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Convegno - Napoli, 21-23 novembre 2003: I problemi
della transizione al socialismo in URSS
Problemi economici del
socialismo: le questioni poste alla società sovietica e al nostro
presente
di Andrea Catone
Il testo
di Stalin Problemi economici del socialismo
in URSS del 1952 si colloca strategicamente al centro della storia
dell’URSS, è l’ultimo testo significativo di Stalin prima della sua morte, è a
metà strada della parabola della storia sovietica, a 35 anni dalla grande
rivoluzione d’ottobre e altrettanti dall’ascesa di Gorbacev e l’inizio di quella
cosiddetta perestrojka che nel
volgere di pochi anni porterà l’URSS alla dissoluzione.
E’ una fase che
richiede necessariamente una riflessione sul cammino percorso e su quello ancora
da compiere: i bolscevichi al potere hanno superato con successo, anche se al
prezzo di grandissimi sacrifici, prove difficilissime. Non solo – e non era
certo un fatto scontato – hanno mantenuto il potere, impedendo che la
rivoluzione russa facesse la fine della Comune di Parigi, hanno saputo resistere
alle aggressioni esterne e consolidare il potere; ma hanno altresì vinto la
difficilissima battaglia di fuoriuscita dall’arretratezza che sembrava
condannare il paese a rimanere ai margini dello sviluppo economico mondiale e
quindi, in definitiva, a svolgere il ruolo di un’economia dipendente da quelle
imperialistiche più forti. Tra il 1929 e il 1941 il paese passa da
prevalentemente agricolo a industriale, con un tasso di sviluppo che susciterà
l’incredulità o la rabbiosa denigrazione degli studiosi borghesi, ma anche
l’ammirazione e lo studio di quanti vedono nell’URSS un modello di superamento
dell’arretratezza che potrebbe essere seguito con successo dai paesi in via di
sviluppo.
Per quanto si possano mettere in discussione i metodi della
statistica sovietica, per quanto si possa dubitare di questa o quella cifra,
incontestabile è il dato della costruzione di un grande apparato industriale,
corredato di giganteschi impianti e della nascita ex novo di grandi città
industriali disseminate nel paese e, durante e dopo la guerra, anche nelle zone
più arretrate transuraliche dell’Asia centrale. Questo successo spingerà negli
anni ‘50 molti a studiare il meccanismo economico sovietico di sviluppo[1], la sua strategia, la sua
pianificazione volta a privilegiare gli investimenti nel settore della
costruzione dei mezzi di produzione (settore I) e dei grandi impianti.
Il
successo sovietico è tanto più rilevante se confrontato con la grande crisi di
sovrapproduzione che negli anni Trenta investe le principali economie
capitalistiche falcidiando posti di lavoro, seminando miseria e fame e
generando, infine, la guerra imperialista quale sbocco obbligato per la
fuoriuscita dalla recessione. I sovietici erano riusciti a realizzare questi
grandiosi risultati in condizioni difficilissime, di accerchiamento
internazionale, praticamente senza crediti esteri, contando solo sulle proprie
forze. Il paese aveva dovuto superare pesanti carestie, aveva dovuto
risollevarsi con grandi difficoltà dai danni e mutilazioni infertigli dalla
prima guerra mondiale. E aveva vinto la prova, aveva sviluppato l’industria,
aveva spostato nell’arco di un decennio decine di milioni di contadini dalle
campagne alle città, che era riuscito ad approvvigionare degli alimenti
necessari. E aveva trasformato in pochi anni una massa di analfabeti in persone
istruite, in tecnici e ingegneri in grado di progettare nuove fabbriche e
costruire nuove immense città industriali[2].
Se fossero stati
solo questi i risultati di un potere rivoluzionario che nasceva sulle ceneri del
disfacimento dello zarismo, ereditandone una struttura sociale arretrata e
semifeudale, con un tasso elevato di analfabetismo, di miseria, i dirigenti
bolscevichi avrebbero potuto dirsi più che soddisfatti. La struttura industriale
dell’URSS aveva dimostrato di poter superare anche la prova dello scontro
militare con l’esercito hitleriano che aveva sgominato nelle sue guerre-lampo
l’Europa continentale: le corazze dei carri armati sovietici si erano dimostrate
più resistenti di quelli prodotti dalla grande industria di uno dei paesi
capitalistici più forti del mondo...
Ma i bolscevichi al potere non si
erano posti solo l’obiettivo di superare l’arretratezza economica, ma quello,
ben più ambizioso e difficile, di costruire una società socialista, di
organizzare un’economia pianificata sulla base della proprietà collettiva dei
mezzi di produzione. Affrontavano, dunque, un compito ben più arduo, senza
modelli di riferimento nella storia, rispetto a cui anche le indicazioni
teoriche dei classici del marxismo erano poche e rare.
A distanza di poco
meno di un secolo dall’inizio di quella straordinaria impresa, i compiti che il
piccolo nucleo dirigente dei bolscevichi si pose sulle spalle appare ancor più
immane e gigantesco: essi dovevano inventare sul campo una nuova economia,
organizzare una nuova formazione economico-sociale, rendere egemone nella
società il modo di produzione dei produttori associati. E dovevano compierlo,
tra l’altro, in condizioni di estrema difficoltà, dovevano pianificare non in
condizioni di un normale sviluppo, ma nell’arretratezza, per fuoriuscire da essa
e industrializzare il paese.
