Lo spettro della rivoluzione cinese nella falsa coscienza del pensiero unico e nell’impegno dei comunisti di oggi
----- Ferdinando Dubla -----
La rivoluzione cinese è da considerarsi una delle rotture storiche
più rilevanti del XX secolo. Con la rivoluzione d’ottobre del 1917,
essa rappresenta una frattura destinata a sconvolgere il secolo e a determinare
l’evoluzione e lo sviluppo dei processi storici successivi. La sua determinazione
comunista è il compimento di un percorso e l’avvio di una reale
costruzione storica, il cui riflesso ideale trova in Marx ed Engels nella
seconda metà del secolo precedente il suo punto più alto.
In questo senso, Lenin e Mao-Tse-Tung incarnano il vero spirito del XX
secolo, ad onta dei miserabili corifei della fine delle ideologie e del
trionfo del pensiero unico neocapitalista.
La Cina era un luogo esoterico di una civiltà millenaria sconosciuta,
lontana e distante nell’immaginario dei popoli dell’occidente, ma quasi
mai dei mercanti (come Marco Polo) della ‘via della seta’ e dei ‘porti
franchi’. La Cina era lontana per le grandi distanze che la separavano
dai centri di potere dell’Ovest, ma non per gli imperialisti britannici
e francesi che vi impiantavano basi mercantili e pagavano con l’oppio,
i ‘trattati ineguali’ e la guerra, senza mascherature per la ‘missione
civilizzatrice dell’uomo bianco’.
La rivoluzione cinese che sfocia nella proclamazione della Repubblica
Popolare il 1 ottobre 1949, irreversibilmente avvicinerà la Cina
al mondo. A tutto il mondo. E irreversibilmente, nel bene e nel male, la
Cina è ora vicina, sempre più vicina. Questa è una
delle svolte storiche più radicali del nostro secolo. Chi legga
le opere dell’alfiere di quella rivoluzione, Mao-Tse-Tung, il maestro dello
Hunan divenuto ‘il Presidente’, trova proprio nello spirito di avvicinamento
della Cina, della secolarizzazione della sua cultura e della sua complessiva
civiltà, il punto saliente della sua più ampia riflessione.
Un merito tra i più grandi del marxismo-leninismo, che solo buffamente
e pateticamente qui al centro dell’impero, dei dollari e della corruzione,
delle mafie e della speculazione, tentano con virulenta sicumera di respingere
ai margini di un tempo che fu e che però ancora terrorizza le loro
anime non più illuministe di borghesi autoritari.
Che sia così, ce lo dimostra la stampa italiana che all’argomento
ha dedicato alcuni dossier, alcuni ovviamente più vicini (purtroppo
mai coincidenti) con la nostra sensibilità, la maggior parte frutto
di sterili e istupidite operazioni di propaganda ideologica del capitalismo
imperialista.
L’Espresso del 30 settembre, nr.39, tra l’ombelico della
Carrà e il sexy-manifesto di Armani, dedica otto pagine alla ricorrenza
(pp.150/158) curate da Barbara Alighiero da Pechino, di cui basta
solo scorrere i titoli e gli intervistati:
titoli: Mummificati insieme a Mao, Sarà leader del mondo,
anzi crollerà (articolo di Maurizio Valentini sullo stato
attuale dell’economia cinese), L’amore si fa solo di sabato sera,
un guazzabuglio di amarcord con tanto di interviste a Maria Antonietta
Macciocchi e, dulcis in fundo, all’attuale consigliere comunale forzaitaliota
milanese, già Servire il Popolo (che già nel ‘68/’70
danneggiò il maoismo molto più che la scolastica l’aristotelismo),
Aldo Brandirali. L’unico documento un po’ più serio è
quello di Aldo Natoli, ma naturalmente per decretare la fine del
‘vento dell’Est’ (pag.156). Leggere queste pagine dell’Espresso
non è affatto un mero esercizio sterile di consolazione e rassicurazione
per borghesi impauriti dal passato recente: è anche un segnale su
come valutare con più discernimento l’attuale fase del socialismo
cinese da parte dei comunisti, fase fin troppo liquidata nella sinistra
di classe come della ‘restaurazione capitalista’. La realtà, lo
insegnava proprio Mao, è molto più dialettica delle sue interpretazioni,
e il giudizio dell’avversario è un ottimo metro di valutazione (all’incontrario)
del proprio operato. Anche se con ciò, e non sembri contraddittorio,
i comunisti non devono cessare di preoccuparsi per la fase imposta dalle
riforme e controriforme denghiste e dall’attuale gruppo dirigente del Partito
Comunista Cinese (con buona pace dei compagni di Aginform).
