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rossa-lavoro politico
Angiolo Gracci (fondatore):la vita, gli
scritti
La partita non è chiusa, bisogna resistere e rilanciare, imparando dall’esperienza
Intervista a Fosco Giannini, della direzione
del PRC e
direttore de l’Ernesto
pubblicata
su L'ERNESTO del 10/06/2009
Non si abbandona
un progetto strategico solo perché in un passaggio elettorale è mancato lo
0,6% dei voti A cura della
redazione, 9 giugno 2009
Ferdinando Dubla (direttore):biografia e opere
Costruzione a sinistra di un vasto fronte sociale e
politico di opposizione, con basi di massa, autonomo dalla strategia moderata
e compatibilista del Partito
Democratico; costruzione di una convergenza unitaria – nella lotta - di tutto
il sindacalismo di classe, confederale e di base, in piena autonomia dal
progetto adattativo di CISL e UIL e di una parte della CGIL; autonomia e unità
dei comunisti, per la ricostruzione processuale del loro partito.
Sono questi i tasselli di un progetto e di un processo in cui le diverse
questioni vanno tenute insieme, ma non confuse,
vanificate o compresse l’una o nell’altra.
Sono processi distinti, complementari, che in molti casi
si intrecciano e si rafforzano a vicenda, a condizione che non vengano
confusi l’uno con l’altro, pena il fallimento degli uni e degli altri.
Il nostro sito ha già espresso alcune valutazioni iniziali (tutte da
approfondire) sulla dimensione europea del voto del 6-7 giugno. Vuoi provare a
mettere a fuoco una prima riflessione sulla dimensione italiana di quel voto,
a partire dal non raggiungimento del quorum da
parte della lista comunista e anticapitalista?
Sento in primo luogo l’esigenza di proporre a tutte/i i
militanti comunisti e della sinistra, ovunque collocati, una lettura severa,
rigorosa, ma non disfattista del mancato raggiungimento del quorum. E sento il
dovere di chiedere ai dirigenti comunisti ( di ogni
livello: di Circolo, di fabbrica, di Federazione e nazionali) di non
disorientare, di respingere ogni sentimento di abbandono e delusione ma, al
contrario, di sollevare lo stato d’animo, di rincuorare, di richiamare
all’impegno e alla lotta. Guai a noi se lasciassimo passare, nonostante le
obbiettive (e comprensibili) difficoltà politiche e
psicologiche del momento, uno stato d’animo di rinuncia o di resa. Saremmo
degli strani rivoluzionari se bastasse uno 0,6% per cento di voti in meno (la
cui portata certo non sottovaluto), per farci abbandonare un progetto politico
che ha una dimensione strategica, vorrei dire persino una sua proiezione
storica.
Se avessero fatto così le poche migliaia di militanti comunisti italiani
rimasti a combattere nell’Italia degli anni Venti e Trenta, non vi sarebbe
stata alcuna Resistenza popolare negli anni successivi.
Quando parli di un progetto strategico, a cosa ti riferisci
concretamente?
In estrema sintesi potrei dirti: ricomporre l’autonomia e l’unità politica,
teorica e organizzativa dei comunisti in Italia in un solo partito, come perno
e fattore dinamico contestuale – non c’è un prima e
un poi – della ricostruzione di un ben più vasto schieramento sociale e
politico di lotta per il cambiamento della società.
Ciò significa oggi in primo luogo costruire un fronte sociale e politico di
forte opposizione alla politica di questo governo, in piena autonomia dalla
politica moderata e compatibilista del Partito
Democratico, ma capace di coinvolgere – nella lotta
- una parte significativa della sua base sociale popolare, operaia, di
sinistra.
Pensi dunque che il Partito
Democratico, e le socialdemocrazie europee in genere, siano esposte ad
emorragie verso sinistra, oltre che verso destra?
Il voto europeo evidenzia una crisi profonda delle socialdemocrazie, delle
sinistre moderate, che va acquisendo caratteri non contingenti, dunque di
grande interesse sia per le forze conservatrici (che in questa crisi pescano a
piene mani), ma anche – in positivo - per le forze comuniste e
anticapitaliste, che in alcuni paesi europei conseguono su
questo terreno risultati importanti.