Ma, per di più, l’altro compito che essi si
pongono, quello del passaggio al socialismo, è un discorso tutto da costruire
anche sul piano teorico. Alcuni testi di Marx ed Engels (in particolare
l’Antiduhring) fornivano delle
indicazioni di carattere generalissimo, non di più. Marx aveva forgiato gli
strumenti per la critica della società borghese, aveva armato ideologicamente le
avanguardie politiche rivoluzionarie di ragioni per rovesciare il capitalismo,
ma si era giustamente rifiutato di scrivere ricette per le osterie
dell’avvenire. La riflessione di Lenin degli ultimi anni è fondamentale per la
distinzione tra modi di produzione e formazione economico-sociale (ne individua
ben 5 all’interno della Russia sovietica), e per alcune indicazioni strategiche
per la transizione al socialismo (ad esempio, il ruolo della cooperazione), ma
si tratta di un lavoro essenzialmente preliminare.
Nei loro lavori più
politici, Marx ed Engels avevano chiaramente indicato la necessità di conquistare il potere
politico, di istituire una dittatura rivoluzionaria del proletariato
(Il Manifesto del partito
comunista, La guerra civile in
Francia, La critica del programma
di Gotha), come premessa indispensabile per avviare la transizione a
un nuovo modo di produzione. E ciò perché il proletariato inevitabilmente
subalterno nella società borghese - a differenza della borghesia, che fece la
sua rivoluzione antifeudale avendo il possesso dei mezzi di produzione, essendo
già egemone nell’economia - non aveva altra scelta che la conquista del potere
politico per avviare attraverso esso la trasformazione dei rapporti di
produzione. Ma tra la conquista del potere politico e il passaggio ad un nuovo
ordine economico-sociale c’è un abisso, di cui Lenin si dimostra ben consapevole
nei suoi scritti degli anni postrivoluzionari.
E’ noto il dibattito e lo
scontro che nel gruppo dirigente bolscevico (con riflessi anche
nell’Internazionale Comunista) si avvia negli anni venti sulle strategie da
seguire[3]. Ma essi ruotavano prima di
tutto intorno all’esigenza di mantenere il potere e di uscire dall’arretratezza.
Tanto la linea dell’opposizione di
sinistra, quanto quella della destra, ruotavano intorno alla questione
del rapporto tra decollo economico e alleanze di classe (rapporto
operai-contadini, città-campagna): dunque, prima di tutto avevano una valenza
politica: la possibilità stessa di mantenimento del potere. Se le città morivano
di fame, se i contadini non consegnavano il grano perché ritenevano non
remunerativo lo scambio coi prodotti dell’industria, se la prevista crisi
generale del capitalismo ritardava e si avviava una fase di relativa
stabilizzazione, se le rivoluzioni in occidente e in Cina venivano sconfitte,
isolando l’URSS, questioni ben più pressanti si ponevano ai bolscevichi che non
quelle del passaggio a un nuovo modo di produzione. In primis c’era la questione politica del
mantenimento del potere, del rapporto che i gruppo dirigente bolscevico
intratteneva con la base comunista e con la classe operaia, coi contadini, con
la popolazione.
Per lunghi e difficilissimi anni il potere sovietico vive
in uno stato di emergenza
permanente, per uscire dal quale era conditio sine qua non il superamento
dell’arretratezza. Nessun potere può reggere a lungo in condizioni di miseria,
tanto meno il potere bolscevico la cui legittimazione politica e morale si
giocava sul terreno del soddisfacimento dei bisogni vitali: pane, lavoro, pace
erano iscritti sulle bandiere della rivoluzione del ‘17. Ma, al contempo, uscire
dall’arretratezza senza tradire gli ideali del socialismo, senza accrescere la
differenza tra una manciata di ricchi nepmani (così in gergo russo si definivano
i nuovi ricchi della NEP) e una massa di diseredati e immiseriti.
Erano
consapevoli del problema che come un macigno si parava davanti a loro i
dirigenti bolscevichi? Il dibattito degli anni venti ci dice di sì. E la
violenza dello scontro che si svolge in seno al gruppo dirigente, lungi
dall’essere una sordida lotta per il potere personale – come una buona parte
della storiografia demonizzante tende a presentarla – non è che il riflesso
delle terribili contraddizioni in cui si trovava la rivoluzione sovietica. Posta
di fronte all’alternativa: avanzare o soccombere.
La scelta intrapresa
per affrontare il duplice immane problema di superare l’arretratezza avanzando
sulla strada del socialismo risultò vincente, anche se il prezzo pagato fu
altissimo, con l’esercizio di una dittatura severissima sul mondo contadino e di
una repressione che in molti casi andò ben al di là del previsto (come Stalin
denuncia nell’articolo Vertigine di
successi).
Ben vasto è il filone che condanna questa scelta e
le attribuisce il peccato originale che avrebbe alla fine condotto al
“tradimento della rivoluzione” e alla disfatta finale. Migliaia e migliaia di
pagine sono state scritte per denunciare – talora con scarso apporto
documentale, talora in modo puntuale – le repressioni, il GULAG, le morti e le
fucilazioni, le deportazioni dei kulaki e dei contadini. Anni terribili in cui
col ferro e col fuoco si forgiava una nuova società. Vasto è anche il dibattito
sulle possibili altre scelte che avrebbero potuto essere praticate, sulla via
buchariniana, sul rapporto operai-contadini da salvaguardare (ma come, se le
campagne non davano pane alle città?). E, tuttavia, storici dell’economia come
Maurice Dobb, ragionando sul contesto complessivo, convengono sulla estrema
difficoltà di praticare altre scelte, se si voleva raggiungere quel duplice
obiettivo[4].
