DA CLANDESTINI SOTTO IL FASCISMO |
C’è stato un tempo in cui celebrare congressi del Partito Comunista
era impresa ardua, in cui anche la semplice circolazione delle tesi congressuali
poteva costar caro in termini di privazione della propria libertà.
Correva l’anno 1931 e il regime fascista cercava, nonostante un crescente
malessere sociale (in quell’anno si assistè a vere e proprie rivolte,
come a Parabiago e a Martina Franca) di radicare un consenso di massa alle
sue politiche, sferrando a fondo il suo attacco alle opposizioni, gran
parte già esule principalmente in Francia, e ai militanti e quadri
comunisti riparatisi nella clandestinità, ma non per questo meno
domi nella ricerca di uno spazio di opposizione sociale da utilizzare nelle
contraddizioni del regime. Ma tanti, molti furono i comunisti che caddero
nelle maglie della repressione carceraria, proprio per celebrare il “congresso
del partito”, che sebbene si dovesse svolgere a Colonia, in Germania, nell’aprile
di quell’anno, doveva pur essere preceduto da un più largo dibattito
precongressuale, doveva vedere il coinvolgimento di quanti più possibile
iscritti e militanti. E fu proprio per garantire quella partecipazione
democratica, in un partito già tacciato allora di monolitismo e
di ferrea disciplina, per le note vicende della “liquidazione” degli “opportunisti”
e “frazionisti dottrinari” (come Secondino Tranquilli-Ignazio Silone e
Amadeo Bordiga), che Pietro Secchia, giovane e infaticabile organizzatore
di quel congresso, fu arrestato dalla polizia fascista a Torino, rimanendo
nelle carceri del regime dal 3 aprile 1931 al 18 agosto 1943. E non è
un caso che sia Palmiro Togliatti a tributare al giovane dirigente un caloroso
omaggio nel suo discorso all’apertura del Congresso, il 14 aprile, tra
i boschi che cingevano il circondario di Dusseldorf, in un’aria di cospirazione,
a 56 spaesati delegati provenienti dall’Italia e dall’esilio. Spaesati,
ma non meno convinti di dover elaborare un compiuto piano d’azione per
evitare al nostro paese la catastrofe della guerra, epilogo della crisi
irreversibile del capitalismo, come recitavano le analisi del X Plenum
dell’Internazionale del luglio dell’anno precedente, che però indicavano
anche la priorità della battaglia contro quella che sbrigativamente
fu definita con la categoria di ‘socialfascismo’, la complicità
dei socialdemocratici e dell’attendismo opportunista alla reazione fascista.
Ma il Congresso della ‘svolta’, come fu chiamato, doveva solo ratificare
decisioni già prese da Mosca? Questa è l’immagine che di
quel congresso e di quella ‘svolta’ venne data posteriormente, sempre per
confermare l’asservimento ai voleri di Stalin dei comunisti italiani. Ma
quei delegati, anche solo a leggere i resoconti a noi noti e la relazione
di ‘Ercoli’ (Palmiro Togliatti) nel prezioso opuscolo edito alcuni mesi
dopo a Parigi per le Edizioni di cultura sociale [Il IV Congresso del
Partito Comunista d’Italia (aprile 1931). Tesi e risoluzioni], dovevano
decidere qualcosa che poteva dare sì una ‘svolta’, ma alle loro
stesse vite di rivoluzionari professionali, se intensificare cioè
l’operato delle cellule clandestine all’interno del nostro paese, e per
questo rafforzare il quadro e l’azione del Centro interno, oppure privilegiare
l’azione del Centro estero, a Parigi, luogo di incontro-scontro-confronto
dell’intera opposizione antifascista. Era stato un tema dibattutissimo
anche alla II Conferenza nazionale del PCd’I a Basilea nel gennaio 1928,
sotto la spinta dei giovani comunisti e per la spinta di problemi interni:
l'esame autocritico per elaborare una nuova linea politico-organizzativa
che consisteva essenzialmente nello spostare il centro di gravità
all'interno delle organizzazioni del fascismo, cioè nei dopolavoro,
nelle organizzazioni giovanili e nei sindacati fascisti, nelle associazioni
sportive, culturali e anche nelle file della milizia fascista. Questo avrebbe
portato un carico di lavoro e responsabilità maggiore per quei delegati,
in gran parte operai e contadini, nonché un aumento dei fattori
