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 NOTE SULLA "QUESTIONE COMUNISTA OGGI"

 

 Oltre alla necessità di riprendere e approfondire lo studio di Lenin e Gramsci, per chi intenda ricostruire un partito comunista di massa in Occidente è paradossale non rapportarsi a sufficienza con la più riuscita esperienza di questo tipo, ossia con la vicenda del Partito comunista italiano. Il confronto fra soggettività e l'unità della sinistra

 

 

----- Alexander Hoebel -----

 

 

 

Intervengo volentieri nella discussione che “Aurora” ha opportunamente avviato sulla questione comunista oggi. Anch’io come i compagni della redazione1 vorrei partire dall’offensiva ideologica che l’avversario sta conducendo contro il comunismo e il marxismo da vari anni a questa parte; direi da decenni, e in fondo da circa un secolo, considerato che di “crisi del marxismo” si parla ciclicamente dai tempi di Antonio Labriola.

Come rilevano i compagni, l’attacco si è intensificato negli anni ’70 – gli anni cioè in cui l’imperialismo, con la crisi energetica e la sconfitta in Vietnam, conosceva il suo momento di massima difficoltà sul piano mondiale e avviava la controffensiva. In Italia alle forze tradizionalmente conservatrici e reazionarie si aggiunse quel PSI di Craxi che oggi viene celebrato per aver “capito” per primo la “modernizzazione” (leggi: per aver capito per primo l’imbarbarimento anche culturale del capitalismo maturo, averlo promosso e avergli dato una legittimazione ideologica), ma anche giornali di area “progressista” come “la Repubblica”, che per anni ha avuto la sua brava pagina anticomunista a scadenza settimanale, salvo poi ridurne la frequenza allorché, in era berlusconiana, si è resa conto che l’anticomunismo esasperato porta dritto dritto al fascismo; negli anni ’80, poi, e soprattutto dopo la morte di Berlinguer, a questo attacco hanno preso a partecipare anche uomini e settori del PCI, con le rivelazioni sul “triangolo della morte”, l’inizio della demolizione della figura di Togliatti ecc.

Dopo i disastri del 1989-91 l’offensiva è diventata una valanga; le porte del fortino sono state aperte dall’interno e l’avversario ha fatto strame del patrimonio comunista, coadiuvato da schiere di intellettuali e politici pentiti. Finita la guerra fredda, è cominciata la riscrittura della storia da parte dei vincitori, il revisionismo storico ha trovato finanziatori e sostegni di ogni tipo, si è intensificato l’uso dei media nella costruzione di una memoria a uso e consumo delle classi dominanti e dei paesi imperialistici ecc. Molti hanno pensato che fosse venuta l’ora di “sfilarsi”, di dire che con la storia del movimento comunista, dell’URSS ecc., non si aveva niente in comune, e sono iniziati quei “nuovismi” che non riguardano solo Occhetto e i DS, ma anche parte del gruppo dirigente divenuto maggioritario nel PRC. Non si è capito che la demonizzazione della vicenda dell’Unione Sovietica e del movimento comunista è essenziale per delegittimare ogni alternativa di sistema, è un asse portante del pensiero unico del capitalismo mondializzato, e che sottrarsi opportunisticamente a questo confronto può salvare qualche percentuale elettorale, ma sui tempi lunghi porta a un discredito di fondo di ogni ipotesi alternativa e quindi una sconfitta generale.

 

Alla debolezza delle risposte date anche in questa campagna elettorale agli attacchi dell’avversario (con Berlusconi che spara cifre senza limiti sulle “vittime del comunismo” senza che nessuno lo contraddica, perché a noi interessa parlare delle “cose concrete”...) si contrappone la necessità ormai improrogabile di una risposta forte sul piano culturale, storiografico e teorico, la quale necessita di strumenti (Centri studi come quello sulla transizione che stiamo cercando di costruire, riviste ecc.), momenti di confronto (convegni, seminari ecc.) e una rinnovata attenzione ai problemi della formazione dei quadri e dell’attività di comunicazione rivolta all’esterno, a lavoratori, studenti ecc., anche utilizzando quegli spiragli che è possibile trovare nel mondo dei media, magari su dimensione locale o costituendo nuovi network e reti alternative.

