Perché confondere, nella vicenda della radiazione del 'Manifesto' (ma non solo), l'atteggiamento della cosiddetta componente 'filosovietica' del Pci con le responsabilità della tipica cultura politica togliattiana?
Ferdinando Dubla
"Tra il 15 e il 17 ottobre del 1969, relatore lo stesso Natta, trentanove membri del Comitato Centrale si espressero sul caso Manifesto. (..) L'ordine del giorno conclusivo - che non comminava provvedimenti disciplinari, ma decideva di aprire un dibattito nel partito - venne approvato con i voti contrari dei soli Natoli, Pintor e Rossanda e le astensioni di Lucio Lombardo Radice (che aveva tra l'altro collaborato al 'manifesto' su una linea cordialmente prudenziale), Cesare Luporini e Sergio Garavini. "
Nella seduta del Comitato centrale del 25 e 26 novembre si deliberò la 'radiazione' per Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Aldo Natoli. Poco più tardi un provvedimento amministrativo venne adottato per Lucio Magri e non vennero rinnovate le iscrizioni per Massimo Caprara, Valentino Parlato e Luciana Castellina.
Il Manifesto quotidiano uscì il 28 aprile 1971, il partito nacque nel novembre dello stesso anno e si presentò alle elezioni politiche del 7 maggio 1972.
Anche secondo Ajello, una delle componenti del Pci maggiormente ostile al gruppo del Manifesto fu quella cosiddetta 'filosovietica'. Ma dalle stesse dichiarazioni di Ambrogio Donini riportate a suffragio della tesi, traspare un giudizio politico che è così articolabile: se si sopporta un'eresia come quella del marxismo critico del gruppo Magri-Rossanda, perché mai non dovrebbe sopportarsi un'organizzazione interna che si richiami al più conseguente marxismo-leninismo e all'internazionalismo proletario? Il fatto che la seconda 'componente' abbia introiettato una concezione della disciplina tale da rendere impossibile quella organizzazione, non significa che occorra 'obbedir tacendo'. Nei suoi interventi, Pietro Secchia mirerà certo a prendere le distanze dalla complessiva cultura politica del gruppo, che infatti non gli appartiene, ma sosterrà che le posizioni 'eretiche' sono molto più vicine e ai contenuti e allo stile delle posizioni ufficiali dei gruppi dirigenti, che non altre, quelle stesse che nella pubblicistica amano appunto definirsi di matrice 'filosovietica':
"Certe posizioni, certe affermazioni assunte allora e per lungo tempo mantenute dalla nostra stampa, non sono state senza influenza nello stimolare, nell'incoraggiare certi compagni ad assumere determinate posizioni ed a prendere certe iniziative che noi oggi siamo chiamati a giudicare (..) Oggi, non nascondiamocelo, l'antisovietismo è largamente diffuso in larghi settori dell'opinione pubblica ed anche nel nostro stesso partito (..) Oggi l'ultimo ragazzino dispone in Italia di un giornale o di una rivista. E' assurdo che dei compagni non possano servirsi del giornale o delle riviste del loro partito per esprimere quello che pensano sui problemi essenziali che ogni giorno sorgono nel paese e sul piano internazionale."
Il giudizio di Dalmasso secondo cui queste "sono posizioni che non rivelano solo nostalgie e non solamente proiettate verso il passato, ma che postulano un mutamento del partito, una maggiore utilizzazione di tutte le energie disponibili, un timore quasi istintivo per possibili snaturamenti", è, come quello della Rossanda, francamente sbrigativo e liquidatorio, oltre che pregiudiziale, in quanto non tiene conto che, per questa componente del Pci (né corrente né frazione) emarginata ai vertici del partito, lo snaturamento del Pci è già avvenuto e lo scontro tra le 'due linee' è, a loro modo di vedere, uno scontro interno ad una stessa linea, frutto della mutazione revisionista del partito, purtroppo poco reversibile.
