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Le debolezze della sinistra e l'esigenza di ricostruire un partito comunista di quadri e di massa
Iperliberismo, privatizzazioni, egemonia del capitale. E' stato solo il "ventennio berlusconiano"?
di Fosco Giannini
su l'Ernesto Online del 11/11/2010
Il lungo e melmoso
regno di Berlusconi – a detta di molti e salvo sorprese che possono ancora e
verosimilmente scaturire da un senso comune di massa italiano ormai fortemente
nord americanizzato, cioè svuotato in tanta parte di coscienza politica e civica
- sembrerebbe alla fine.
Sarebbe questo, per delineare l’alternativa, il tempo dei bilanci seri, di lungo
respiro, anche se tali bilanci – vera e propria esigenza strategica - non
sembrano certo segnare il “pensiero”, la ricerca ed il progetto della “sinistra”
italiana, sia di quella ormai liberista, sia di quella moderata che di quella
radicale e anticapitalista.
Il bilancio, l’analisi potrebbero essere focalizzati sugli ultimi vent’anni, sul
cosiddetto “ventennio berlusconiano” ( definizione per la verità impropria,
poiché il potere berlusconiano non è stato totale, ma inframmezzato da
significative fasi governative del centro sinistra) e dovrebbero gramscianamente
estendersi alle trasformazioni dei processi produttivi, al disfarsi e al nuovo
farsi della “classe”, al ruolo della cultura dominante, al cambiamento dei
costumi e del senso comune di massa, alla penetrazione imperialista, al grado di
subordinazione del capitalismo italiano alle multinazionali estere, alla natura
attuale – dunque- del capitalismo italiano, al ruolo egemone degli USA e della
NATO, al grado di involuzione subordinata delle forze di sinistra e sindacali in
questo ventennio e via dicendo.
In questa minima sede vorremmo limitarci a mettere, sinteticamente, a fuoco un
solo “moto” dell’ultimo ventennio : l’onda alta e possente dei processi di
privatizzazione. E vorremmo mettere a fuoco tale “moto” poiché convinti che esso
riassuma in sé ( in esso si riflettono) diversi altri e decisivi “moti”: il
rafforzamento dell’egemonia capitalistica, la vittoria strategica dei suoi
spiriti animali e delle forze iperliberiste e reazionarie, la privatizzazione
dello Stato, la sottosalarizzazione di massa, la vastissima precarizzazione del
lavoro, la disoccupazione, sino alla stessa messa in mora della Costituzione
repubblicana, a partire dai suoi articoli in difesa del Lavoro.
Per poter ragionare dobbiamo innanzitutto svolgere un’operazione di grande
semplicità, ma necessaria in questa fase tendente alla cancellazione quasi
totale del principio di realtà ( funzionale agli interessi della classe e della
cultura dominante) e della perdita della memoria storica, anche della memoria
storica recente.
Per affrontare quello che – ripetiamo: impropriamente – viene definito il
“ventennio berlusconiano” dobbiamo dunque e semplicemente ricordare ( per
riguadagnare la realtà dura delle cose ed evitare le superstizioni) quali
governi si sono succeduti in questa ultimissima fase storica, quella –
fondamentalmente – successiva alla caduta della “Prima Repubblica”. E potremmo
assumere, come spartiacque tra la “Prima” e la “Seconda Repubblica “, l’ XI
Legislatura, quella che inizia con il governo ( di centro-sinistra) Amato il 23
aprile 1992, finendo con il governo (sempre di centro sinistra) Ciampi il 14
aprile del 1994. La XII Legislatura inizia poi con la vittoria del centro destra
e l’instaurazione del primo governo Berlusconi ( che sta in piedi dal 10 maggio
1994 sino al 22 dicembre dello stesso anno), finendo con il governo Dini (
quello del primo attacco durissimo contro il sistema pensionistico pubblico) che
va dal 17 gennaio del 1995 al 17 maggio del 1996).
La XIII Legislatura è segnata dalla vittoria del centro sinistra, dura dal 9
maggio 1996 sino al 29 maggio del 2001 ed è caratterizzata da ben quattro
governi di centro sinistra : primo governo Prodi, governo D’Alema, D’Alema bis,
governo Amato.
Il 12 giugno del 2001 ( XIV Legislatura) si instaura il secondo governo
Berlusconi, che dura sino al 23 aprile del 2005 e al quale succede un Berlusconi
bis, che sta in piedi sino al 17 maggio del 2006.
La XV Legislatura è quella dell’ultimo governo Prodi ( coalizione tra Ulivo,
PdCI, PRC, Udeur, Verdi, Italia dei Valori, Rosa nel Pugno) un’esperienza
governativa complessa, contraddittoria e tuttora da analizzare seriamente, ma
che un fatto certo ha prodotto: la messa in crisi dei due partiti comunisti
italiani. E dopo l’ultimo governo Prodi è il tempo del governo Berlusconi, che
stiamo ancora vivendo e che sembra in disfacimento.