Dove i partiti comunisti (di impianto e cultura
leninista) mantengono e sviluppano il loro radicamento e il loro ruolo sociale
e politico di classe (penso ad esempio alla Grecia e al Portogallo) si allarga
– grazie a questo ruolo – anche uno spazio sociale, politico, anche culturale
per una sinistra critica, non comunista (vedi Synaspismos
greco e Bloco de Izquierda
portoghese) in grado di raccogliere ed organizzare la diaspora
socialdemocratica e capace di diventare punto di riferimento per spezzoni di
sinistra sociale e politica non immediatamente conquistabili dai partiti
comunisti. Tutto il baricentro si sposta a sinistra, poiché anche il movimento
sindacale (dove è forte, radicato ed influente un
partito comunista) assume caratteri di classe e di lotta.
In Grecia e Portogallo, ad esempio, non solo il voto europeo conferma la
tenuta o l’avanzata dei due partiti comunisti, fortemente
insediati nelle organizzazioni sindacali e nel mondo del lavoro (il KKE è
all’8,4%, il PCP al 10,7); ma evidenzia anche la crescita di due formazioni di
nuova sinistra (il Synaspismos raggiunge il 4,7%,
il Bloco de Izquierda
raddoppia i suoi voti e cresce fino al 10,7%). Ne deriva, complessivamente,
una realtà a sinistra della socialdemocrazia, che occupa uno spazio sociale,
politico ed elettorale del 15-20%, che spezza il bipolarismo e il
bipartitismo, si inserisce nella crisi della
socialdemocrazia liberale, e ne insidia l’egemonia a sinistra.
E ciò avviene perché ognuno “fa la sua parte”: i comunisti
fanno i comunisti (con i loro limiti, e certo non indico modelli…) e
gli altri fanno la loro. Se dovessero fondersi – come qualcuno vorrebbe fare
in Italia – in formazioni indistinte “di sinistra”, puoi star certo che
sarebbero guai per tutti, ne verrebbero fuori
litigiose ed eterogenee formazioni, pronte a dividersi alla prima seria
divergenza.
Perché allora questa differenza così marcata tra Portogallo e Grecia, da
una parte, e ad esempio Spagna e Italia dall’altro?
Bisognerebbe qui riflettere più a fondo, tentando anche un bilancio
storico dell’eurocomunismo e del processo di
socialdemocratizzazione dei partiti
comunisti di Spagna, Italia e Francia (un processo che viene da lontano). Non
è probabilmente un caso se, soprattutto in Spagna e in Italia (più segnati
della Francia dall’esperienza eurocomunista) ci troviamo oggi vicini al
rischio di estinzione (o autoestinzione) non solo
dei partiti comunisti, ma anche delle formazioni di “nuova sinistra”.
Più articolata è la situazione in Francia, dove l’esistenza di un PCF
strutturato e ancora “in mezzo al guado”, la persistenza di una sinistra
socialista (esterna al PS) più combattiva, e di
componenti trotzkiste che hanno mantenuto una loro influenza di massa, fa sì
che – diversamente da Italia e Spagna – il campo della sinistra
anticapitalistica francese vi esprima complessivamente un’area attorno al
12-13 %, ancorché assai divisa e frastagliata (anche all’interno stesso del
PCF, il cui avvenire resta incerto).
In una fase che dura da circa vent’anni, essenzialmente causata dalla ferrea
volontà del capitale di non stringere compromessi col mondo del lavoro, di
respingere politiche keynesiane puntando all’abbattimento dei salari, dei
diritti e dello stato sociale, la crisi della socialdemocrazia liberale
europea trova le sue basi materiali nell’impossibilità (e non volontà) di
operare – quando governa – una drastica
redistribuzione del reddito per fornire risposte sociali anche minime al
movimento operaio e ai popoli, duramente colpiti dalla crisi capitalistica e
dalle “compatibilità” dei vari capitalismi nella competizione globale.
