intercapitalistica su scala planetaria, competizione globale su tutti i mercati,
con la conseguente necessità di ridurre al minimo i costi diretti e indiretti di
produzione e di non avere molte briciole da redistribuire e del profondo
sconvolgimento ad Est. La socialdemocrazia novecentesca infatti riuscì ad avere
spazi in Occidente perché a) vi era l’URSS e il campo socialista, che
consigliavano al capitale di fare concessioni sul terreno economico, dello
stato-provvidenza, del diritto del lavoro per evitare che le masse si voltassero
ad Est e prendessero il potere statale; b) la fase di espansione mondiale
consentiva di redistribuire parte dei profitti accumulati per comprare consenso.
Del resto tutti i guru predicavano che con la fine dell’URSS non vi era altra
prospettiva che il capitalismo, le masse non avevano alternativa…
La nascita del PRC per resistere e contrapporsi alla
dissoluzione occhettiana non avveniva sulla base di un progetto strategico, ma
era essenzialmente reattiva e resistenziale, si faceva in nome di un simbolo, di
una bandiera, di un ideale nel migliore dei casi, o, più banalmente, in base ad
un calcolo di mercato politico, di consenso elettorale che il vecchio marchio
della falce e martello poteva ancora valere. Fu probabilmente quello che allora,
sulla base delle forze esistenti e della profonda erosione culturale e
ideologica intervenuta nel comunismo italiano, si poteva fare, ma quel limite di
origine non fu mai veramente neppure affrontato, non fu mai posto come problema
da risolvere, come, per fare un confronto con altri tempi, seppero fare i
comunisti italiani con le tesi di Lione del 1926 rispetto ai limiti storici e
politici con cui intervenne la scissione del 1921.
E la conseguenza – oltre che evidente cartina di tornasole –
fu che il PRC non ebbe una politica della formazione quadri: una scuola di
partito sembrava una parolaccia. Non poteva averla in assenza di un asse
culturale e ideologico condiviso. Per fare un esempio, che riguarda non la
contrastatissima valutazione della storia del comunismo nel XX secolo, ma
l’azione politica presente: nell’analisi della struttura economica e nelle
proposte di politica economica il keynesismo e non il marxismo appariva come il
massimo punto rivoluzionario che si potesse dare nella scienza
economica.
La caduta ideologica fu anche una caduta di stile di lavoro,
di approccio alle questioni, seguendo in questo l’andazzo generale del degrado
culturale italiano, dominato sempre più da tv spazzatura e politica spettacolo,
mancanza di studio serio, prevalenza dell’effimero. Non solo non vi fu nessuna
seria ripresa della cultura marxista (e neppure si pose il problema!), ma vi fu
caduta della cultura tout court, prevalse, salvo qualche eccezione, una grande
sciatteria culturale.
Alcune riviste, riunite intorno a gruppi o reti di compagni o
correnti interne al PRC – ne cito alcune, di impostazione anche notevolmente
diversa: La Contraddizione, Contropiano, L’Ernesto, Marxismo oggi -
sono state, all’interno di questa generale caduta di stile, di analisi, di
riferimenti marxisti, una voce controcorrente che si collocava fuori del
provincialismo nazionale, all’interno di una corrente marxista e comunista
mondiale che pur tra crisi e grandi difficoltà non si era affatto estinta,
lottava ed elaborava, proponendo analisi di classe, riprendendo l’elaborazione
leninista dell’imperialismo nelle condizioni del mondo d’oggi, contrastando la
demolizione del marxismo, ponendo in termini corretti la questione del rapporto
con l’eredità comunista del 900. Meno incisiva, più debole – ma ciò rifletteva
lo stato generale delle forze politiche e della pratica politica – è stata la
ricognizione sulla società italiana, e quindi l’elaborazione di una strategia
che, all’interno del più vasto contesto mondiale, sapesse ancorarsi saldamente
sul terreno nazionale.
I comunisti sanno che uno dei loro compiti strategici è
l’organizzazione della cultura. Vi sono diversi livelli e compiti
specifici.