Come si evince dalla semplicissima cronistoria, non è esistito, in verità,
nessun “ventennio berlusconiano” ( almeno dal punto di vista del potere
istituzionale, della natura e della successione dei governi, anche se un
“ventennio” – ed anche un “trentennio berlusconiano” – è esistito dal punto di
vista di un’egemonia turpe e reazionaria: quella che potremmo, appunto, riferire
al “Signore di Arcore” e al suo molteplice – non solo mediatico - dominio).
Certo è – anticipiamo l’analisi – che in questo ventennio in cui centro destra e
centro sinistra si sono alternati al governo i processi di privatizzazione non
hanno trovato – fondamentalmente - soluzione di continuità.
Di quale portata e di quale rilevanza – per riprendere il filo del nostro
discorso – sono stati, dunque, questi processi di demolizione delle aziende
pubbliche, del welfare?
Possiamo iniziare così: tali processi partono in Italia, in modo organico, nel
1992 ( governi di centro sinistra); essi muovono da una doppia spinta, non certo
di carattere popolare ma elaborata e sussunta dalle classi dominanti:
l’emergenza finanziaria e le forti pressioni della Commissione Europea (CE). Gli
argomenti liberisti e popolarizzati ( nel senso che si riesce a farli accettare
– anche in virtù del ruolo non antagonista, ma spesso complice, delle forze
sindacali e di sinistra - dal senso comune di massa come razionali ed
inevitabili) che sostengono i progetti di privatizzazione sono i seguenti :
“l’esigenza di migliorare l’efficienza delle imprese da privatizzare,
l’accrescersi della concorrenza dei mercati, l’esigenza di ampliare il mercato
mobiliare e promuovere l’internazionalizzazione del sistema industriale e,
infine, l’obiettivo di aumentare le entrate dello Stato e ridurre il debito
pubblico” ( disegno generale che, sostanzialmente, segnerà sia i governi
berlusconiani che quelli del centro sinistra lungo il “ventennio”).
Come ha scritto Sergio De Nardis su Il Mulino, “ in seguito a tale politica, in
verità, il processo italiano di dismissione di asset pubblici è stato molto
ampio, tra i più ampi in Europa. Tra il 1993 (anno in cui si sono avute le prime
dismissioni) e il settembre 2000, la cessione al mercato di quote di aziende
pubbliche è ammontata a circa 208.000 miliardi di lire; il 66% di questo valore
è stato realizzato dopo il 1996. La cifra complessiva di 208.000 miliardi è pari
al 13,3% del PIL del 1993; mediamente, dunque, la vendita di partecipazioni
pubbliche tra il 1993 e il 2000 ha comportato incassi pari a 1,7 punti di PIL
dell’anno iniziale. Prendendo come termine di riferimento il Regno Unito, il
paese europeo che maggiormente ha privatizzato negli ultimi vent’ anni, nel
periodo di massima accelerazione delle privatizzazioni (1984-99) questa economia
ha realizzato incassi totali pari al 23% del PIL dell’anno iniziale o,
equivalentemente, in media 2,1 punti all’anno del PIL dell’anno iniziale”.
Nella seconda metà degli anni novanta ( sino ad oggi) i processi di
privatizzazione entrano poi nella loro fase più selvaggia, impudica e
antipopolare, la fase dell’attacco alla Sanità pubblica, alla Scuola,
all’Università ( vi è un filo di continuità tra i decreti Berlinguer e il
disegno scellerato della Gelmini), ai Centri di Ricerca e Studio, ai Trasporti,
alle Poste: in quella, insomma, dell’aggressione liberista all’intero sistema
dei servizi di pubblica utilità. Un attacco che si estende in breve alle
Telecomunicazione, all’Enel e al monopolio del Gas.
Per ciò che riguarda le tre grandi “utilities” italiane, ad esempio ed in modo
estremamente sommario, oggi possiamo inequivocabilmente registrare il fatto che,
per ciò che riguarda le Telecomunicazioni, lo Stato è uscito di fatto dal
controllo dell’ex monopolio ( attraverso, tra l’altro, un attacco durissimo
all’occupazione e alle condizioni di vita dei lavoratori residui) e che fu la
stessa Autorità Antitrust a parlare di “ privatizzazione profonda della Telecom
Italia”; per ciò che riguarda l’Energia elettrica il Tesoro detiene ormai – dopo
la liberalizzazione avviata nel 1999 dal decreto Bersani - solo il 50% del
capitale e i segni di un ulteriore processo di privatizzazione vanno
moltiplicandosi; per ciò che riguarda il monopolio del Gas basti dire questo: le
direttive liberiste dell’Unione europea sono state non solo totalmente accolte,
ma si è stati certamente più papisti del papa, dato che il famigerato decreto
Legislativo Letta, n° 164, del 23 maggio 2000, ( governo di centro sinistra) è
andato ben oltre il semplice recepimento della direttiva liberalizzatrice CE,
spianando invece la strada ad una destrutturazione completa del monopolio
pubblico in un settore strategico e tanto legato agli interessi di massa come
quello del Gas e centrale per la vita quotidiana delle famiglie, dei cittadini e
di tante attività.
