linea
rossa-lavoro politico
Angiolo Gracci (fondatore):la vita, gli
scritti
Da oltre
vent’anni si pone, in Italia, la questione comunista
Di Fosco Giannini
Ferdinando Dubla (direttore):biografia e
opere
Mai come oggi, peraltro e di fronte all’ormai evidente e fragoroso fallimento
del progetto politico e teorico della rifondazione comunista ( parliamo,
appunto, del fallimento del “progetto”, quello che tutti ci accomunò dopo la
fine del Pci, non parliamo del PRC, anch’esso – d’altra parte – in grandi
difficoltà), la questione della ridefinizione di un profilo teorico, analitico e
programmatico del partito comunista, è questione decisiva e centrale.
Tornano in mente, a partire da questa esigenza, da questa consapevolezza, le
aspre battaglie condotte da Lenin –a partire dal “ Che fare ? ” – per imporre la
centralità della questione teorica ( “ non vi è movimento rivoluzionario senza
pensiero rivoluzionario” ), obiettivo – quello di Lenin – fortemente osteggiato,
anche nei primi anni del ‘900 ( il “ Che fare?” è del 1902-1903) e in nome “ del
movimento è tutto”, anche da forze tra le più avanzate di allora. Basti pensare
a quanto lottò, contro l’assunto leninista, un giornale importante come il
“Rabocee Delo” ( a dimostrazione di quanto quasi nulla sia nuovo sotto il cielo,
anche la sottovalutazione, e persino lo sprezzo, per il lavoro politico –
teorico).
Vogliamo subito asserire – rispetto a tutto ciò – che il Documento per il VI
Congresso del nostro Partito, indipendentemente persino dal livello politico e
teorico raggiunto, indipendentemente dai punti critici che potranno essere messi
in luce, è essenzialmente e inequivocabilmente segnato da una volontà,
scientemente e chiaramente perseguita dai suoi estensori: la volontà di
contribuire – come già aveva fatto e fa il libro “ Ricostruire il Partito
comunista” – alla ridefinizione del profilo politico e teorico mancante.
Non un Documento di routine, dunque, ma un lavoro che per la sua organicità e
voluta complessità e pregnanza opera un cesura con molti lavori del passato,
candidandosi a svolgere il ruolo di secondo mattone ( dopo il libro di
Diliberto, Giacchè e Sorini) per un’aggiornata edificazione di un pensiero
comunista forte, che naturalmente non liquidi ma metta a valore – seppur, quando
serve, criticamente - la grande cultura e la grande storia del movimento
comunista del ‘900.
Già nell’Introduzione al Documento si evince con chiarezza che nulla vi è di
consueto o routinario: E’ scritto: “ Con questo Congresso scegliamo
autonomamente di essere “ superabili” e, pertanto, ci mettiamo a disposizione
della ricostruzione di un nuovo e più forte Partito comunista, a partire
dall’unificazione con il Partito della Rifondazione Comunista...”.
E’ la conferma della proposta dell’unità dei comunisti e del progetto della
ricostruzione e del rilancio di un Partito comunista, sì unitario ma
completamente autonomo dal punto di vista teorico, ideologico, organizzativo,
strategico dalla costellazione delle “sinistre”, che pur vanno unite nella
battaglia contro questo inquietante e corrotto regime berlusconiano.
Una scelta, una linea, non da poco, certo non estemporanee, poiché messe
meritoriamente a fuoco e praticate dal gruppo dirigente del PdCI sin
dall’adesione all’Appello per l’unità dei comunisti dell’aprile 2008 e nello
stesso Congresso di Salsomaggiore. Una scelta controcorrente, che sfugge alla
spinta omologatrice dei tempi, sfugge alla sirena della “sinistra vaga”, delle
“sinistre vaghe” – con tutti gli aggettivi possibili, ma vaghi – dotando
oltretutto questo PdCI che punta chiaramente al non facile progetto della
“ricostruzione del Partito comunista” - di una linea politica netta, capace di
costruire unità interna, capace di suscitare l’interesse di aree comuniste
esterne e senso strategico. E diciamo questo con cognizione di causa, poiché
purtroppo vediamo come la mancanza di una linea chiara, ad esempio, crei molti
problemi e gravi contraddizioni all’interno del PRC, ancora incerto su quale
strada percorrere: rilancio del progetto di Rifondazione? Di una rifondazione
bertinottiana ? Post- bertinottiana ( quale, poi...)? Di una Die Linke italiana
?