Sulla stessa falsariga dell’Espresso è ovviamente l’inserto
de La Repubblica del 29 settembre, Sotto il segno di Mao,
con scritti deturpatori della storia di Sandro Viola, [del tipo:
su migliaia di ufficiali del Kuomintang, animati da “profondo patriottismo”
(dopo la rottura definitiva del ’41 con i comunisti era l’esercito
più corrotto del mondo, ndr), sul fior fiore degli intellettuali
“si sarebbe abbattuta insensata e feroce, da lì a un paio d’anni,
la furia ideologica maoista”], Renata Pisu, Gerald Segal, con
tanto di testimonianze (Derk Bodde) e rivelazioni su un mancato
assassinio politico da parte di un italiano contro il Presidente Mao.
Avvicinandoci da destra a sinistra, e prendendo in esame rispettivamente
Internazionale, Il Manifesto e Liberazione, v’è
da rilevare subito che hanno mancato una preziosa occasione.
Internazionale (nr. 303, 1/17 ottobre, pp.21/31), vi dedica anche la copertina, ma poi riprende e traduce articoli da Asiaweek di Hong Kong, settimanale di proprietà del gruppo Time, una fonte di parte coloniale, dunque. Eppure, nonostante l’impianto complessivamente antirivoluzionario e antimaoista, le testimonianze raccolte ‘per strada’ o cercando nelle pieghe dell’attuale società cinese o tra i veterani della rivoluzione e/o della rivoluzione culturale del ‘66/’68, (Figli della rivoluzione, Una marcia lunga mezzo secolo, I mali della Cina moderna) traspare l’orgoglio di un popolo fiero della propria rivoluzione e affatto pentito dello slancio generoso impiegato per raggiungere la più straordinaria delle modernizzazioni di questo secolo.
Il Manifesto del 1 ottobre: Ombre cinesi il titolo complessivo dell’inserto, con analisi tutte schiacciate sulle contraddizioni della Cina contemporanea, le ‘ombre’ appunto, società autoritaria, pena di morte, disuguaglianze enormi, ma tutto senza una seria analisi marxista, tranne forse quella della Collotti Pischel (Una valanga sul mondo), frutto, ci pare, più dell’impianto di studio suo precedente (sfociato nel 1972 con la mirabile Storia della Rivoluzione Cinese, da consigliare ai più giovani, da leggere-rileggere senz’altro per tutti gli altri); l’operazione de Il Manifesto, cioè, sembra più votata ad allontanare la sua origine, la sua falsa coscienza, quel maoismo mai effettivamente elaborato in una prassi politica realmente rivoluzionaria (l’esempio è sia l’editoriale di presentazione a cura di Angela Pascucci, sia l’articolo dell’inviato a Pechino Lucio Salvatici). Di sintesi troppo superficiale, ma forse utile di questi tempi, la cronologia dei ‘primi’ 28 anni di dialettica e scontro all’interno del PCC, dal 1921 al 1949, (Linee allo specchio) ad opera di Maurizio Galvani, con l’emergere potente della figura di Mao dai distinguo verso l’URSS, Stalin e l’Internazionale alla lotta contro il Kuomintang di Chiang, fino alla formazione delle basi rosse nelle campagne, fondamenta del successo rivoluzionario e della costituzione reale dello Stato socialista dal 1949.