Cosa appare
prioritario negli anni trenta al gruppo dirigente bolscevico diretto da Stalin?
Anche dai documenti più recenti desecretati delle riunioni del massimo organo
dirigente del partito, il Politbjuro, emerge il quadro di un partito
teso ad assicurare i risultati economici, a portare avanti l’industrializzazione
del paese. Nelle lettere che si scambiano i massimi dirigenti sovietici, oberati
da un lavoro immane, emerge la preoccupazione di assicurare il raccolto[5], di costruire ferrovie,
canali e ponti, di sviluppare l’industria, di assicurarsi persino del tipo di
motori acquistati all’estero da produrre per i camion sovietici! Realizzare gli
obiettivi posti dal piano diviene l’obiettivo prioritario. Negli anni trenta
l’emergenza continua, sulla realizzazione o meno del piano si misura il successo
della politica bolscevica e la sopravvivenza o meno del potere sovietico.
L’acuirsi dei pericoli di guerra e di aggressione all’URSS da parte delle
potenze fasciste spinge il gruppo dirigente sovietico ad accelerare i tempi
dell’industrializzazione.
E i risultati dei piani quinquennali vengono
riconosciuti apertamente anche dal più severo nemico di Stalin, Trockij, nel
primo capitolo de La rivoluzione
tradita[6]!
Il superamento
dell’arretratezza veniva conseguito attraverso strumenti e forme economiche
diverse da quelle di uno stato borghese: una proprietà statale di tutta
l’industria, la pianificazione economica dello sviluppo industriale, forme di
proprietà collettiva nelle campagne.
Il piano quinquennale si basa su
quantità fisiche da realizzare (cosa relativamente semplice da calcolare per
acciaio, carbone, grano, ben più difficile in altri casi). I piani erano
teleologici, indicavano cioè lo
scopo da raggiungere, prescindendo in sostanza da problemi di
equilibrio.
Infatti, intorno alla metà degli anni Venti si confrontano
due scuole di economisti, «scuola genetica» e «scuola teleologica». I primi
(Bazarov, Kondrat'ev, Groman), intendono enucleare gli avvenimenti passati per
proiettarli nell'avvenire, in modo tale che i risultati economici ottenuti lungo
un arco significativo di anni, una volta analizzati, servano da modello per
l'elaborazione delle proporzioni fondamentali del piano nella costruzione del
socialismo. In tal modo si può adottare un ordine rigoroso nella connessione dei
diversi settori del piano tra loro.
I “teleologici” (Leont'ev, Strumilin)
sostengono che il compito principale dei piani in tutto il periodo di
transizione dal capitalismo al socialismo risiede nella costruzione del
socialismo stesso, definendo i ritmi produttivi necessari, stabilendo il fine,
il telos, proposto. La critica
che i «teleologici» rivolgono ai «genetici» è quella di non volere veramente la
transizione al socialismo, di operare nei fatti per un ritorno al capitalismo.
Lì dove non c'è il fine verso cui tendere - scrive nel '28 A. Leont'ev - non si
può, a rigore, neppure parlare di piano: «un piano senza obiettivi è una
contraddizione interna, è come un piano senza piano». Il XV Congresso del
partito comunista (dicembre 1927) si pronuncia duramente contro la concezione
«genetica», sancendo la vittoria dei «teleologici»: i piani saranno elaborati
sulla base del progetto e della concezione di socialismo. Stalin ne I problemi economici del socialismo
ribadirà la concezione teleologica.
La pianificazione che si realizza negli anni trenta
in URSS non può essere assunta a modello generale: il suo fine principale è il
superamento dell’arretratezza, scopo rispetto al quale si possono sacrificare
altri aspetti, di razionalità economica, proporzionalità o equilibrio nello
sviluppo. Nell’esigenza di raggiungere i risultati nei fatidici dieci
anni indicati da Stalin per portare il paese a un livello tale da poter
resistere alla prevista aggressione[7] (una valutazione che si
rivelò pienamente fondata), alcuni obiettivi furono esagerati, irrealistici,
infondati. Nella tumultuosa avanzata verso l’industrializzazione furono compiuti
errori anche notevoli, fu sconvolto il paesaggio, ridisegnato l’ambiente, anche
con una violenza spietata.
Le trasformazioni intervenute tra il 1929 (I
piano quinquennale) e il 1941 (aggressione hitleriana) sono impressionanti.
Ma la pianificazione che le aveva guidate e
il sistema economico che si era costruito intorno ad esse erano largamente
imperfette. Assumerle come un modello già maturo di socialismo realizzato
sarebbe un errore.
Poiché non si terrebbe conto delle condizioni eccezionali nelle quali si è
svolto il processo di accumulazione primitiva e di industrializzazione in URSS.