Ed è anche nel primo capitolo ( Capitalismo e Socialismo) che si tocca con mano
lo sforzo costruttivo, anche creativo, degli estensori, che sfuggono sia alle
sirene liquidazioniste che alle deleterie apologie della storia comunista :
“ Affrontare con serietà la questione del socialismo nel XXI secolo significa
fare i conti rigorosamente con l’esperienza complessiva del socialismo e del
movimento comunista del ‘900”. Ma anche : “ Il crollo dell’URSS non rappresenta
né la fine della storia, né la fine del movimento comunista”. Si invita a
studiare ciò che è stato per mettere a valore i meriti e i molti punti positivi
delle esperienze che nascono dalla Rivoluzione d’Ottobre e non a cancellare una
storia per ammainare una bandiera. Nel contempo non si vincola la storia attuale
e futura del movimento comunista al crollo sovietico; non ci si consegna ad un
filosovietismo di maniera secondo il quale – scomparsa l’URSS e il campo
socialista – verrebbe meno la possibilità della ricostruzione di una forza
comunista in Italia. Ricollegandosi con ciò al Gramsci segnato dal connubio
oggettività delle cose – azione soggettiva, riconsegnando ai comunisti il loro
ruolo soggettivo, da svolgere – ora e domani – sul piano nazionale e sul piano
mondiale. E lo stesso socialismo non viene riproposto come una mera “coazione a
ripetere”, ma come la risposta razionale alla crisi e al fallimento storico del
capitalismo: “ L’esigenza di riproporre, alle soglie del terzo millennio, la
questione del socialismo, nasce non dall’utopia, ma dalle contraddizioni vecchie
e nuove che il capitalismo in quanto tale è incapace di risolvere”. Il rifiuto
del progetto socialista, del senso del Partito comunista come “coazioni a
ripetere”, come inclinazioni teologiche non è cosa da poco. E la riproposizione
del socialismo (e del Partito comunista) come risposte razionali ai processi di
spoliazione su scala mondiale dell’imperialismo, come risposte al suo sistema di
guerra, è l’anticipazione di un atteggiamento antidogmatico e materialista che
potrà essere applicato sia verso la definizione analitica del presente che in
relazione al lavoro progettuale.
Uno dei capitoli più pregnanti ( e in netta controtendenza rispetto a certa
inclinazione di stampo idealista, politicista e tutta appiattita sul contingente
nazionale di molti documenti congressuali dell’esperienza comunista successiva
al PCI) è quello intitolato “La crisi dell’economia reale”. Qui viene analizzata
l’ultima, trentennale, fase capitalistica, sino a giungere alla crisi mondiale
del 2007. Qui viene recuperata appieno, in forma dinamica, analitica e non
accademica, la categoria dell’imperialismo e delle contraddizioni
interimperialistiche, anche come griglia di lettura delle dinamiche e delle
contraddizioni dell’attuale capitalismo mondiale. Una scelta non da poco, se si
pensa ai tentativi possenti di derubricare la categoria leninista
dell’imperialismo non solo “ a sinistra”, ma all’interno stesso del PRC. Ed è
con la riassunzione piena della “questione imperialista” che si volta pagina,
puntando anche ad uscire da quell’ambiguità teorica – che ha segnato una parte
non secondaria dell’ esperienza comunista italiana, tendente a subordinare la
scienza alla sovrastruttura – in cui alto è stato il rischio di invischiarsi in
un idealismo umanista tendente a rimuovere l’ impostazione marxista e
materialista.
Il recupero pieno, nel Documento politico, di un linguaggio e di uno stile
analitico che finalmente sono più accostabili alla lezione di un Antonio Pesenti,
di uno Sraffa, invece che a quella di un militante “toninegrista”, riconsegna ai
comunisti una base materiale di lettura della realtà macroeconomica di cui si
sentiva davvero e da tempo la mancanza.
Con la stessa impostazione neomaterialista, peraltro, si affrontano nel
Documento anche le questioni dell’Unione europea e della natura del capitalismo
italiano. L’Unione europea non più interpretata solo come eventuale contraltare
dell’imperialismo USA, ma come soggetto dal carattere “neoimperialista”,
carattere peraltro del tutto guadagnato sul campo e sulla pelle dei popoli
europei. E la definizione del capitalismo italiano come “nano capitalismo” non è
certo accademica, ma tendente a configurare un capitalismo per molti versi
ancora straccione, incapace di concorrere sul piano internazionale con i poli
capitalistici forti e volto dunque, per mantenere il proprio saggio di profitto,
ad un supersfruttamento operaio, all’abbattimento dei salari, dei diritti e
dello stato sociale. Un nano capitalismo che non evoca certo una possibilità
immediata di compromessi neokeynesiani e chiede piuttosto – per l’asprezza
particolare del conflitto di classe che suscita – che sia in campo un Partito
comunista dal carattere conseguentemente antimperialista, anticapitalista,
votato essenzialmente al conflitto sociale. Contro l’egemonia Usa e della Nato;
contro le politiche iperliberiste dell’Unione europea; contro il potere
capitalista italiano.
Fortemente innovativo, dal punto di vista dell’analisi complessiva proposta, è
il capitolo “ L’ascesa della Cina”.
“Si può ancora dire che il comunismo è stato sconfitto dalla storia?
In molti continuano a rispondere in modo affermativo a questa domanda. Poiché
pensano che la poderosa ascesa della Cina sia dovuta ad una presunta conversione
al neoliberismo.