Il primo punto su cui occorre battere è la difesa e ricostruzione critica della nostra storia, della storia del movimento comunista e antimperialista, e in generale del movimento operaio e democratico. In particolare, è necessario riprendere l’analisi degli esperimenti di transizione al socialismo avutisi nel Novecento, ribadendo con Marx – come ha fatto A. Catone anche su queste pagine – che “la transizione al socialismo comprende un’intera epoca storica”, e che essa (come D. Losurdo ha più volte argomentato) “è anche un lungo processo di apprendimento”, che non si improvvisa né si risolve in pochi decenni2. Inquadrare la questione in questi termini significa ricollocarla correttamente nella sua dimensione storica, rimettere al centro le condizioni oggettive in cui sono maturati i grandi percorsi di transizione che hanno caratterizzato il secolo scorso, e considerare che essi hanno avanzato parallelamente al processo di formazione di un mercato mondiale capitalistico, rispetto al quale hanno costituito una grandiosa “anomalia”, le cui carenze strutturali relative in particolare allo sviluppo delle forze produttive – assieme all’accerchiamento capitalistico e alla guerra fredda – hanno portato alla sua sconfitta (che è cosa ben diversa da “fallimento”) e al suo “riassorbimento” nel sistema. Più in generale, il movimento operaio, socialista e comunista, è stato l’erede e il continuatore della grande tradizione illuministica e rivoluzionaria settecentesca, trovandosi costantemente, nel corso del secolo, alla testa delle più significative lotte di emancipazione, progresso, difesa della democrazia e della libertà, che l’umanità ha dovuto compiere; in questo quadro non sono mancati fenomeni involutivi, errori soggettivi e persino tragedie individuali e collettive, ma ciò rientra nella fenomenologia di qualsiasi movimento storico, politico o religioso che ha avuto qualche incidenza nella realtà, dal cristianesimo alla rivoluzione francese e al liberalismo.

E qui veniamo al secondo punto, che è quello di una rinnovata critica del capitalismo e dell’imperialismo, della loro realtà attuale e della loro storia. Occorre cioè rovesciare l’offensiva che l’avversario conduce, ribaltando i termini del confronto, e riaprendo un dibattito pubblico su ciò che è significato nella storia il capitalismo – col suo corredo di colonialismo, imperialismo, guerre mondiali, dittature e totalitarismi –, e ciò che esso significa oggi; su quali siano, cioè, i costi in termini di vite umane, risorse naturali, imbarbarimento civile ecc., che questo modello, ormai tendenzialmente mondializzato, comporta per l’umanità e per il Pianeta. Potremmo accorgerci che è esso il sistema sociale responsabile delle maggiori distruzioni (intrecciate, certo, a enormi progressi, come la dialettica insegna) verificatesi nella storia umana, e che tuttora i suoi meccanismi economici, finanziari, politici e militari mietono migliaia di vittime ogni giorno. Altro che “crimini del comunismo”! Si tratta di una controffensiva indispensabile, avviata da alcuni autori come lo stesso Losurdo3, ma cui occorre dare una dimensione e un respiro di massa, partendo dal nuovo mondo del lavoro salariato e dalle nuove sensibilità critiche cresciute in questi anni (eco-pacifismo, movimento no-global ecc.), ma portando loro il patrimonio del pensiero marxista e comunista e inducendole ad essere conseguenti sul piano teorico e politico. Non è dunque solo un contrattacco, quello di cui stiamo parlando, ma una critica dell’economia politica e della società capitalistica adeguata all’oggi.