E senza possibilità di redistribuzione della ricchezza sociale, le
socialdemocrazie liberali perdono ruolo sociale e
senso storico, entrano in crisi di consenso e di radicamento rispetto al loro
insediamento sociale popolare, operaio, più colpito dalla crisi. Si apre qui
uno spazio potenziale di consenso, di organizzazione, di lotta, per le forze
comuniste e anticapitaliste: ma ciò richiede che la loro forza,
credibilità, soggettività sia all’altezza della
situazione, e spesso non è così o non lo è stato. E allora, in questi casi, il
malcontento dei ceti più poveri va a destra, o si rifugia nell’astensione e in
un qualunquismo disfattista.
Che cosa pensi dell’avanzata della Linke
tedesca, che molti indicano come una sorta di modello da imitare?
E’ un fatto positivo che la Linke sia
avanzata (dal 6,1 al 7,5 %), ma vorrei dire col massimo di nettezza che
quella esperienza ha una peculiarità storica (la
riunificazione delle due Germanie) che la rende
del tutto imparagonabile alle altre esperienze europee, e tanto meno
esportabile, come dicono per primi gli stessi compagni tedeschi.
Tale esperienza nasce dal processo di unificazione
di due formazioni politiche non comuniste, di ispirazione dichiaratamente
socialista e/o socialdemocratica (come la WASG di
Lafontaine e la PDS post-comunista), espressioni per giunta di due
entità geo-politiche che fino a poco più di 15 anni fa erano addirittura due
Stati appartenenti a due blocchi contrapposti. E con una ricorrente campagna
anticomunista in Germania che accusa la componente
ex PDS di essere una entità in cui si annidano migliaia di agenti della Stasi
(il servizio segreto della ex DDR). In quale altro paese europeo esiste un
dibattito di questa natura?
C’è senz’altro una limpida coerenza politico-ideologica, apertamente
dichiarata, in questa fusione socialdemocratica di sinistra tra
Wasg e PDS, che però ha poco a che vedere con la
problematica della rifondazione di un partito comunista, che è altra cosa.
Veniamo ancora all’Italia. C’è chi sostiene che il mancato raggiungimento del
4% rappresenta una sconfitta di fase, che richiede pertanto un mutamento
radicale di linea politica. Tu che ne pensi?
Il superamento del 4% sarebbe stato simbolicamente un obiettivo molto
importante e con la conquista di alcuni parlamentari europei vi sarebbero
state basi materiali e risorse aggiuntive importanti. Tuttavia: se il processo
unitario dei comunisti era giusto e necessario prima del voto, se il partito
comunista è un’esigenza sociale e storica (come è)
e non una coazione a ripetere, una fissazione nella testa di alcuni, tale
esigenza non è cancellata dalla mancanza di uno 0,6% di consensi. Saremo
obbligati a fare politica meglio, con meno sprechi, ottimizzando l’uso delle
risorse.
