di Carlo Remeny |
Dorde Zamaneh “Essenza del tempo": mi viene tradotto così
dal farsi, cioè il persiano, sia in inglese che in tedesco. Pare
che inizialmente dovesse chiamarsi “Dolore del tempo". È il
titolo di un libro andato a ruba tra giugno e luglio nella Repubblica Islamica
dell'Iran. Nulla di sorprendente se non fosse per l'autore Mohammed Ali
Amouhi, dirigente del Tudeh, il Partito comunista iraniano decapitato da
arresti, processi, condanne a morte e lunghe pene detentive nel 1983, quando
imperversava il furore rivoluzionario islamico. Amouhi non è un
personaggio qualsiasi: nel momento del suo arresto, il 7 febbraio 1983,
era membro del Comitato centrale e dell'Ufficio politico, faceva parte
della Segreteria come responsabile per le pubbliche relazioni, per i rapporti
internazionali e per il Comitato di controllo.
Sembrava che del Tudeh si fossero perse le tracce dietro le mura della
prigione di Evin a Telieran, fra l'emigrazione in Europa e le rievocazioni
in Iran di quanti si sentono legati idealmente a quell'esperienza ma non
l'ammetterebbero mai per paura. Ora, con la pubblicazione del libro si
è aperto uno squarcio: parlare di comunisti nel Paese degli Ayatollah,
sebbene non sia gradito, non è più un tabù, a dimostrazione
che qualcosa sta cambiando. Amouhi ha trascorso 35 anni in carcere;
prima sotto lo Scià, dal 1954 al 1978, poi nel regime islamico,
dal 1983 al 1994. Il libro racconta i suoi primi 24 anni dietro le
sbarre e le persecuzioni subite dal Tudeh ad opera dei Pahlavi. Di quello
che è accaduto dopo, non è ancora possibile pronunciarsi
pubblicamente. Ma un primo passo è stato compiuto, per di più
col benestare delle autorità islamiche.
Infatti, per poter pubblicare, Amouhi ha ottenuto la consueta doppia
autorizzazione dal Ministero della Cultura e della Guida islamica: il primo
per preparare il testo, il secondo per stamparlo e commercializzarlo.
Amici iraniani mi hanno avvertito che la sua casa a Teheran era sorvegliata,
il telefono dell'abitazione veniva ascoltato, che il personaggio era tuttora
sotto stretta osservazione e che mai avrei dovuto dire chi e come si è
adoperato perché l'incontro con Amouhi potesse aver luogo. Date
le premesse, mi aspettavo una persona provata, risentita e soprattutto
sospettosa. Grande è stata la sorpresa e sincera l'ammirazione,
quando in cima alle scale del condo-minio in cui abita (a poca distanza
da quel penitenziario di Evin dove ha passato buona parte degli anni trascorsi
in prigione), mi sono trovato davanti un uomo dal sorriso lumino-so e mite
e dall'abbraccio forte, mentre attraverso la porta spalancata del suo appartamento
ho potuto scorgere la moglie e la figlia raggianti.
Amouhi ha 73 anni: è nato a Kermanshah. Ne dimostra molti di
meno grazie alla ginnastica e agli esercizi fisici svolti in carcere con
tenacia. Quando per anni ti dicono che sei stato condannato a morte osserva
-e all'indomani tocca a te salire sul pa-tibolo, per non impazzire, fai
ginnastica, corri, salti per sentire vivo il corpo. Si iscrisse al Partito
comunista nel 1945. Quattro anni dopo iniziò gli studi presso la
facoltà di scienze militari dell'università di Teheran. Inquadrato
nelle cellule militari del Tudeh, fu arrestato nel 1954 nel corso della
massiccia repressione, lanciata dallo Scià, contro le forze indipendentiste
e antimperialiste iraniane che avevano sottratto la produzione petrolifera
nazionale alle grandi compagnie straniere. Il Partito comunista fu messo
fuorilegge e 450 suoi membri, tra i quali Amouhi, vennero processati. I
capi di accusa erano: attentato ai danni della sicurezza dello Stato, tentativo
di minare l'integrità delle forze armate, complotto contro la corona
e divulgazione dell'ideologia marxista-leninista.
Ventisette persone furono condannate a morte e giustiziate. Anche Amouhi
venne condannato alla pena capitale, successivamente ridotta all'ergastolo.
Dal dopoguerra al 1979, il Partito comunista avrebbe avuto, secondo
Amouhi, non meno di 10 mila vittime a causa della repressione. Il suo
libro vuole ricordare coloro che sono stati assassinati dalla Savak, la
polizia politica del monarca. Amouhi osserva che anche durante gli anni
più bui della repressione l'attività clandesti-na del partito
aveva permesso la so-pravvivenza di tutte le strutture vitali del Tudeh.