A tutto ciò va aggiunto, naturalmente, l’ampio capitolo delle privatizzazioni
bancarie, dei Trasporti ( Alitalia, Fincantieri, Tirrenia, oltre le Ferrovie
dello Stato), dell’acqua, del settore dell’Aeronautica e della Difesa (
Finmeccanica): tutte privatizzazioni portate avanti dal centro destra in modo
determinato ma – spesso con la stessa tenacia - anche dal centro sinistra. Basti
pensare ai cantieri navali italiani, alla Fincantieri, che oggi con Berlusconi
come ieri con i governi di centro sinistra avrebbero avuto bisogno, per salvarsi
e rilanciarsi sui mercati internazionali, non di dismissioni, spinte liberiste e
cassa integrazione di massa come preludio al licenziamento o al
prepensionamento, ma di un rapporto pubblico più forte con l’ENI, al fine di
riconquistare il mercato mondiale e nazionale attraverso una produzione
qualitativamente nuova, alta e specifica: quella di navi per trasporto gas e
navi mercantili simili, cosa mai avvenuta né accennata, poiché il rapporto
strategico tra Fincantieri ed ENI (tutto pubblico) avrebbe significato, agli
occhi del liberismo che oggi segna sia la destra che il centro sinistra, una
sorta di “sovietizzazione”.
Un dato è già certo: l’intero processo di dismissioni e privatizzazioni
dell’ultimo ventennio porta ad una (socialmente drammatica quanto politicamente
ed economicamente sconcertante) valutazione del valore delle partecipazioni
residue in mano al Tesoro e all’IRI che ormai rappresenta circa il 40% del
valore totale di soli 10/15 anni fa.
Perché vorremmo che questa analisi ( da noi appena abbozzata, solamente – e
rozzamente - evocata) venisse sviluppata, anche nei dettagli, dalle forze della
sinistra? Lo vorremmo perché sarebbe davvero ora che la sinistra italiana,
almeno quella volta alla trasformazione sociale, iniziasse a riconquistare il
senso della realtà, a costruire un progetto a partire dalle basi materiali, a
delineare un’analisi concreta della situazione concreta. Per capire, perché si
cambi decisamente strada, obiettivi, linea strategica. Un’analisi certamente non
viziata dal pregiudizio idealistico che centro destra e centro sinistra siano
“le due destre”, come in una certa fase sostennero intellettuali di sinistra,
Bertinotti e tanta parte dell’area “bertinottiana”, un’analisi sbagliata,
massimalista e non casualmente destinata a rovesciarsi nel suo doppio
minimalista e degenerare nel governismo acritico. Abbiamo bisogno di un’analisi,
invece, capace di riconsegnare senso storico e sociale alla “classe” e alle
forze del cambiamento.
Perché l’analisi concreta della situazione concreta ci dice brutalmente che
l’ultimo ventennio berlusconiano e di centro sinistra è stato, fondamentalmente,
solidale nel condividere il disastroso e antipopolare processo di
privatizzazioni; che le fase attuale – segnata dalla dura egemonia capitalista e
iperliberista e dalle altrettanto dure imposizioni liberiste dell’Unione europea
– spinge pesantemente a “ terminare il lavoro sporco” volto alla
destrutturazione completa del pubblico; che per contrapporsi a tali spinte
occorrerebbe una politica in forte controtendenza che appare essere ancora molto
lontana dai progetti moderati e subordinati dell’attuale centro sinistra e del
Partito Democratico; che le forze comuniste, della sinistra di classe e
d’alternativa ( pur non rinunciando ad una battaglia comune volta a liberare il
Paese da Berlusconi) non hanno quasi nulla, o poco, da condividere con l’attuale
centro sinistra e con esso non possono governare.
Perché, soprattutto, questa fase ancora fortemente segnata dall’onda ormai
lunghissima e non destinata a spegnersi in tempi brevi dell’iperliberismo e
dall’attacco violento contro il movimento operaio complessivo, contro i diritti
e contro la stessa democrazia borghese residua, necessita oggettivamente – sul
piano sociale e storico – che rientri in campo ( come dimostra la grande
vittoria del Partito comunista in Grecia) il soggetto più conseguentemente
anticapitalista e antiliberista; il soggetto che addensa in sè – per scienza,
filosofia di fondo, vittorie storiche e storia concreta vissuta – il progetto
più razionalmente antitetico allo sfruttamento capitalistico e alle sue pulsioni
distruttrici; il soggetto che più di ogni altro può battersi contro le spinte
privatizzatrici provenienti dall’Unione europea e dall’attuale, “ottocentesco”,
capitalismo italiano e lottare per il ritorno di un forte ruolo pubblico
nell’economia.
Questo soggetto è il partito comunista, che ogni comunista consapevole – ovunque
collocato ( nei partiti organizzati e fuori di essi) - è chiamato oggi a
ricostruire e rilanciare, sia sul piano dell’accumulazione di forze militanti
che su quello di un profilo politico e teorico che – a partire dal grande
pensiero e dalla grande storia comunista – si forgi all’interno delle nuove e
vive contraddizioni capitalistiche, all’interno di quella vera e propria fucina
politica e culturale che è il vivere e il condurre la lotta di classe .