Occorre elaborazione adeguata al livello dello scontro di
classe attuale. Elaborazione reale, non la ripetizione meccanica di ciò che i
nostri classici hanno elaborato in passato. Questo lavoro di elaborazione che un
tempo era organizzato in momenti collettivi, in centri studi legati in modo
diretto o mediato al partito comunista, è oggi affidato essenzialmente a piccole
forze e pochi singoli volenterosi. Sono rari e occasionali, non sistematici, i
momenti di scambio e interrelazione tra gli studiosi marxisti e comunisti, tali
da permettere un salto di qualità. È come se fossimo tutti un po’ – senza
esserne assolutamente all’altezza – dei prigionieri che in carcere scrivono
quaderni per le generazioni future. E la diffusione delle elaborazioni avviene o
attraverso piccole riviste o pochissimi editori disponibili (Achab, Teti,
Zambon, oltre alla Città del Sole, che, casa editrice e centro culturale, ha
posto consapevolmente il problema dello sviluppo organico di una cultura
marxista e comunista), che per evidenti limiti oggettivi di dimensione sono
costretti a non alte tirature.
Altre forme di elaborazione sono dominanti nella ‘sinistra’,
anche interessanti, ma ben lontane da un’impostazione marxista e comunista (si
pensi alla recente fortuna nell’universo ex no-global delle teorie sulla
decrescita di Latouche e altri, che colgono unilateralmente un problema grande
del capitalismo, ma ne indicano una soluzione sostanzialmente regressiva,
essenzialmente con gli occhi dell’Occidente).
Occorre lavorare perché l’elaborazione marxista possa
rimettersi in circuito, e acquisisca una dimensione di massa e non di ristretti
circoli intellettuali. Oggi la teoria è percepita in buona parte di quel poco
che è rimasto del ‘popolo comunista’ come chiacchiera, orpello, secondaria
comunque alla pratica. Oppure – è l’altro lato della medaglia – come
affermazione identitaria, ribadimento delle proprie origini, dei sacri testi.
Nell’un caso e nell’altro – che hanno ragioni storico-politiche precise, per
l’uso distorto che si è fatto della teoria - come operazione
retorica.
Occorre restituire dignità alla elaborazione teorica marxista
e organizzare i luoghi e i modi perché l’elaborazione sinora essenzialmente
individuale, di singoli, divenga elaborazione collettiva, necessaria alla
trasformazione rivoluzionaria della società.
Ma il problema non è certamente semplice. Ne abbiamo enunciato
la testa, non la base. Noi non abbiamo perso soltanto i luoghi comunisti della
produzione e circolazione teorica alla cui assenza hanno sopperito in questi
anni le elaborazioni tradizionali degli intellettuali – tradizionali perché
fondate su una tradizione di elite, di singoli – abbiamo perso molto di più,
abbiamo perso il terreno su cui possa svilupparsi proficuamente un’elaborazione
marxista che, in quanto tale, non è mai puro studio intellettuale, ma prassi
trasformatrice dei rapporti sociali. Manca una cultura comunista di
base. Senza di essa le migliori e più profonde elaborazioni teoriche
rimarranno limitate ad una ristrettissima cerchia, al limite dell’estinzione, di
intellettuali marxisti, non diventeranno acquisizione di massa, né potranno
alimentarsi delle critiche, dei suggerimenti, delle osservazioni, della pratica
delle masse.
Detto in altri termini, si è consumata nell’ultimo ventennio
una vera e propria rottura generazionale nella trasmissione della cultura
marxista e comunista. Le nuove generazioni, che ne hanno un vago sentore e che
hanno cercato di studiare qualcosa, si sono avvicinate ad essa in modo casuale,
occasionale, sporadico, frammentario. La visione che hanno della storia del
movimento comunista italiano e mondiale (che significa inevitabilmente anche una
storia del mondo), della teoria marxista, della concezione del mondo
comunista è frammentaria, mescolata al senso comune influenzato dalle idee della
classe dominante. Questa frammentarietà e assenza di una concezione organica
produce anche una grande difficoltà di comunicazione, una babele di linguaggi,
una confusione nei concetti. A scanso di equivoci, non intendo qui assolutamente
propugnare un’uniformità dogmatica di un abc del comunismo, ma la necessità di
costruire il terreno, le basi, per una cultura marxista organica, che riesca a
dare ai compagni gli strumenti essenziali per leggere il mondo e orientarsi
nell’azione politica.
Abbiamo urgentemente bisogno di costruire una cultura
comunista di base: con la produzione editoriale tradizionale (libri di base
sulla storia comunista, sulla storia del sindacato, sull’abc del marxismo, ma
anche sugli sviluppi scientifici letti attraverso una visione marxista,
l’antropologia, la storia delle religioni…) e utilizzando le nuove tecnologie e
la diffusione via web. A questo proposito il lavoro che svolgono alcuni
compagni, come il sito Resistenze del Centro di cultura popolare di
Torino, indica la strada e ci dice anche che non occorrono grandi mezzi
economici per mettere in rete i classici del marxismo e migliaia di articoli e
documenti.