Lui ha continuato a operare nell'ambito militare col compito dì
reclutare nuovi elementi tra i com-pagni di prigione. La liberazione
è avvenuta nell'ottobre 1978 in seguito alle grandi manifestazioni
popolari contro loScià che segnarono l'inizio della rivoluzione
islamica. Da lì a poco Reza Pahlavi, abbandonato dai suoi protettori
americani, avrebbe lasciato il Paese e col rientro da Parigi dell'Ayatollah
Khomeini, sarebbe iniziata l’epoca della Repubblica islamica.
Amouhi sostiene che sin dalla primavera del 1979 il Partito comunista,
sebbene privo di autorizzazione, fosse pronto a riprendere la sua attività
pubblica. Di questo avevano discusso lui e Rafsanjani, uno dei massimi
dirigenti islamici, conosciutisi in carcere sotto lo Scià. Rafsanjani
era il Presidente del Parlamento e Amouhi, incaricato dal Partito, gli
chiedeva delle garanzie di sicurezza perché il Tudeh potesse lavorare.
Il Partito co-munista giudicava con favore il rovesciamento della monarchia,
l'impegno per l'indipendenza nazionale, dopo decenni di totale asservimento
agli interessi degli Stati Uniti, e la lotta per la giustizia sociale.
Suscitavano però preoccupazione gli episodi di violenza
ai danni di persone e sedi del Partito che, a partire dall'estate 1979,
divennero frequenti.
Rafsanjani, eletto poi Presidente della Repubblica e nominato successivamente
Presidente del Consiglio per la determinazione delle scelte (carica che
ricopre tuttora e che gli permette di essere il numero due della gerarchia
islamica dopo la Guida, l'Ayatollah Khamenei, disse ad Amouhi che le autorità
non avevano nulla in contrario affinché il Tudeh svolgesse la propria
attività sebbene non condividesse l'ideolo-gia islamica. Nei fatti,
gli attacchi alle sedi del Partito, le aggressioni ai dan-ni di attivisti
che distribuivano i gior-nali stampati con l'autorizzazione del Ministero,
rendevano difficile l'attività pubblica. Ad appesantire ulteriormente
il clima fu la guerra Iran-Iraq, scoppiata nel 1980. Il Tudeh si dichiarò
favorevole a combattere fintanto che ci sarebbero stati territori occupati
dagli aggressori iracheni. Tuttavia, dopo la liberazione di Khorram Shahr,
nell'estremo lembo sud-occidentale del Paese, area particolarmente ricca
di petrolio per la conquista della quale Saddam diede inizio alle ostilità,
anche col consenso degli Usa, il Tudeh si schierò per la cessazione
del conflitto.
I successi sul terreno militare avevano fatto pensare al governo di
Teheran che un'avanzata iraniana po-tesse investire le regioni meridionali
irachene, là dove sorgono le città sante per i musulmani
sciiti, Karbala e Najaf, a sud di Bagdad. A Karbala furono uccisi nel 680
i figli di Alì, per gli sciiti l'unico legittimo successore del
profeta Maometto, e le loro tombe sono visitate ogni anno da milioni di
pellegrini musulmani sciiti. Molti predicavano addirittura di non fermarsi
a Karbala e Najaf, ma prose-guire verso Gerusalemme e liberare la Palestina.
Stava inoltre per esaurirsi la fase della rivoluzione islamica contraddistinta
dalle spinte verso una maggiore giustizia sociale. La ricca borghesia commerciante,
schieratasi con la rivoluzione, era allarmata che le ricchezze private
venissero intaccate ed esercitò una forte pressione sul clero sciita
perché i gruppi dichiaratamente di sinistra, Tudeh anzitutto, venissero
eliminati dalla scena politica.
Presentata come forza che tradiva la rivoluzione, il Tudeh si vide
chiudere la sede del Comitato Centrale, diverse pubblicazioni furono vietate,
un centinaio di membri del Partito finirono agli arresti e si ebbe un violento
attacco alla tipografia del Partito. Il Comitato Centrale invitò
i propri membri a cambiare domicilio per ragioni di sicurezza e fu istituita
una cellula incaricata di provvedere all'e-ventuale salvataggio degli esponenti
del Partito più minacciati. Sin dal 1980 la direzione del Pcus aveva
da-to disposizioni affinché i membri del Tudeh, di fronte a situazioni
pericolose, potessero riparare in Unione Sovietica.
Nell'estate 1980 Amouhi ebbe dei colloqui a Mosca. I dirigenti sovietici
erano preoccupati sia di un eventuale attacco degli studenti islamici al-l'ambasciata
dell'Urss a Teberan (sul modello di quello compiuto ai danni della rappresentanza
diplomatica americana il 4 novembre 1979), sia di un complotto che alti
ufficiali dello Scià stavano preparando per riprendere il potere.
Nell'estate 1982 Mosca suggeriva che i dirigenti più autorevoli
del Tudeh lasciassero l'Iran con la massima sollecitudine. L'Ufficio Politico
del Partito, riunitosi alla fine del 1982 a Teheran, decise che due suoi
membri, Amouhi e Farajulah Mizani, responsabile per l'organizzazione (giustiziato
poi nel 1986), sarebbero comunque rimasti nel Paese per organizzare l'attività
nella clandestinità.