C’è poi un terzo punto, altrettanto necessario, che è la ricostruzione di una teoria e di un’identità comunista del XXI secolo. È, ovviamente, un percorso tutto da fare, ma con la consapevolezza che non si parte da zero, che c’è un immenso patrimonio storico e teorico cui attingere, e che esistono alcuni punti fermi, obiettivi essenziali di un programma minimo di transizione, da cui è possibile ripartire. Ne cito solo alcuni:

a)   la prevalenza della proprietà pubblica – e tendenzialmente della proprietà sociale – rispetto alla proprietà privata di risorse e mezzi di produzione, il che nell’immediato chiama in causa un nuovo ruolo dello Stato, dell’impresa pubblica e di un suo nuovo protagonismo in tutti i settori, dall’industria ai servizi al mercato finanziario;

b)   in stretto collegamento con questa esigenza, vi è quella di una programmazione democratica dell’economia – e tendenzialmente di una pianificazione sociale – che consenta, attraverso l’impresa pubblica, ma anche con un ruolo di indirizzo dello Stato rispetto alle scelte dei privati (vedi l’elaborazione del PCI negli anni ’60), e soprattutto attraverso un nuovo protagonismo di massa organizzato e istituzionalizzato che si eserciti mediante enti di controllo e gestione popolare di servizi e imprese, di far prevalere l’interesse collettivo su quello individuale e aziendale, e di ottenere un’allocazione delle risorse non solo più giusta ma anche più efficiente, poiché non gravata dal peso sempre più rilevante del capitale speculativo, dagli sprechi, dalla produzione di beni superflui ecc.;

c)   al fondo di questa proposta sta l’idea di ribaltare i fini della produzione di merci, mirando alla prevalenza del valore d’uso sul valore di scambio, ossia alla priorità dell’utilità sociale di beni e servizi rispetto al loro valore meramente economico determinato dal mercato: occorre cioè rovesciare la dinamica capitalistica della riproduzione illimitata e insensata di capitali e merci a prescindere dalla loro utilità;

d)   partendo da tale impostazione e proiettandola sul piano internazionale, è possibile riproporre la questione della gestione democratica e redistribuzione delle risorse su scala mondiale, come unico modo per garantire la vita a tutto il genere umano a partire dalle risorse esistenti, evitando la tragedia della fame nel mondo, e al tempo stesso tutelare l’ambiente, scongiurando il concreto pericolo di crisi ecologica globale determinato dal meccanismo di riproduzione capitalistica;

e)   tutto ciò comporta l’apertura di un percorso che, accanto al rafforzamento dello Stato nazionale e alla sua riqualificazione in senso democratico e sociale, tenda a un governo democratico mondiale dell’economia e della politica, attraverso nuove istituzioni sovranazionali;

f)    infine – ma è il punto comune alla base di tutto quanto detto – occorre che si rimetta al centro il problema del potere politico, sia sul piano teorico, tornando a riflettere sul nesso tra democrazia (ossia “potere del popolo”) e socialismo (suo sinonimo sul piano storico e sociale), e dunque affrontando la crisi della democrazia in atto nel mondo (con l’accrescersi della distanza tra dominanti e dominati e la crisi della partecipazione) e ponendo l’obiettivo di una forma-Stato riqualificata proprio in senso democratico; sia sul piano pratico, lottando cioè per un mutamento dei rapporti di forza tra le classi su scala internazionale e per un’unità sempre più forte delle lotte e delle organizzazioni del proletariato mondiale, cominciando col ridare a quest’ultimo la coscienza di essere un’unica classe, con interessi di fondo comuni che vanno al di là – e sono l’esatto opposto – della competizione capitalistica;

g)   al fondo di tutto ciò, sul terreno delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione, sta l’obiettivo della riduzione – e tendenzialmente del superamento – della divisione sociale del lavoro, e in particolare della contrapposizione tra lavoro manuale e intellettuale, esecutivo e direttivo, reso sempre più possibile dello sviluppo dei mezzi di produzione e dalle nuove tecnologie, a patto che sia chiaro che non è affatto un processo inevitabile e nemmeno in atto (checché ne pensino Negri & C.), poiché va aumentando invece la subordinazione e l’espropriazione dello stesso lavoro intellettuale e del “capitale cognitivo” posseduto dai lavoratori.

