Intervista a Diliberto dopo visita Vietnam, da Rinascita nr.43 del 24/11/06

 

«Il mio Viet Nam, tra mito e futuro»


«L’ambasciatore americano che fugge in elicottero dal tetto dell’ambasciata è per me un’immagine indelebile». Il Viet Nam è, per la generazione dei cinquantenni di sinistra, almeno per quelli non pentiti, un tatuaggio dell’anima. Oliviero Diliberto non fa eccezione, e di ritorno dal Viet Nam, il presente si fonde con una memoria che sconfina nel mito: «Era un piccolo paese contro il colosso dell’imperialismo. E’ un po’ la fascinazione di Cuba, piccola isola a 100 miglia marine dagli Usa, che è riuscita a resistere. Il Viet Nam aveva per noi un fascino doppio, era la lotta d’indipendenza di un popolo e un partito comunista che aveva con i comunisti italiani un rapporto solidissimo: oggi nessuno lo ricorda, ma la sede dell’ambasciata del Nord a piazza Barberini era pagata dal Pci. E infine, era una lotta vincente: nel 1973, la tragedia cilena e la vittoria del Viet Nam. Una cosa strepitosa, sembrava impossibile...».
Non è la prima volta che visiti il Viet Nam. Ma il tuo resta un legame emotivo.
Sì, in un misto di terzomondismo e di comunismo, per noi Ho Chi Min dal punto di vista ideologico e Giap dal punto di vista dell’azione, erano due miti assoluti, complice il clima dell’epoca. Soprattutto è stata grandissima l’emozione di incontrare il generale Giap, il cui nome scandivamo nelle strade d’Italia: ha più di novant’anni, ma sta bene. E’ l’uomo di Dien Bien Phu, è stato uno dei più grandi geni militari della storia, al punto che viene studiato nelle accademie militari. Ma anche la visita ai famosi cunicoli di Qu Chi è stata incredibile. Credevo servissero solo per attraversare le linee nemiche: ma ci stava un intero villaggio, hanno vissuto nove anni lì dentro. All’ultimo di tre livelli c’era la scuola, l’ospedale... Io ho fatto solo cinque metri lì dentro, e ho capito perché gli americani non potevano che perderla la guerra...
Il Viet Nam comunista non è certo un regime democratico all’occidentale. Ma non è mai stato accusato dei crimini che di norma pesano sulla storia di altri paesi...
Erano comunisti dal volto umano: sono stati i vietnamiti a deporre Pol Pot e i khmer rossi cambogiani, un merito storico oggi dimenticato.
Miti e leggende a parte, parliamo di una nazione sopravvissuta a una guerra devastante. Ne porta ancora i segni?
Le armi di distruzione di massa Usa come i defolianti hanno creato malattie genetiche che si trasmettono tuttora ai bambini vietnamiti. Sono conseguenze che rimangono nell’aria, nel terreno, nell’ambiente per decenni.
Il Viet Nam oggi è una delle cosiddette “tigri asiatiche”. L’economia pianificata è definitivamente accantonata?
Loro la chiamano economia di mercato a orientamento socialista.. Hanno una crescita al 13% annuo, più della Cina. Il partito si pone il problema di “guidare” l’apertura dell’economia: hanno come modello quello cinese, ma ne vedono a posteriori anche gli effetti non positivi. E’ un’economia mista con un’attenzione sia all’inquinamento, che ha danneggiato la Cina, sia alle condizioni di vita della gente. Il loro obiettivo (sono tra gli ultimi che fanno i piani quinquennali) è ridurre il tasso di povertà soprattutto nelle campagne, da qui al 2016.
Il 2016 è lontano. Quali sono oggi le condizioni di vita della popolazione?
Sono stato laggiù tre volte, sempre a distanza di cinque anni, e ho potuto verificare di persona i cambiamenti: è una crescita più equilibrata rispetto a quella della Cina, si vede palesemente che il benessere è diffuso. E’ un esempio banale, ma 10 anni fa c’erano solo biciclette, adesso tutti hanno la motoretta. Rispetto alla Cina, stanno cercando di evitare, nella misura del possibile, l’inurbamento forzato, migliorando la qualità del lavoro nei campi. Ho girato con la macchina in lungo e in largo, e la meccanizzazione dell’agricoltura si vede.
Il Viet Nam sta entrando nel Wto, e deve adeguarsi alle regole dell’economia cosiddetta liberale. Cosa resterà della “diversità” socialista?
Loro hanno fatto da tempo la scelta di convivere nella diversità, e non sono unici. L’esempio cinese è clamoroso, la Cina è entrata nel mercato globale come un colosso, sia con i privati sia con il settore pubblico: è l’Accademia delle scienze di stato cinese che si è comprata il settore computer dell’Ibm. Come i cinesi e per altri versi gli indiani, che non sono un paese socialista ma hanno una forte presenza della sinistra, anche i vietnamiti stanno investendo sul serio, non a chiacchiere come in Italia, nell’economia della conoscenza: in Viet Nam la scolarizzazione è al 90%, dato enorme per un paese in via di sviluppo. In quelle aree del mondo si assiste a una moltiplicazione di centri studi e università, in certi campi all’avanguardia (basti pensare all’informatica indiana) ma comunque gli studi progrediscono in tutti i settori: pochissimi sanno che un bestseller cinese dell’ultimo periodo è Cicerone, introdotto nelle scuole perché la cultura classica, negletta in Occidente, è stata riscoperta come fonte di educazione nel mondo cinese.
Paolo Barbieri