In cui volontari, lavoratori d’assalto, stachanovisti, ingegneri, tecnici,
dirigenti, erano ossessionati dal raggiungimento degli obiettivi ambiziosi posti
dal piano. Cosa che provocava anche notevoli squilibri, cadute produttive,
sprechi. L’URSS degli anni trenta non vive in condizioni normali, ma in una
continua mobilitazione: campagne produttive, mobilità sociale, che consente la
promozione di milioni di analfabeti a tecnici, quadri, membri di partito (che
segna il riconoscimento di uno status raggiunto, ma mai permanentemente: ascese
e cadute costituiscono una caratteristica dell’instabilità e della mobilitazione
di questi anni).
Uno stato
d’emergenza permanente caratterizza la vita sovietica degli anni
trenta. La rapidissima industrializzazione provoca scosse telluriche
nella società, che il partito si propone di controllare e indirizzare; provoca
un sommovimento nella composizione dl partito stesso. Gli anni trenta sono anni
di una rivoluzione sociale senza precedenti e la Russia compie in 10 anni il
percorso che altre società hanno fatto in oltre un secolo.
La guerra
introduce un ulteriore fattore di instabilità con il rischio di disgregazione e
distruzione dello stato sovietico programmata da Hitler. La struttura sociale
sovietica riesce a superare la difficilissima prova. Gli anni successivi sono
dedicati con successo alla ricostruzione postbellica, intrapresa in un paese che
ha subito i danni più pesanti della guerra distruttiva hitleriana e senza alcun
aiuto esterno, nelle condizioni di una nuova guerra – la “guerra fredda” - che
gli USA avevano intrapreso contro l’URSS.
Problemi economici del socialismo si
colloca dunque ad uno snodo cruciale della storia dell’URSS: si può guardare
alla strada percorsa, alle realizzazioni,alle vittorie ottenute in un periodo
tumultuoso e senza tregua; si deve guardare al futuro, allo sviluppo della
società socialista, ponendo infine l’accento sulla sua necessaria
“regolarizzazione”, “stabilizzazione”, fuoriuscita dallo stato d’emergenza. Non
è un caso che nel testo si insista tanto sulle leggi oggettive del socialismo. E che
cos’è una legge se non regolarità, fine di uno straordinario e prolungato stato
d’eccezione?
Il “testamento economico-politico” di Stalin è una
riflessione sulla struttura economico-sociale che si è costruita, ma non ha
assolutamente il carattere di uno scritto sistematico e compiuto, sì quello di
un testo “reattivo”, “occasionale”, di risposta e puntualizzazioni (al pari di
celebri precedenti nella storia del marxismo, da Miseria della filosofia alla Critica del programma di Gotha,
dall’Antiduhring alle
Osservazioni di Lenin al libro di Bucharin Economia del periodo di transizione).
Raccolti in un piccolo libro, furono pubblicati quattro scritti di Stalin,
prodotti in un arco di tempo di alcuni mesi, dal 1 febbraio 1952 al 28 settembre
dello stesso anno: 1. Osservazioni sulle questioni economiche relative alla
discussione del novembre 1951; 2. Risposta al compagno Aleksandar Il’ic Notkin;
3. Sugli errori del compagno Jaroscenko; 4. Risposta ai compagni A. V. Sanina e
V. C. Vensger[8].
Il primo, e più
corposo, prende spunto dalla discussione per giudicare il progetto di manuale di
economia politica. L’invito a pubblicare un manuale ufficiale del partito per la
formazione comunista dei quadri era stato espressamente formulato in una
direttiva del CC del partito comunista (bolscevico) pansovietico del 14 novembre
1938, in concomitanza con la pubblicazione del Breve corso di storia del VKP(b): era
necessario, si diceva, impostare le questioni teoriche attuali, generalizzare
l’esperienza della costruzione del socialismo, rispondere alle questioni poste
dai quadri, elaborare nuovi problemi teorici e sviluppare creativamente il
dibattito teorico.
L’invito segnalava indirettamente le grandi carenze
teoriche degli economisti sovietici, che la rivista Problemy Ekonomiki qualche mese dopo (nel
n. 3 del 1939) denunciava apertamente: gli economisti si limitano ad una
descrizione elementare della costruzione socialista e alla ripetizione di
qualche formula dei classici del marxismo, ma non sanno applicare creativamente
il marxismo-leninismo allo studio “delle leggi dello sviluppo della società,
delle leggi di movimento della nostra società sovietica” [9].
Era
questa la ragione per cui il manuale che l’Accademia delle Scienze dell’URSS
aveva programmato di terminare nel 1938, non poté essere soddisfacentemente
redatto. Nel gennaio 1943 fu pubblicato un articolo redazionale della rivista
Pod znamenem marksizma (Sotto la
bandiera del marxismo), dal titolo “Alcune questioni dell’insegnamento
dell’economia politica”, in cui si poneva la questione di definire chiaramente
l’oggetto dell’economia politica, “scienza dello sviluppo dei rapporti di
produzione tra gli uomini”, e di spiegare il carattere delle leggi economiche
del socialismo: “negare l’esistenza di tali leggi economiche significa scadere
nel più volgare volontarismo, che, in luogo di un processo regolare, conforme a
legge (zakonomernyj[10]) di sviluppoo
della produzione, pone l’arbitrio, la casualità, il caos.