Infine Liberazione, inserto del 5 ottobre: titolo infelice (La
Cina non è vicina), ancora una volta lo stesso limite di analisi
schiacciata sul presente che non piace (affidato alle penne di Rina
Gagliardi e Livio Maitan, quest’ultimo già curatore dell’edizione
italiana del 1970 [Einaudi] dello scritto di L.Trotski, Problems of
the Chinese revolution), ma finalmente alcuni documenti, di Edgar Snow
e dello stesso Mao. Questo inserto scopre, in qualche modo, due tendenze
contrastanti all'interno del PRC su questo nodo storico nient’affatto secondario:
tant’è che Domenico Losurdo sente l’esigenza di rappresentare
una sensibilità presente e abbastanza rilevante nel partito, il
ruolo della Cina attuale nello scacchiere internazionale, la sua possibile
funzione mondiale in chiave antimperialista, l’apertura controllata al
mercato come prezzo da pagare per i processi di modernizzazione e di progressiva
seppur lenta democratizzazione (Dalla Lunga marcia alla Cina del 2000,
Liberazione, 8 ottobre).
Una posizione più equilibrata quella di Losurdo rispetto a quella
espressa da Gagliardi-Maitan, dallo storico ribadita non a caso anche su
Aginform nr.5-settembre 1999, Cina Popolare e bilancio storico
del socialismo, cap.VI di Fuga dalla storia?, La città del Sole,
Napoli, 1999, sebbene non si comprenda perché mai non si possa e
debba criticare l’attuale Cina postmaoista con una chiave di lettura marxista,
cioè dialettica, senza per questo affermare che la Cina è
per sempre persa al socialismo. Se così fosse, la costruzione maoista
(nelle sue due fasi, rivoluzionaria (1926/1949) e socialista (1949/1976)
sarebbe stata così fragile da non permettere una resistenza efficace
alla restaurazione capitalista.
Ed è proprio questo, per noi, il punto dirimente: non può
leggersi la storia con i piedi troppo affondati nel presente, perché
si rischia di farle torto e il giudizio sul maoismo è un nodo politico,
teorico e storico che nessuno si è peritato, con gli strumenti analitici
marxisti, di affrontare seriamente in questi dibattiti sul 50° anniversario.
Così come continua lo schematismo improduttivo di settori della
sinistra di classe che si sentono eredi del maoismo storico italiano; le
cesure cronologiche poste come assiomi apodittici (tutto bene in Urss fino
alla morte di Stalin, 1953, poi la notte del revisionismo; tutto bene in
Cina fino al 1976, alla morte di Mao l’avvento della controrivoluzione,
ecc..) fanno torto proprio ai ‘grandi’ a cui si dice di ispirarsi: nessuna
epoca, costruzione politica, società, muore con chi l’ha guidata,
meno che mai da leader ispirati dal più rigoroso materialismo storico-dialettico.
E se muore, allora la loro responsabilità è grande. E’ che
gli esercizi didattici fini a se stessi non servono se non a costruire
fortezze e convinzioni adialettiche, dunque se non antimarxiste, ingenue
e sterili.
La preoccupazione rimane infatti sempre la stessa: non si riesce a
contrastare efficacemente la controffensiva ideologica delle classi dominanti,
vendicative e arroganti, timorose e querule tanto quanto proterve.
Pochi avrebbero scommesso, quel 1 luglio del 1921, quando a Shanghai
in non più di dodici si ritrovarono nella direzione di una scuola
femminile per fondare il Partito Comunista Cinese, che quel partito avrebbe
condotto in porto una rivoluzione vittoriosa. Non lo comprese neanche a
pieno l’Internazionale Comunista, in quel momento presieduta da Zinovjev,
che nell’autunno del 1923 spedì a Canton un gruppo di consiglieri
sovietici alla testa dei quali erano Borodin e Blucher e che consideravano
i processi in atto in Cina con la sola chiave della rivoluzione nazionale
e spinsero per un accordo ad oltranza con il Kuomintang, almeno fino a
quando Mao non sostituì Ch’en Tu-hsiu alla guida del partito e dunque
cambiò anche la concezione che fino allora aveva supportato il gruppo
dirigente del PCC e dell’Internazionale, un ruolo di direzione operaia
e degli intellettuali avanzati con grave sottovalutazione del popolo contadino
e delle sue capacità di emancipazione in un territorio prevalentemente
rurale all’80%.