Ma occorre un salto di qualità. Un grande lavoro
coordinato e organizzato, che sappia centralizzare tutte le utili e
sparse iniziative di gruppi o di singoli e pianificarne il lavoro per evitare
doppioni e ottimizzare la produzione editoriale. Vi sono a questo proposito
diverse energie inutilizzate o sottoutilizzate, disperse, frammentate. L’Italia
non è solo il paese di Machiavelli, è anche la terra di Guicciardini, del
particolarismo comunale, della tendenza alla costituzione e riproduzione
allargata di piccoli cenacoli e gruppi con il loro microscopico apparato di
leader appagati del loro ruolo (meglio essere il primo a Tivoli che il secondo a
Roma…). Questo particolarismo ha caratterizzato anche la storia del socialismo e
del comunismo italiani, ed è stato superato realmente solo quando il partito
comunista si è dato una struttura forte e una effettiva strategia. Con la
dissoluzione del PCI e con la profonda crisi strategica del PRC, esplosa
apertamente con il crac elettorale, ma presente sin dalle origini e accentuata
con l’ultra ondivaga direzione bertinottiana (tra governismo e movimentismo),
questo particolarismo tende ad accentuarsi e riprodursi, con la moltiplicazione
di piccoli centri spesso autoreferenziali, la cui principale preoccupazione – al
di là di roboanti proclami – è oggettivamente l’autopreservazione del gruppo
stesso piuttosto che una reale politica di conquista della classe operaia e di
lotta di classe.
In questo momento particolare è fondamentale lavorare per il
superamento della frammentazione, per la concentrazione e centralizzazione di
tutte le risorse comuniste umane e materiali. Lavoro particolarmente difficile
nella situazione data, in cui non c’è una forza comunista dotata di una “massa
critica” tale da potersi presentare come polo, magnete di riaggregazione delle
piccole repubbliche autonome comuniste sparse per l’Italia. Nella debolezza
generale, ognuna può coltivare la presunzione di porsi al centro del processo di
riaggregazione e riunificazione comunista, di avere la ricetta giusta, di poter
essere egemone. Producendo, al contrario, ulteriore frammentazione.
Occorre la forza di un progetto che oggi sappia unificare
senza pretendere un’impossibile uniformità e omologazioni assolute, sapendo
anche fare dei passi indietro e cedere sulle questioni secondarie al fine di
raggiungere l’obiettivo principale. L’unità politica non è un già dato, ma un
processo di lotta e trasformazione.
Fino a quando il problema dell’organizzazione
della cultura comunista sarà considerato un di più, una sorta di “lusso”
rispetto alle impellenze del momento (liste elettorali, ecc.), non avremo alcuna
base solida per la ricostruzione comunista e l’unità dei comunisti.
Possiamo – a partire dall’esigenza, fondamentale per la
ricostruzione di un partito comunista, della diffusione di una cultura comunista
di base su cui possa svilupparsi un processo di elaborazione teorica e
strategica collettiva, un progresso intellettuale di massa e non di pochi gruppi
intellettuali – lanciare la proposta di un coordinamento delle diverse
realtà comuniste che operano sul fronte culturale (riviste, case
editrici, siti web, ecc.), perché si giunga effettivamente a forme di
collaborazione e costituzione di un forte centro editoriale e culturale.
Tentativi anche nel recente passato sono stati fatti, segno evidente che è
esigenza sentita, ma non si è riusciti sinora a superare il particolarismo e la
frammentazione.
La prospettiva è strategica. Senza una politica organizzata e
non occasionale di
-
diffusione di una cultura di base comunista
-
formazione di quadri comunisti
-
elaborazione teorico-strategica collettiva
qualsiasi proposta di ricostruzione comunista sarà di corto
respiro e sottoposta agli urti e frammentazioni derivanti dall’assenza di un
reale cemento unitario costituito da una comune Weltanschauung, dalle basi
marxiste per leggere il mondo grande e terribile e orientarsi in esso, da un
costume comunista che pone come prioritario il fine comunista rispetto al
vantaggio personale. Una ricostruzione che non ha bisogno di usare retoricamente
gli ‘intellettuali’ come ‘fiore all’occhiello’, ma di militanti
intellettuali/intellettuali militanti.