E’ chiaro che
con tale approccio alla questione si perde ogni criterio per valutare la
correttezza di questa o quella linea, di questa o quella politica, si perde la
comprensione della regolarità di questi o quei fenomeni nel nostro sviluppo
sociale”[11]. L’articolo suscitò grande
interesse e dibattiti, non solo in URSS, ma anche all’estero[12], e nella seconda metà
degli anni quaranta si intensificò la discussione sovietica tanto sullo statuto
teorico dell’economia politica, sul suo oggetto, sulla sua possibilità di
estendere tale scienza a tutti i modi di produzione e non solo a quello
capitalistico, come aveva invece sostenuto N. Bucharin in Economia del periodo di transizione[13], quanto sulle
leggi economiche del socialismo[14].
Questa
discussione, che può apparire al lettore odierno artificiosa, “bizantina”,
giocata spesso sull’interpretazione di alcuni termini, su puntualizzazioni
esasperate di chi sembra dilettarsi nel mestiere di spaccare il capello in
quattro, ha invece – come si può ben intuire – un risvolto pratico-politico di
importanza cruciale, che risponde sostanzialmente alla domanda: si procederà
nella pianificazione e nella direzione e organizzazione dell’attività economica
sulla base del “lavoro d’assalto”, di un volontarismo che rispondeva
all’esigenza e all’emergenza di una fase tumultuosa di passaggio che dovette
essere – per quanto sinora detto - forzatamente rapido da una società
agricolo-industriale ad una industriale-agricola, o si pianificherà e
organizzerà la produzione e distribuzione di beni sulla base di una valutazione
oggettiva e non arbitraria delle condizioni reali del paese, in modo che il
socialismo diventi “regolarità”, abitudine, costume nella pratica dei milioni e
milioni di cittadini sovietici?
Stalin avverte il bisogno di intervenire
in prima persona, con tutta l’autorevolezza di cui dispone[15], nella battaglia contro il
volontarismo in economia. La prima delle sue osservazioni sulla bozza di manuale
di economia politica presentato nel 1951 riguarda proprio la questione del
carattere delle leggi economiche del socialismo. Esse, ribadisce Stalin più
volte, hanno carattere oggettivo,
“riflettono le leggi di sviluppo dei processi della vita economica, i quali si
compiono indipendentemente dalla nostra volontà”[16] e precisa:
“Si dice
che la necessità dello sviluppo pianificato (proporzionale) dell’economia del
nostro paese dà la possibilità al potere sovietico di sopprimere le leggi economiche esistenti e di crearne
delle nuove. Ciò non è affatto vero. Non si possono confondere i
nostri piani annuali e quinquennali con la legge economica obiettiva dello
sviluppo pianificato, proporzionale, dell’economia nazionale. La legge dello
sviluppo pianificato è sorta come contrapposizione alla legge della concorrenza
e dell’anarchia della produzione nel capitalismo [...] è entrata in vigore
perché un’economia nazionale socialista si può avere soltanto sulla base della
legge economica dello sviluppo pianificato dell’economia nazionale. Questo
significa che la legge dello sviluppo pianificato dell’economia nazionale dà la
possibilità ai nostri organi
pianificatori di pianificare in modo giusto la produzione sociale. Ma non si
deve confondere la possibilità
con la realtà. Per far sì che
questa possibilità diventi realtà occorre studiare questa legge economica,
impadronirsene, occorre imparare ad applicarla con perfetta cognizione di causa,
occorre elaborare dei piani che riflettano per intiero l’esistenza di questa
legge. Non si può dire che i nostri piani
annuali e quinquennali riflettano per intiero le esigenze di questa legge
economica”[17].
Questo riferimento
esplicito ad errori nella pianificazione e a interventi arbitrari del Gosplan assume – nello snodo cruciale in
cui questo scritto appare, quale passaggio di fase ad una riflessione su quanto
e come si è costruito – di particolare importanza. Vi sono nel testo staliniano
altri riferimenti estremamente critici di plateali errori cui possono essere
indotti i pianificatori dall’assenza di una visione oggettiva e realistica e di
una teoria del calcolo economico: “i dirigenti d’azienda e i dirigenti della
pianificazione avanzarono una proposta che non poté non riempire di stupore i
membri del Comitato centrale perché, secondo questa proposta, il prezzo di una
tonnellata di grano doveva essere quasi uguale a quello di una tonnellata di
cotone, e il prezzo di una tonnellata di grano veniva eguagliato a quello di una
tonnellata di pane”[18].
Lo scritto
staliniano non ha qui assolutamente un tono trionfalistico e vi si possono
leggere, direttamente o in controluce alcune note critiche, che aprono squarci
significativi sulle prospettive dell’URSS in questo passaggio cruciale, in cui
appare sostanzialmente terminata la fase della costruzione d’assalto e a
qualsiasi costo, nonché la ricostruzione postbellica. Nel 1938, a qualche anno
di distanza dall’annunciata vittoria dei rapporti di produzione socialisti in
URSS, vittoria sancita dalla Costituzione del 1936 (ed è questa la data che gli
storici sovietici, ancora negli anni ’80, indicavano come fine del “periodo di
transizione” per la costruzione del socialismo e passaggio al socialismo),
Stalin scriveva che “i rapporti di produzione corrispondono perfettamente allo
stato delle forze produttive, perché il carattere sociale del processo della
produzione è rafforzato dalla proprietà sociale dei mezzi di produzione”[19], nello scritto del 1952,
pur ribadendo questa corrispondenza generale, ne indica anche il carattere
ancora incompiuto:
“I nostri attuali rapporti di produzione attraversano
un periodo in cui, corrispondendo appieno alla crescita delle forze produttive,
le fanno procedere in avanti a passi da giganti. Ma non sarebbe giusto
accontentarsi di questo e ritenere che non esista nessuna contraddizione tra le
nostre forze produttive e i rapporti di produzione. Contraddizioni esistono
senz’altro ed esisteranno, in quanto lo sviluppo dei rapporti di produzione
ritarda e ritarderà rispetto allo sviluppo delle forze produttive”[20].