La storia non può essere chiusa in schemi a blocchi, in algoritmi:
fu questa la profonda riflessione di Mao quando nel 1924 lasciò
Shanghai, dove lavorava a tenere i collegamenti tra partito e Kuomintang,
e ritornò nel suo natìo Hunan. Nel 1926 riuscì a farsi
attribuire la direzione dell’Ufficio rurale del partito comunista, nuovamente
a Shanghai e nell’agosto di quell’anno intraprese ad organizzare le leghe
dei contadini, che sotto la sua guida mutarono gradualmente carattere e
cominciarono a divenire veri e propri organi di un nuovo potere di fatto,
costituito nei villaggi come radicale alternativa al potere dei proprietari
fondiari e dei notabili legati ai ‘signori della guerra’. Fu una vera e
propria svolta per il prosieguo futuro del processo rivoluzionario, teorizzato
con la necessità costante dell’”inchiesta” e riuscì a far
conseguire al PCC un successo, militare e politico, destinato a cambiare
il destino della Cina.
Quella Cina che è ancora e per sempre vicina. Quel 1 ottobre
di cinquanta anni fa, Mao aveva coscienza di aver chiuso un ciclo e di
averne aperto un altro altrettanto se non più difficile e indicò
la strada al suo popolo, invitandolo ad “alzarsi in piedi”, accingendosi
a costruire un’esperienza formidabile per i comunisti di tutto il mondo;
ma è ai comunisti di oggi che spetta di continuare quella strada.
SCHEDA 1
E venne l’Ottobre cinese
Il temporaneo ravvicinamento tra nazionalisti del Kuomintang e comunisti,
imposto dall’invasione giapponese del 1937, segnò una battuta d’arresto
nella guerra civile, ma, scomparso il pericolo esterno, la lotta riarse
implacabile nel 1946. “I Giapponesi sono una malattia della pelle”, aveva
detto Chiang nel 1941, “i comunisti una malattia del cuore”. Al momento
del crollo del Giappone avevano in effetti compiuto grandi progressi: più
di novanta milioni di contadini vivevano sotto amministrazione comunista.
L’ Armata Rossa era ora forte di 600-900 000 soldati regolari, nonchè
di un numero ancora maggiore di truppe non regolari, contadini allenati
a combattere nelle regioni che abitavano. Le forze comuniste erano sostenute
da una gran parte della popolazione contadina, oltrechè dal proletariato
industriale delle città; dietro il Kuomintang, che era venuto trasformandosi
in senso sempre più decisamente conservatore, erano i proprietari
fondiari e la borghesia burocratica: un regime inefficiente e corrotto
(l’inflazione dilagante aveva fatto della corruzione dei funzionari un
male endemico), che riusciva a sostenersi grazie all’aiuto finanziario
e alle armi fornite dagli Stati Uniti, interessati a fare della Cina, con
l’avallo del Kuomintang, un’area di penetrazione e di sfruttamento. La
corruzione era anche in alto (Chiang Kai-shek e gli altri capi nazionalisti
prosperavano sugli aiuti americani) e contrastava agli occhi del popolo
con l’austerità di Mao e dei dirigenti comunisti, vestiti di una
semplice casacca. Tuttavia dal punto di vista militare v’era una forte
sproporzione tra i due campi avversi. I nazionalisti avevano a loro favore
la superiorità del numero (tre milioni di uomini, contro poco meno
di un milione), le risorse di un retroterra molto più esteso e più
ricco. Ma il basso morale dei soldati (contadini reclutati di prepotenza
e sensibili alla propaganda dei contadini della parte opposta, che avevano
avuto il vantaggio della distribuzione delle terre) moltiplicò le
diserzioni e perfino le defezioni di intere unità. La lotta si protrasse
dal 1946 al 1949 e si concluse con l’avanzata dell’Armata Rossa da nord
a sud e a sud-ovest dell’immenso paese. Chiang si salvò ritirandosi
coi resti del Kuomintang nell’isola di Formosa sotto la protezione della
flotta americana. Il 1° ottobre 1949 fu proclamata, sulla piazza Tien
An Men, la Repubblica Popolare Cinese (RPC). Si iniziò così
l’opera di edificazione del socialismo, che ha mutato profondamente l’aspetto
del paese sia nei rapporti sociali, sia nelle strutture economiche, sia
nelle idee e negli orientamenti umani. La nuova società si caratterizzò
come “dittatura democratica popolare”, secondo la definizione datane da
Mao in un articolo scritto il 30 giugno 1949 per commemorare il 28°
anniversario della fondazione del Partito Comunista Cinese (luglio 1921)
(1)
Il governo popolare centrale si dedicò alla creazione delle
strutture amministrative (governi popolari locali) e alla ripresa delle
attività economiche in tutto il paese, nell’ambito della politica
di fronte unito e di nuova democrazia.