Le difficoltà che abbiamo trovato sul cammino sono state immense: la lista
comunista unitaria è andata alle elezioni sulla scorta di una sconfitta
storica, quella dell’Arcobaleno, non ancora “espulsa” dal senso comune del
nostro popolo; siamo andati alle elezioni sulla scorta di una pesantissima
scissione avvenuta nelle file del PRC, la scissione dell’area
Vendola, di Sinistra e Libertà, che ha trovato
appoggi importanti sia nel PD che negli stessi
“media” borghesi, erodendo consensi ; siamo giunti al voto con l’improvvisa
entrata in campo del PCL di Marco Ferrando, che ha eroso anch’esso
(disperdendoli consapevolmente) consensi decisivi per il possibile
raggiungimento del 4% ; abbiamo assistito alla deplorevole azione di certi
“dirigenti comunisti” che per frustrazione e opportunismo hanno vigorosamente
lavorato al fine di spostare consensi comunisti verso Di Pietro, per far
consapevolmente del male alla Lista comunista; siamo andati al voto sotto una
cappa egemonica di destra terrificante e sotto un dominio dei media che ha
letteralmente espulso (molto più dei radicali di Pannella) i comunisti dalle
televisioni e dai giornali; abbiamo aperto la campagna elettorale in ritardo,
rispetto ad altre forze, poiché nel PRC persistevano dubbi e contrarietà
rispetto alla Lista comunista unitaria e tali dubbi non hanno certo aiutato a
mettere in campo la giusta passione politica per la Lista ed il progetto che
essa sottendeva ( chi ha fatto la campagna elettorale, chi è stato nei mercati
e davanti alle fabbriche sa che pochi lavoratori e cittadini esterni ai due
partiti comunisti sapevano della costituzione della Lista comunista unitaria e
quando si spiegava a chi non sapeva nulla che era partito il processo unitario
dei comunisti la risposta era sempre la stessa : “finalmente un po’ di unità:
la voto!”. Ma, appunto, per mille motivi, pochi
sapevano…
Infine, vi sono state aree e Federazioni, all’interno del PRC – poco
innamorati ( per usare un eufemismo) della Lista
unitaria – che sicuramente non si sono dannate l’anima nella campagna
elettorale e ciò si è aggiunto alla fragilità organizzativa – che la campagna
elettorale ha dimostrato tutta – che segna ormai una parte significativa
dell’intero PRC. Con tutto ciò abbiamo raggiunto il
3,4 % su una Lista comunista, più di quanto non avessero ottenuto le forze
dell’Arcobaleno nel loro insieme.
Dico tutto questo non per esorcizzare il problema del radicamento dei
comunisti in Italia e le loro debolezze strutturali; dico questo affinché non
si creda (e non si dica) che la base materiale della sconfitta sia da
rintracciare nel progetto unitario che ispirava (e ispira)
la Lista comunista. Anzi, dobbiamo dire che con ogni probabilità è stato
proprio questo progetto unitario a permetterci di riconquistare una parte
significativa dell’elettorato e della militanza
comunista.
Non è il momento di mollare, proprio adesso che abbiamo comunque invertito una
tendenza. C’è spazio per ripartire, anche in Italia, come si è visto anche in
altri paesi europei.
Che fare dunque, qui ed ora?
Primo: non farci intimorire o deludere dal mancato raggiungimento del 4% e
rilanciare con determinazione il progetto dell’unità dei comunisti, della
riunificazione dei due partiti comunisti e della
riorganizzare della diaspora comunista. A partire da
quel milione e 200 mila di persone che ci hanno dato fiducia.
Secondo: lavorare alla costruzione a sinistra di un vasto
fronte sociale e politico di opposizione, con basi di massa, autonomo dalla
strategia moderata e compatibilista del
Partito Democratico. Esso non si costruisce su base
ideologiche, ma con un programma minimo d’azione, attorno ad alcuni
obbiettivi qualificanti e condivisi, di forte impatto sociale.
Terzo: costruire una convergenza unitaria – nella lotta -
di tutto il sindacalismo di classe, confederale e di base, in piena autonomia
dal progetto subordinato di CISL e UIL e di una parte della CGIL. Senza
una sponda sindacale, l’appello alla mobilitazione sociale organizzata
resta una parola vuota.
Quarto: autonomia e unità dei comunisti, per la
ricostruzione processuale del loro partito. E ciò è cosa distinta
(semmai complementare) dalla costruzione di un “polo di sinistra”; e richiede
la strutturazione di suoi peculiari momenti di riflessione teorica, di
dibattito politico, di iniziativa nel Paese. Su ciò
chiediamo a tutti impegni e pronunciamenti chiari, e non bisticci di parole.
Sono questi, a mio modesto avviso, i tasselli di un progetto e di un processo
in cui le diverse questioni vanno tenute insieme,
ma non confuse, vanificate o compresse l’una nell’altra.
Sono processi distinti, complementari, che in molti casi
si intrecciano e si rafforzano a vicenda, a condizione che non vengano
confusi l’uno con l’altro, pena il fallimento degli uni e degli altri.