Può essere
interessante notare a proposito del rapporto tra “volontarismo” e “oggettivismo”
come un altro grande dirigente rivoluzionario, impegnato a guidare un paese
contadino ben più arretrato della Russia presovietica alla duplice transizione
alla fuoriuscita dall’arretratezza e al socialismo, commenti questa posizione di
Stalin, in un testo denso di minuziose e puntigliose annotazioni sui Problemi economici del socialismo.
Commentando nel 1958 il passo di Stalin in cui si critica la confusione che gli
economisti volontaristi fanno tra “leggi scientifiche, che riflettono processi
oggettivi che si sviluppano nella natura o nella società in modo autonomo e al
di fuori della volontà dell’uomo” e leggi emanate dai governi, “espressione
della volontà dell’uomo”, che “hanno valore solo in quanto imposte dal potere
giuridico”, Mao Tse Tung scrive:“Questa concezione delle leggi è
fondamentalmente giusta; però ha due difetti: primo, non mette abbastanza in luce l’attivismo soggettivo
del partito e delle masse; secondo, non è completa; non spiega che le
leggi statali sono giuste non solo se nascono dalla volontà della classe
operaia, ma riflettono anche correttamente le esigenze delle leggi oggettive
dell’economia”[21].
Siamo all’epoca
del “grande balzo in avanti” e delle comuni popolari, dell’accelerazione estrema
e volontaristica che i dirigenti cinesi intendono imporre allo sviluppo
dell’economia, ripercorrendo, in qualche modo, un’analoga strada di “lavoro
d’assalto” che aveva caratterizzato la prima fase della pianificazione
sovietica: l’attivismo
soggettivo, non riuscì ad evitare – né in URSS, né in Cina – pesanti
errori nell’organizzazione economica.
L’altro grande problema affrontato
da Stalin nel suo scritto è quello della produzione mercantile e dell’azione
della legge del valore nel socialismo, questione che sarà poi trattata nel
complesso nella pubblicistica sovietica successiva come rapporti
mercantil-monetari. Anche qui Stalin scioglie un nodo a lungo dibattuto sin dai
tempi del “comunismo di guerra”, chiarendo che di per sé la forma merce non
implica immediatamente rapporti capitalistici, mentre questi ultimi non possono
darsi senza la forma merce: “Si dice che la produzione mercantile in qualsiasi
condizione deve portare e necessariamente porterà al capitalismo. Questo non è
vero. Non sempre e non in qualsiasi condizione! Non si può identificare la
produzione mercantile con la produzione capitalistica. Son due cose
diverse.
La produzione capitalistica è la forma più alta di produzione
mercantile. La produzione mercantile porta al capitalismo solamente se esiste la proprietà privata, se la forza lavoro si presenta sul mercato
come una merce che il capitalista può comprare e sfruttare nel processo di
produzione, se, di conseguenza,
esiste nel paese un sistema di sfruttamento degli operai salariati da parte dei
capitalisti. La produzione capitalistica incomincia là, dove i mezzi di
produzione sono concentrati in mani private e gli operai, privi dei mezzi di
produzione, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro come una merce. Senza
di ciò non vi è produzione capitalistica”[22].
Nella società
sovietica tale produzione, continua Stalin, è invece limitata e controllata.
Essa si spiega essenzialmente per lo scambio che intercorre tra le due
principali forme della proprietà socialista, statale e cooperativo-colcosiana.
Tale forma di produzione scomparirà, ma in un futuro non prossimo, con
l’unificazione – volontaria e non coatta, poiché la proprietà colcosiana è una
forma di proprietà socialista – delle due forme di proprietà e col passaggio
alla fase superiore del comunismo, quando anche lo Stato si estinguerà: “Con
l’estendersi del campo d’azione del socialismo nella maggior parte dei paesi del
mondo lo Stato si estinguerà e, naturalmente, in legame con ciò cadrà la
questione del passaggio del patrimonio di singole persone e di singoli gruppi in
proprietà dello Stato. Lo Stato si sarà estinto, ma la società continuerà ad
esistere.
Di conseguenza, erede della proprietà di tutto il popolo non
sarà lo Stato, che si sarà estinto, ma sarà la società stessa, rappresentata dal
suo organo economico dirigente centrale”[23]. Ma perché questo
passaggio al comunismo si realizzi occorrono condizioni di sviluppo economico e
culturale, che consentano la riduzione della giornata lavorativa a sei-cinque
ore (era l’idea espressa da Lenin nella prima stesura dei Compiti immediati del potere sovietico),
una ricchezza diffusa e un’istruzione politecnica che dia la possibilità a
ciascuno di scegliere liberamente il proprio lavoro e non essere inchiodato alla
stessa professione[24] (riecheggiano qui i passi
marxiani dell’Ideologia tedesca e
del Capitale).