 

Corollario e al tempo stesso presupposto di tutta questa impostazione è la ripresa di un altro cardine della teoria e della prassi comunista, dal leninismo all’elaborazione togliattiana, che consiste nella dimensione di massa come elemento irrinunciabile e peculiare dell’azione politica dei comunisti. Come ha osservato su queste pagine G. Bacciardi, “la concezione minoritaria che caratterizza attualmente le presenze comuniste necessita di trasformarsi in concezione maggioritaria”4. Occorre quindi uscire dal minoritarismo, superare tale realtà di fatto cominciando col liberarsi di una concezione errata; rimettere al centro, oltre alla lotta ideologica, il lavoro di massa, e dunque la costruzione dei necessari organismi ad essa finalizzati, compresi nuovi strumenti e luoghi di aggregazione, di modo che essa non sia lasciata alla spontaneità e all’inconcludenza. Rivitalizzare le sedi di partito, affiancare loro una rete di moderne “Case del popolo” (o meglio “dei popoli”), riaprire la discussione e riprendere l’iniziativa sulla questione sindacale, ridando la parola ai lavoratori, mi sembrano possibili punti da cui partire.

Occorre, insomma, riavviare la rifondazione comunista. In Italia questo progetto ambizioso ed entusiasmante, che nei primi anni ’90 aveva mobilitato centinaia di migliaia di persone, è in una fase di impasse, impantanato nelle secche del nuovismo del gruppo dirigente del PRC, faccia complementare del nuovismo DS, essendo entrambi uniti – come è stato sottolineato su queste pagine5 – nell’andare “oltre il Novecento” e in una sua sostanziale rimozione. Alla Bolognina occhettiana si è affiancata un’azione graduale ma sistematica di Bertinotti volta a smontare pezzo a pezzo i capisaldi del patrimonio comunista, dalla categoria di imperialismo a quella di egemonia, dal ruolo del Partito alla prevalenza della categoria di classe su quella di individuo, con una concezione che – nonostante il terzomondismo di facciata – è assolutamente eurocentrica e “occiddentocentrica”.

Anche da parte di chi continua a rivendicare l’identità comunista, però, non sempre si è prodotto uno sforzo di analisi adeguato. In particolare, oltre alla necessità di riprendere e approfondire lo studio di Lenin e Gramsci, per chi intenda ricostruire un partito comunista di massa in Occidente è paradossale non rapportarsi a sufficienza con la più riuscita esperienza di questo tipo, ossia con la vicenda del Partito comunista italiano. Occorre cioè, come si è scritto anche in interventi che mi hanno preceduto6, recuperare criticamente quanto è ancora vitale dell’elaborazione togliattiana, della teoria e prassi di un partito come il PCI che è stato la formazione politica europea che abbia maggiormente impensierito la propria borghesia nazionale e l’imperialismo nel suo complesso, pesando molto dall’opposizione e giungendo vicino all’obiettivo di mutare in modo significativo i rapporti di forza in Italia (ma con una proiezione che andava anche oltre), nonostante quel limite di politicismo che ha finito poi col prevalere, accelerandone la deriva.