Domandiamoci allora: perché mentre la nostra economia è in crisi, la Cina cresce
a ritmi vertiginosi?
Alcuni rispondono che ciò avviene per una sorta di concorrenza sleale che
consente alla Cina di attrarre capitali stranieri grazie alla sua enorme riserva
di manodopera a costi notevolmente inferiori a quelli dei Paesi sviluppati. È
fin troppo facile controbattere che nel mondo vi sono tantissimi altri Stati che
hanno a disposizione infiniti eserciti industriali di riserva, ma che nessuno di
essi riesce ad esercitare la stessa forza attrattiva della Cina.
La risposta, dunque, è che la Cina non è come questi Paesi, ma un paese ad
orientamento socialista e con una economia mista in cui convivono piano e
mercato, e con un ruolo centrale del pubblico nelle scelte strategiche dello
sviluppo”.
Sarà forse un po’ pleonastico, ma credo valga davvero la pena citare questo
incipit del capitolo sulla questione cinese, un incipit denso che ha già in sé
la forza di rovesciare assunti deboli, pigri e fondamentalmente subordinati alla
cultura dominante, che sulla Cina dilagano anche a sinistra e in non marginali
aree comuniste italiane.
Il punto di vista di chi scrive è che anche in relazione alla questione cinese
il Documento congressuale recuperi un approccio materialista, una visione
concreta del quadro mondiale ( capire il ruolo che la Cina svolge, con tutto il
Brics, nei positivi cambiamenti dei rapporti di forza mondiali, in senso
antimperialista) che un approccio idealista non permetterebbe e non permette di
scorgere.
E anche il modo, lo stile, col quale il capitolo si chiude è fortemente
apprezzabile, poiché spinge i comunisti del XXI secolo a non subordinare la
propria azione soggettiva ad altri e nuovi “ fari”. E anche qui conviene la
citazione:
“Una riflessione, questa, che mettiamo a disposizione senza dogmi, con la
volontà di aprire un confronto. Non spetta a noi, infatti, dare attestati di
comunismo alla Cina, né dire ai cinesi come dovrebbero realizzare il socialismo
in un Paese da un miliardo e trecento milioni di persone, né attribuire alla
Cina e al suo Partito Comunista il ruolo di modello per il mondo, per altro non
replicabile nell’Europa e nell’occidente del capitalismo avanzato. Non esistono
Stati o partiti guida né sono oggi pensabili forme di organizzazione come quelle
che in altri contesti storici caratterizzarono l'esperienza della Terza
Internazionale. Spetta a noi, invece, riconoscere che la Cina sta dando un
contributo decisivo a rimettere in moto la dialettica della storia contro chi la
voleva finita”.
L’offensiva unitaria verso il PRC – per l’unità dei comunisti – è rilanciata con
nettezza d’intenti nella parte conclusiva della prima parte del Documento
politico. Un’offensiva unitaria alla quale segue – dialetticamente – il progetto
( centrale) della costruzione del Partito comunista.
La categoria del Partito come “intellettuale collettivo” (sulla quale e a lungo
si è incentrata la carica distruttiva del bertinottismo e del vendolismo); la
democrazia interna al Partito comunista; il rapporto ineludibile del Partito con
le forze e con le spinte sociali “orizzontali” e con i movimenti di lotta; il
ruolo da vivificare, sul piano dell’azione sociale e di lotta, delle sezioni
territoriali; la centralità dell’organizzazione del Partito nei luoghi di lavoro
e nel cuore del conflitto capitale-lavoro ( le forme d’organizzazione leniniste
e gramsciane da troppo tempo dismesse nel movimento comunista italiano, dal PCI
degli anni 70 in poi, alle successive organizzazioni comuniste del nostro
Paese); la questione – determinante – di una scuola quadri, cioè dell’elevazione
della coscienza ( una coscienza critica, volta sia ad aumentare il livello
culturale dei militanti e dei quadri ma volta anche a sconfiggere i deleteri
fenomeni di conformismo interno e subordinazione ai capi di Partito: ci
ricordiamo come il 70% dei delegati al Congresso di scioglimento del PCI, quello
del 3 febbraio del 1991, si sottomise un po’ miseramente alla volontà del capo,
di Achille Occhetto?) ; la necessità estrema della messa a valore dei quadri
femminili nel partito; la stessa questione di genere: tutto ciò per costruire un
Partito che aderisca il più possibile alle pieghe del reale e non faccia della
presenza istituzionale l’unico totem politico, ma per costruire un Partito che
individui essenzialmente nelle lotte, nella capacità di stare in piazza, di
fronte e dentro le fabbriche e nei luoghi di lavoro e di studio, nella lotta
antimperialista, contro le guerre e la NATO il terreno privilegiato
dell’organizzazione del proprio consenso sociale e politico.
Fosco Giannini, 10 ottobre 2011