La
spiegazione fornita da Stalin sulla persistenza di forme economiche
mercantil-monetarie e della legge del valore dovuta essenzialmente alla presenza
di due forme di proprietà, però, non risolve a pieno la questione, che si
presenterà come un problema più generale del calcolo economico nel socialismo.
Un vasto filone di teorici marxisti di sinistra ha criticato a lungo la
presenza delle forme mercantil-monetarie come sintomo rivelatore di rapporti
capitalistici in URSS. Dalle critiche di A. Bordiga, fino al Le capital socialiste di Bernard Chavance,
allievo di Bettelheim, per citarne solo alcuni tra i tanti. A questi critici si
può rispondere che essi ignorano le categorie dialettiche della transizione, che
pensano strutturalisticamente in termini di sostituzione di un modo di
produzione all’altro. In termini di aut aut: o socialismo o capitalismo.
Ma già Lenin aveva posto la questione della pluralità di modi di
produzione all’interno di un’unica formazione economico-sociale e del kto pobedit? (chi vincerà?) ritenendo non
scontato il risultato della vittoria del socialismo, ma fortemente problematico.
A quella domanda Stalin rispondeva nel 1936 affermando la vittoria del
socialismo che la nuova costituzione era chiamata a sancire. Sedici anni dopo,
tuttavia, le cose non appaiono del tutto scontate. Stalin denuncia l’incapacità
dei quadri della pianificazione di avvalersi della legge del piano, la
pianificazione non è affatto ottimale. E denuncia gli errori nel calcolo
economico.
Il problema del calcolo economico continuerà a travagliare gli
economisti sovietici negli anni successivi: migliaia di pagine vengono scritte
per cercare di venirne a capo. Qualcuno, come Lange, proporrà il recupero di
principi marginalisti; altri estenderanno il computo in termini di prezzi anche
ai mezzi di produzione. Un certo revisionismo nella teoria economica si
affaccerà, ma credo sia sbagliato e fuorviante qualificare l’insieme di questi
tentativi sul calcolo economico in un’economia basata sulla proprietà statale
generalizzata dei mezzi di produzione come responsabili dello scacco successivo
del socialismo sovietico. E’ una spiegazione mitologica e semplificatoria, che
parte dal presupposto che le questioni fondamentali - teoriche e pratiche - di
un’economia di transizione fossero tutte già risolte nel 1936 o nel 1952, e che,
dunque, la revisione sia stata un deliberato tradimento.
Il fatto è che
i problemi erano – stanno – di fronte e non sono soddisfacentemente risolti. E
lo scritto di Stalin lo rivela – per quel che dice e per i problemi che
tralascia.
L’URSS sotto la guida del gruppo dirigente staliniano riuscì a
vincere battaglie decisive, prima di tutto quella di conservare una trincea
rivoluzionaria. Riuscì a realizzare una transizione dall’arretratezza
all’industrializzazione nel giro di pochi, decisivi anni. E, dunque, il giudizio
storico che a distanza di mezzo secolo si può pronunciare su quell’esperienza
non può non essere nel complesso positivo. Al di là di errori e contingenze
storiche, Stalin affermò il ruolo dell’URSS come rivoluzione vittoriosa,
lasciando aperta, dopo la sua scomparsa, la possibilità di ulteriori
trasformazioni e rotture rivoluzionarie.
Ma assumere quanto si realizzò in
URSS come il modello perfetto e assoluto, come il classico di una transizione al
socialismo, sarebbe errato, antidialettico, e, in definitiva, contrario allo
spirito dell’ultimo scritto staliniano.
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Note
[1] Cfr. ad esempio N. Spulber,
La strategia sovietica per lo sviluppo
economico, Einaudi, Torino, 1970: “A partire dagli anni ’50, che
videro la formazione di molti paesi di nuova indipendenza impegnati nella
ricerca di una rapida crescita economica, i problemi connessi con l’intervento
massiccio dello Stato in economia, con l’industrailizzazione forzata e con la
pianificazione, hanno dato origine in Occidente a tutta una serie di
pubblicazioni sullo sviluppo economico. Molti dei problemi discussi in queste
pubblicazioni occidentali e nei paesi emergenti furono già affrontati nella
Russia degli anni ’20. Di qui l’interesse a conoscere le tesi allora dibattute
in questo paese...” (p. 105).
[2] Nella popolazione tra i 9 e
i 49 anni di età la percentuale di analfabeti scende dal 43% del 1926 al 13% del
1939; la percentuale di studenti universitari provenienti da famiglie operaie
sale dal 30% nel 1928-29 a quasi il doppio nel 1932-33. 17 milioni di contadini
tra il 1928 e il 1935 passano dalle campagne nelle città o nei nuovi poli
industriali. La disoccupazione operaia fu riassorbita nei primi due anni del
primo piano quinquennale. Cfr. A. Agosti, Stalin, Editori Riuniti, Roma, 1983, pp.
71-72.
[3] Cfr. N. Bucharin – E.
Preobrazenskij, L’accumulazione
socialista (a cura di L. Foa), Ed. Riu., Roma, 1969. Cfr. anche
Spulber, op. cit.
[4] M. Dobb, Storia dell’economia sovietica, II
edizione, Ed. Riu., Roma, 1972, p. 26: “Negli anni che seguirono il 1920 non vi
fu alcuna possibilità di manovra e i programmi dovettero in gran parte essere
subordinati alle necessità. Un paese sviluppato può sfidare le incognite e
procedere per tentativi: un paese povero può puntare solo sulla carta
sicura”.