Il Manifesto, insomma, è figlio, ora considerato degenere, della storia del Pci del dopoguerra, che ha visto la progressiva e violenta emarginazione dei comunisti portatori di una cultura e prassi politica coerentemente leniniste. Semmai, v'è da dire, che Secchia, così come Donini e altri, non sottolineano, in quel momento, la contraddizione dialettica che sono costretti a sopportare, anche se in tanti altri momenti trasparirà nella loro riflessione e in particolare in quella di Secchia: da una parte un gruppo con una visione troppo lontana dal marxismo-leninismo, ma tanto vicina ai movimenti rivoluzionari del '68. Dall'altra, un gruppo dirigente, erede del togliattismo, che utilizza strumentalmente metodi e strumenti terzinternazionalisti concepiti originariamente per lo smascheramento degli opportunisti, ma sempre più lontano sia dal marxismo-leninismo sia dal movimento studentesco e operaio del '68/'69.
L'internazionalismo è una scelta di campo che Secchia rivendica sempre, per sè e per il partito, ma ciò non azzera la dialettica e la concezione materialistico-dialettica profondamente marxiana nella lettura degli eventi storici: indubbiamente il gruppo de Il Manifesto è dalla parte della Cecoslovacchia di Dubcek e Secchia è dalla parte dell'URSS, ma entrambi, paradossalmente, intravvedono nella natura sociale del paese del socialismo innumerevoli crepe che hanno portato anche a quella situazione. Il gruppo de Il Manifesto condivide le critiche maoiste e cinesi alla sclerosi burocratica sovietica per il filtro della 'rivoluzione culturale' (ma la matrice maoista scomparirà gradualmente dal codice genetico del gruppo), Secchia è contro i frutti perversi del revisionismo kruscioviano, ma non può accettare 'la guerra' tra i due più grandi paesi del socialismo, nè che possa dichiararsi una equiparazione tra imperialismo americano e 'socialimperialismo sovietico' (ciò che lo distanzierà, nonostante le tante affinità di linea politica e di analisi, da raggruppamenti come il Movimento Studentesco di S. Toscano e dagli altri gruppi di matrice maoista, di gran lunga più vicini alle sue concezioni che non quelle del Manifesto).
L'accusa frustra di 'stalinismo' per queste posizioni di Secchia (e altri) sul caso Manifesto, è datata e stantìa. Non è qui il caso di soffermarci con ampiezza su questo luogo comune a sinistra come a destra , ma, tenendo fermo che Secchia non fu mai un antistalinista (così come il suo stalinismo al tempo di Stalin fu un'identificazione tout-court con i valori e i princìpi del comunismo, la qual cosa condivise con la stragrande maggioranza dei dirigenti del Pci, pur senza opportunismo filisteo che ben altri, tra i quali Togliatti, ampiamente dimostrarono) conviene riportare questo stralcio dai 'diari' del 1956, annotazioni a margine della discussione in Comitato Centrale del giugno sulla base del rapporto di Togliatti:
" (..) io dubito della veridicità di alcune parti delle critiche di Krusciov a Stalin. Certe critiche mi riescono altrettanto incomprensibili e misteriose quanto certi processi all'epoca di Stalin. (..) Ma oggi che apprendiamo che quei processi sui quali dubitammo erano per gran parte delle mostruose montature, oggi che rimproveriamo ai compagni sovietici di non essersi accorti per molto tempo degli errori di Stalin e di non avervi posto fine in tempo, non possiamo più seguire l'antico costume, trovarsi di fronte a cose assurde e incredibili, dubitare e tacere."
E infatti il 17 dicembre di quell'anno fatidico, Secchia venne anche estromesso dalla direzione, immolato sull'altare del 'nuovo corso' di Togliatti, passato indenne da ogni stagione, stalinista o antistalinista.
Diamo a Secchia quel che è di Secchia e chiamiamo alle responsabilità politiche degli accadimenti storici, così come di quelli presenti, coloro che difficilmente 'sbagliano' la loro posizione nel travaglio dialettico della storia e per un motivo abbastanza semplice: essi amano sempre i vincitori della propria parte politica.
Ma questo c'entra o non c'entra con i limiti dell'italica sinistra attuale?
L'ultimo aggiornamento di questa pagina e' stato effettuato venerdi, 11 settembre 1998
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