Il 7 febbraio 1983 la grande retata trascinò in carcere la
classe dirigente del Tudeh: 1500 persone, tra le quali Amouhi. In aprile
ci furono altri arresti. Le accuse parlavano di: complotto contro l'ordine
islamico, di spionaggio a favore dell'Unione Sovietica, di propaganda contraria
al pensiero islamico. A distanza di molti mesi si celebrarono i processi
davanti ai tribunali rivoluzionari e diversi esponenti del Partito vennero
condannati a morte, tra questi anche il Comandante della Marina militare
iraniana dopo la rivoluzione islamica. Amouhi trascorse 13 mesi presso
le prigioni del Comité, le carceri annesse ai comandi territoriali
dei Pasdaran, i guardiani rivoluzionari. Dopo venne trasferito a Evin
dove lo tennero in isolamento per anni. Gli interrogativi erano condotti
dal procuratore generale Ladjevardi, ucciso da un commando di un gruppo
di opposizione (Mujaheddin del popolo) alla fine di agosto 1998 nel suo
negozio nel Bazar di Teheran (era stato pensionato nella primavera 1998).
Amouhi rivela che sia durante gli interrogatori, sia nei colloqui coi
carcerieri, gli veniva ripetuto fino alla nausea che era stato trovato
colpevole e la condanna alla pena capitale era fuori discussione. Le condizioni
di vita in prigione erano durissime. Era risaputo anche all'esterno,
tanto che influenti esponenti religiosi inviarono degli emissari da Amouhi
per chiedergli di scrivere cosa accadeva a Evin. Le relazioni furono fatte
arrivare alle persone che ne fecero richiesta, ma nulla cambiò.
Amouhi aveva diritto a vedere la moglie Nasrin Nafeie una volta la settimana
per 15 minuti dietro a un vetro. La donna portava con sé al colloquio
la loro unica figlia Maleh, nata nel 1982. Tante sono state le denunce
di torture e di violazioni dei diritti umani nelle prigioni iraniane dell'epoca.
Tra questi quella dell'avvocato salvadoregno Reynaldo Galindo Pohl, rappresentante
speciale della Com-missione per i diritti umani dell'Onu. Pohl visitò
il penitenziario di Evin nell'ottobre 1990 incontrando Amouhi e il segretario
generale dcl Tudeh Kianouri assieme alla moglie Me-riam. In seguito alla
visita di Pohl e sull'onda dell'emozione suscitata dalla liberazione di
Nelson Mandela, avvenuta in quei mesi, Amouhi ricor-da che le condizioni
di vita comin-ciarono a migliorare. “Nel 1991 ci fu poi lo choc della fine
dell’Unione Sovietica – rievoca Amouhi -, un terremoto, e per noi comunisti
iraniani in carcere lo fu doppiamente. Gli sfottò dei guardiani
erano continui, li liquidavo dicendo che era finito solo un modo di governare
che non era socialista, mentre socialista poteva definirsi lo sviluppo
che aveva permesso alla Russia di crescere in 70 anni diventando da Paese
sottosviluppato una grande potenza industriale e tecnologica.
Un giorno il procuratore mi disse: sono stati gli errori di 70 anni
a uccidere il comunismo. Gli risposi: voi del clero quanti ne avete
commessi in secoli?”. Nell'estate 1994 la direzione del carcere convoca
Amouhi per suggerirgli di accettare un rilascio temporaneo dl una settimana.
Rifiuta dicendo che sarebbe uscito solo con una dichiarazione di innocenza
sottoscritta dal procuratore, visto che non è stato processato nè
condannato. Qualche giorno più tardi gli viene riproposto il rilascio,
ma adesso per un mese. Gli richiedono due garanti e il versamento di una
somma considerevole. Rifiuta. A metà settembre 1994 alcuni agenti
in borghese lo caricano in macchina e lo conducono all'abitazione della
moglie. Alla donna viene fatto firmare un documento che attesta il ritiro
del marito. Il permesso di libertà è valido per un mese.
A un mese esatto, gli agenti si ripresentano da Amouhi per comunicare che
il permesso è stato prorogato per altri 30 giorni. Così di
mese in mese, sino al 21 marzo 1995, quando fanno sape-re che “la Guida
islamica ha concesso la grazia”. Non è il solo ad aver riacquistato
la libertà. C'è anche Nureddin Kianouri, l'ex segretario
generale del Tudeh: ultraottantenne, vive con la moglie a Teheran. Amouhi
avrebbe diritto alla pensione per gli anni di prigionia sotto il regime
dello Scià, ma non riceve un centesimo. Vive dell'inglese imparato
in cella: traduce in farsi. Quando l'abbiamo visitato, stava lavorando
su testi di Fidel Castro e di Che Guevara.
Articolo pubblicato integralmente su Il Calendario del Popolo, nr. 624, ottobre 1998