[5] Si veda – ma è solo un
esempio tra tanti - la lettera di L. M. Kaganovic a G. K. Ordzonikidze del 4
settembre 1935: “Ciò che accade, ad esempio, con gli ammassi di grano di
quest'anno è la nostra tangibile vittoria senza precedenti, è la vittoria dello
Stalinismo. Abbiamo già portato all'ammasso un miliardo di pud di grano + 370
milioni rimasti dall'anno precedente. L'Ucraina ha terminato, un'intera serie di
altri kraj hanno terminato. [...]
Da me al trasporto le cose vanno non male, ma occorre stringere tutto per
l'inverno. In particolare ora si è avuto un grande rivolgimento con l'ordine
sulle locomotive. Bisogna pensare che ciò apporterà un notevole rafforzamento
della vittoria”. (in Stalinskoe Politbjuro v
30-e gody (Il Politbjuro staliniano negli anni Trenta), a cura di O.
Chlevnjuk, A. Kvasonkin, L. Koseleva, L. Rogovaja, edizioni «AIRO-XX», Mosca,
1995.
[6] Ecco ciò che scrive Trockij
nel 1936: «Gli immensi risultati ottenuti dall'industria, l'inizio molto
promettente di uno sviluppo dell'agricoltura, lo svilupparsi straordinario delle
vecchie città industriali, la creazione di nuove, il rapido aumento del numero
degli operai, l'elevamento del livello di vita e dei bisogni, tali sono i risultati incontestabili della
rivoluzione d'Ottobre, in cui i profeti del vecchio mondo videro la
tomba della civiltà. Non è più il caso di discutere con i signori economisti
borghesi: il socialismo ha dimostrato il diritto alla vittoria non nelle pagine
del Capitale, ma su un'arena
economica che comprende la sesta parte della superficie del globo; non con il
linguaggio della dialettica, ma con quello del ferro, del cemento e
dell'elettricità. [...] Solo la rivoluzione
proletaria ha permesso a un paese arretrato di ottenere in meno di vent'anni
risultati senza precedenti nella storia». Cfr. L. Trockij, La rivoluzione tradita, Samonà e Savelli,
Roma, 1972, pp. 6-8.
[7] “Noi siamo in ritardo
rispetto ai paesi avanzati da cinquanta a cento anni. Dobbiamo coprire questa
distanza in dieci anni. O lo faremo, o saremo schiacciati” (“Sui compiti dei
dirigenti dell’industria. Discorso alla prima conferenza dei dirigenti
dell’industria socialista dell’Unione sovietica”, 4 febbraio 1931, in Stalin,
Opere scelte, edizioni movimento
studentesco, Milano 1973, p730-31).
[8] Gli scritti furono
pubblicati subito in Italia nel supplemento al numero 9/1952 di Rinascita. Li cito dall’edizione De
Donato, Bari, 1976, con introduzione di F. Botta e uno scritto di E.
Sereni.
[9] Cfr. AA.VV., Istorija politiceskoj ekonomii socializma,
Ed. dell’Università di Leningrado, 1983, pp. 25-26. Da questo testo sono tratte
anche altre successive notizie sul dibattito sovietico sulla teoria
economica.
[10] L’espressione è
tipicamente russa e difficilmente traducibile pienamente in italiano ed esprime
l’idea di una conformità ad una legge oggettiva.
[11] Riportato in Istorija...., cit., p. 27.
[12] L’articolo fu tradotto
integralmente su The American Economic
Review, sett. 1944, pp. 501-530.
[13] Bucharin sostiene che
l’economia politica può essere scienza – che ha il compito di svelare l’essenza
che si cela dietro il fenomeno - solo per il modo di produzione capitalistico,
basato sull’occultamento dei reali rapporti di produzione (il libero acquisto
nella sfera della circolazione della merce forza-lavoro cela l’estorsione di
pluslavoro che si attua nella sfera della produzione). Ma nel socialismo, in cui
i rapporti sociali sono trasparenti, l’economia politica si trasforma in scienza
dell’organizzazione. Cfr. N.
Bucharin, Economia del periodo di
trasformazione, Jaca Book, Milano, 1970.
[14] Si vedano, ad es. gli
articoli e saggi di L. A. Leont’ev pubblicati nella seconda metà degli anni
quaranta.
[15] E che gli consente anche
di opporsi fermamente a che nel nuovo manuale vi sia un “capitolo speciale su
Lenin e Stalin quali fondatori dell’economia politica del socialismo”, cfr.
Problemi economici del
socialismo, op. cit., p. 103.
[16] Stalin, op. cit., p.
63
[17] Stalin, op. cit., p.
61-62. Le evidenziazioni in grassetto sono mie, A. C.
[18] Ivi, p. 76.
[19] Cfr. Materialismo storico e materialismo dialettico,
in Opere scelte, cit.,
p. 938.
[20] Stalin, Problemi economici del socialismo, cit.,
p. 129.
[21] Mao Tse-Tung, Opere, vol. 17°, Edizione Rapporti
Sociali, Milano, 1993, p. 64. Evidenziazione in corsivo mia, A. C.
[22] Stalin, Problemi..., cit., p. 69.
[23] Ivi, p. 152-153.
[24] Cfr. ivi, p.
129-132.
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