di rischio di arresti, torture e morti (sfidare su questo piano la polizia
fascista e l’Ovra non era certo impresa di poco conto), rischio accettato
con la consapevolezza, come scrisse più tardi Giorgio Amendola,
di aver operato una ‘scelta di vita’. Con passione Togliatti aprì
il Congresso, rendendo omaggio a Secchia, e a tutti i compagni caduti o
reclusi nelle patrie galere, ma non rinunciando a chiedere a quei delegati
uno sforzo alto di analisi, il tema dominante del Congresso essendo “per
un partito di massa alla testa di un blocco operaio-contadino rivoluzionario”,
che poi doveva tradursi in un attivo impegno all’applicazione di quella
linea politica così collettivamente discussa. I delegati ebbero,
per questo, un dettagliato rapporto di attività dal III al IV Congresso,
sull’arco di tempo, cioè, che andava dal 1926 al 1931, anni che
avevano visto la decapitazione del quadro dirigente comunista, primo fra
tutti Antonio Gramsci, che a Turi attendeva le risoluzioni del Congresso
condividendo solo in parte e non nella tattica politica le risoluzioni
dell’IC degli anni ‘29/’30. Un passaggio di quel rapporto non poteva trovare
la condivisione di Gramsci, quello titolato La esclusione della prospettiva
di una rivoluzione democratico-borghese , laddove cioè si dava per
“dimostrata da noi sulla base della analisi della situazione oggettiva,
l’affermazione che non si può parlare in Italia che di una rivoluzione
proletaria e che soltanto una rivoluzione proletaria potrà risolvere
tutti i problemi della società italiana”; ovvero la negazione di
un problema, quello della transizione, che invece attraversava la riflessione
di Gramsci nelle sue annotazioni così profonde e acute dei ‘Quaderni’.
Il lungo periodo successivo, durante il quale non potrà tenersi
alcun congresso (il V si aprirà nel dicembre 1945), è quello
della fase fascista in Europa, dell’aggressione coloniale in Africa, dei
fronti popolari, della guerra di Spagna, della Seconda guerra mondiale:
avvenimenti che modificheranno radicalmente la situazione generale e la
storia e il carattere stesso del Partito Comunista Italiano. Ma chi, oggi
come ieri, potrà mai sostenere che il cuore e l’intelligenza di
Gramsci, così come la nostra moderna visione di comunisti ‘secolarizzati’,
non fosse tra quei 56 delegati nelle foreste tedesche, e che, sfidando
la temperie dell’epoca, consegnavano alla storia un’esperienza che nessun
revisionismo potrà mai più cancellare?
“Il IV Congresso del partito fu diverso da tutti gli altri non solo perché si riunì a Colonia, in terra straniera, ma fu il solo organizzato in una situazione di completa clandestinità, mentre il Tribunale speciale sedeva in permanenza e l’Ovra con i suoi mille tentacoli stendeva la sua rete su tutto il paese. Eppure, tra le maglie di quella rete sgusciavano i rivoluzionari professionali intenti a tessere e ritessere la loro tela. Si trattò di un congresso democraticamente preparato per mezzo di riunioni e congressi provinciali. Certo erano assemblee di tipo particolare. I congressi provinciali li organizzavano spezzettati, suddivisi in due o tre riunioni di una dozzina di partecipanti ciascuna. Il Congresso di Torino lo tenemmo in sei riunioni, tre in provincia e tre in città. Partecipai al Congresso di Modena (tenuto in un fienile di Carpi), a quello di La Spezia tenuto in un cascinale e durato il sabato notte e l’intera domenica, a Milano in un’osteria fuori città. Al termine di ognuna di quelle riunioni (congressi) veniva stabilito il numero dei delegati al Congresso nazionale, senza farne i nomi, questi venivano designati poi da una commissione ristretta. Al lavoro politico e organizzativo per preparare tali congressi, orientare politicamente i compagni con rapporti orali e documenti scritti (l’Unità, Stato Operaio, opuscoletti) si aggiungeva l’attività pratica per fare attraversare la frontiera ai delegati, col minor rischio possibile, parte in treno con passaporti falsi, altri a piedi per vie diverse. “ Da Cesare Pillon: I comunisti nella storia d’Italia, edizioni ‘Il Calendario del Popolo’, 1976, vol.I, testimonianza di Pietro Secchia pp.380/381. |