Ma che cosa è ancora vivo di quella concezione? In primo luogo la grande lezione del partito di massa; in secondo luogo il suo presupposto teorico essenziale, ossia il concetto gramsciano di “guerra di posizione”. Ha ragione dunque A. Catone quando lo richiama e aggiunge che “nel battersi per un ritorno e un consolidamento del settore pubblico”, occorre far sì che esso sia “effettivamente pubblico”, e dunque “affrontare il difficilissimo compito di educare e far fare esperienza alle masse sulla gestione pubblica, collettiva e trasparente, di scuola, servizi sociali e anche settori chiave dell’economia. Noi non possiamo concepire la transizione al socialismo – conclude – senza una grande partecipazione di massa, senza che la direzione e gestione sociale dell’economia diventi un’abitudine per milioni di persone”7.

È questo, mi pare, il punto comune delle idee di Marx, del leninismo (che è riuscito in parte a realizzarlo) e dell’idea di “programmazione democratica” proposta dal PCI negli anni ’60. E sarebbe interessante immaginare quali prospettive avrebbero potuto aprirsi – anziché quella della liquidazione e della sconfitta – se, nei primi anni ’90, davanti alla crisi di Tangentopoli, il PCI, piuttosto che autodistruggersi, avesse ricondotto quel fenomeno non a una questione moralistica e giudiziaria, ma a quello che era un problema squisitamente politico, il problema di un keynesismo distorto in cui importava solo che il danaro pubblico “girasse” in modo da far “girare” l’economia, per cui, mancando qualsiasi controllo popolare sui flussi di spesa, fatalmente questi finivano anche nelle mani di qualche politico corrotto, anche perché se il ponte o la strada finanziati rimanevano a metà non importava; non contava il valore d’uso, la finalità sociale per cui i fondi erano stati stanziati, ma solo il loro valore di scambio, il fatto appunto di far andare avanti il sistema immettendo nuovi capitali (pubblici) in circolo; che cosa sarebbe accaduto quindi se in quei frangenti si fosse riproposto il tema del controllo e della gestione democratica dell’economia, oltre che dell’utilità sociale degli investimenti pubblici?

Comunque, come si dice, non è mai troppo tardi. Dal momento che il tema è vivo (come di tanto in tanto ci ricorda qualche “scandalo”) e continuerà ad esserlo, e si lega alla questione più generale del controllo pubblico dell’economia e in particolare dei flussi finanziari, è presumibile che esso possa costituire un significativo terreno di iniziativa politica (anziché di esercitazioni moralistiche) nei prossimi anni.

Tornando infine al tema della rifondazione comunista in Italia, mi pare che abbiano ragione i compagni di “Aurora” quando scrivono che, nell’immediato, sono auspicabili due processi complementari, ossia un indispensabile confronto e riavvicinamento dei vari soggetti e forze politiche che si richiamano al comunismo, collocando al tempo stesso questa operazione in un percorso più ampio per l’unità della sinistra propriamente detta8, direi della “sinistra di alternativa”, in modo da contrapporsi in modo forte e credibile al progetto moderato del Partito riformista o democratico che sia. A tal fine, l’idea di un incontro nazionale sulla questione comunista da organizzarsi in modo ampio e non minoritario9, con tutte le forze che si rifanno al nostro grande patrimonio teorico e politico, mi pare vada ripresa e realizzata al più presto. È tempo, per i comunisti, di ricominciare a discutere e a organizzarsi.

 

Alexander Höbel

              Centro studi sui problemi della transizione socialista

da L'Aurora nr.3/06

 

Note

 

1 Nel limite culturale le difficoltà della sinistra, “l’Aurora”, luglio 2005.

2 A. Catone, La strategia della sinistra radicale europea e la via per la società socialista, ivi, novembre 2005.

3 D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005.

4 G. Bacciardi, Rovesciare i termini per realizzare l’unità della sinistra, “l’Aurora”, gennaio 2006.

5 Ibidem; L. Ghelli, A proposito del limiti culturali della sinistra, ivi, settembre 2005.

6 Catone, La strategia della sinistra radicale europea e la via per la società socialista, cit.

7 Ibidem.

8 Il pericolo non è solo Berlusconi, ivi, settembre 2005.

9 G. Favaro, S. Valentini, Una prop

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