Questione irachena
e questione italiana

 Roberto Gabrieli

 

Abbiamo sottolineato, fin dall’inizio, che la resistenza irachena avrebbe avuto un significato strategico e che, in caso di sconfitta dei progetti americani si sarebbero modificati gli equilibri internazionali determinatisi dell’ultimo decennio. In altri termini, la resistenza irachena, la sua forza e capacità di impantanare il Blitz Krieg americano, avrebbe modificato il corso storico determinato dal riflusso dell’89.

Su questo presupposto essenziale andavano misurati tutti gli altri avvenimenti, compreso il fatto che il movimento contro la guerra, pur importante, non poteva esprimere che un livello testimoniale, dal momento che la determinazione americana alla guerra prevede esplicitamente di non considerare l’opinione mondiale, ma di creare con la forza delle armi e con quella degli interessi situazioni di fatto irreversibili.

Un nuovo nazismo, fatto di menzogne, di tecnologia militare e di misticismo reazionario ha invaso il pianeta. C’è voluta la resistenza irachena a bloccare questa strategia neonazista. Come a Stalingrado e in tutta l’Europa combattente si andavano infrangendo i sogni hitleriani di dominio assoluto, così la civiltà imperialista yankee ha trovato il suo punto di crisi.

Una crisi profonda che non è solo di strategia militare, ma di strategia tout court, in quanto la potenzialità bellica non può essere dispiegata oltre in assenza di una strategia politico-diplomatica. Evidentemente Bush e suoi accoliti non hanno approfondito Von Clausewitz. Non hanno capito che non bastano le bombe ‘intelligenti’ a risolvere i conflitti, ma ci vuole un obiettivo praticabile militarmente e politicamente. In Iraq nulla di questo si è verificato. Si va avanti con l’uso di Quisling mascherati da arabi, di stragi per prosciugare l’acqua in cui nuota la resistenza, ma la resistenza cresce e si indurisce militarmente.

Per mascherare la sconfitta, gli imperialisti yankee rilanciano il terrorismo, quello vero, con la carta cecena, coi rapimenti di dubbia provenienza, per confondere le acque e far crescere l’orrore tra i popoli che in occidente devono sostenere e approvare la guerra.

Qual’è il ruolo dei comunisti in questo contesto? Innanzitutto di sostenere la resistenza irachena, non solo perchè siamo contro l’occupazione dell’Iraq, ma anche perchè, come si è detto all’inizio, la vittoria della resistenza irachena modifica i rapporti di forza internazionali e apre nuove prospettive ai popoli.

Il compito che spetta direttamente a noi è quello di ingaggiare una lotta decisa contro il cumulo di menzogne e l’ipocrisia che accompagna la guerra. Il concetto di terrorismo viene usato indiscriminatamente per i palestinesi e per gli iracheni, per i combattenti antimperialisti dei paesi islamici e per atti di vero terrorismo che vengono progettati negli uffici della CIA e in quelli del Mossad. La resistenza può usare il terrorismo, legittimamente, laddove esso si dimostri necessario per raggiungere un fine giusto. Ma il segno tra questo tipo di terrorismo e il terrorismo bieco alla cecena è politicamente evidente e bisogna saperlo individuare nell’analisi degli avvenimenti.

Ora, però, da questo punto di vista la situazione italiana si è complicata. A manipolare l’opinione pubblica non è solo Berlusconi e la destra, ma è intervenuta tutta la sinistra ‘perbenista ‘ e governativa a dare man forte al governo che sostiene la guerra di Bush e tiene 3000 militari in Iraq.

La questione irachena è diventata anche una questione italiana. L’incontro a palazzo Chigi tra governo e ‘opposizione’ ha creato un clima di unità nazionale che non solo ha permesso a Berlusconi di accreditare l’ipotesi di un terrorismo in guerra contro l’occidente, ma ha spostato completamente l’asse dello scontro politico, azzerando l’effetto che il movimento contro la guerra ha avuto in questi anni.

Sembra di rivivere l’epoca della approvazione dei crediti di guerra da parte dei socialisti europei nella prima guerra mondiale. E per certi versi l’effetto che ha avuto questa ennesima svolta bertinottiana ha un significato simile. Come la seconda internazionale è naufragata con la guerra imperialista del 1915, così la rifondazione comunista è sfociata in un appoggio sostanziale ai fautori del pericolo del terrorismo che nei fatti azzera il concetto di guerra imperialista e di necessaria risposta dei popoli attaccati.

La gestazione di questa svolta ha avuto le sue premesse nelle teorie sul novecento come secolo di ‘errori e di orrori’ e sulla non violenza. Mancava l’unità nazionale contro il terrorismo e questa è arrivata puntualmente dopo il sequestro di due addette alle ONG, che riproduce l’immagine neocoloniale dei selvaggi sanguinari nemici della civiltà imperialista. Che questa civiltà si fondi sulle stragi quotidiane, sulle torture, sui bombardamenti che radono al suolo intere città, non fa notizia se non nella misura in cui è il terrorismo che li produce, con un capovolgimento netto di causa ed effetto.

Se all’inizio della vicenda irachena avevamo il problema di lottare contro un governo che appoggiava la guerra e inviava le truppe, oggi abbiamo di fronte anche la necessità di separare nettamente i nostri destini da una sinistra ipocrita e imperialista che parla di pace e copre la guerra.

Non dobbiamo temere di rimanere isolati. La nostra forza sta nel dire la verità e su questa verità costruire le basi di una nuova forza politica. Non vi è dubbio difatti che la salita di Bertinotti a palazzo Chigi pone ai comunisti che stanno dentro e fuori Rifondazione il problema di separare i propri destini da un nuovo socialimperialismo a cui è approdato il PRC e di creare un nuovo riferimento politico.

Sappiamo che con le parole questo problema non si risolve, ma i fatti dimostrano che il politicismo e le trovate postsessantottine sono altrettanti percorsi fallaci. L’Iraq diventa quindi un punto di svolta per riprendere un percorso comunista.


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