SCHEDA 2
La fondazione della nuova Cina
-----Enrica Collotti Pischel ----
Il significato di rottura che la rivoluzione cinese assumeva di fronte
all’equilibrio creato nel mondo da cent’anni di dominazione imperialista
e al tempo stesso – per necessaria correlazione – di fronte a tutto il
corso della storia cinese caratterizzato dalla frattura tra una classe
dirigente sfruttatrice e le masse oppresse era messo in luce chiaramente
dallo scritto Sulla dittatura democratica del popolo con il quale
Mao Tse-Tung, alla fine di giugno del 1949, delineava le caratteristiche
storiche generali del regime nuovo che stava per nascere ufficialmente
in Cina. Si trattava di un’opera di estremo rilievo nella quale era condensata,
quasi di scorcio, l’esperienza di una generazione che aveva disperatamente
cercato la via per “salvare la Cina”, aveva visto cadere le speranze di
‘riformare’ il vecchio sistema o di ‘cercare la verità dall’Occidente’
e che aveva avuto la certezza di aver intrapreso la strada della liberazione
soltanto quando “le salve della rivoluzione d’ottobre portarono in Cina
il marxismo leninismo". Si era trattato certamente di una strada lunga,
contorta, estremamente costosa dal punto di vista umano, che non sempre
era stato facile discernere e riconoscere, ma che, una volta intrapresa,
era stata percorsa
senza compromessi e senza cedimenti.
Quando il 1° ottobre 1949, nel palazzo che era stato degli imperatori
Ming e Ch'ing, Mao Tse-tung, circondato da molti suoi compagni e da altri
uomini (disposti ad accettare, seppure non senza riserve sociali, il nuovo
regime), proclamava la fondazione della Repubblica popolare cinese, cominciava
un'altra difficile strada, quella della lotta contro l'arretratezza e contro
la minaccia di aggressione imperialista: molte nuove difficili scelte strategiche
si sarebbero presentate e nuove lotte si sarebbero aperte soprattutto attorno
all'alternativa se il progresso e la difesa della Cina dovessero essere
assicurati attraverso una modernizzazione ed un’industrializzazione effettuate
dall'alto e dal centro oppure attraverso una mobilitazione quotidiana e
capillare dell'iniziativa e delle forze di milioni di contadini per modificare
dal basso la situazione esistente. Sotto certi aspetti questi problemi
e queste lotte sono collegati, in modo organico, allo sviluppo della rivoluzione
cinese nel suo lungo corso dai T'ai-p'ing al 1949; sotto altri aspetti
rientrano nella complessa problematica della costruzione del socialismo;
sotto altri ancora si ricollegano al lungo corso storico della vita della
Cina, della sua terra, del suo popolo, ma anche della sua cultura e della
sua classe dirigente. Tre filoni che non devono mai essere visti isolatamente
e che rendono comunque la storia della Cina contemporanea un oggetto degno
di ricerca, di indagine e di discussione.
[da: Storia della rivoluzione cinese, Editori Riuniti, 1972;
2^ed.1982 pp.440/441]
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