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Convegno - Napoli, 21-23 novembre 2003: I problemi della transizione al socialismo in URSS


Problemi economici del socialismo: le questioni poste alla società sovietica e al nostro presente


di Andrea Catone


Il testo di Stalin Problemi economici del socialismo in URSS del 1952 si colloca strategicamente al centro della storia dell’URSS, è l’ultimo testo significativo di Stalin prima della sua morte, è a metà strada della parabola della storia sovietica, a 35 anni dalla grande rivoluzione d’ottobre e altrettanti dall’ascesa di Gorbacev e l’inizio di quella cosiddetta perestrojka che nel volgere di pochi anni porterà l’URSS alla dissoluzione.

E’ una fase che richiede necessariamente una riflessione sul cammino percorso e su quello ancora da compiere: i bolscevichi al potere hanno superato con successo, anche se al prezzo di grandissimi sacrifici, prove difficilissime. Non solo – e non era certo un fatto scontato – hanno mantenuto il potere, impedendo che la rivoluzione russa facesse la fine della Comune di Parigi, hanno saputo resistere alle aggressioni esterne e consolidare il potere; ma hanno altresì vinto la difficilissima battaglia di fuoriuscita dall’arretratezza che sembrava condannare il paese a rimanere ai margini dello sviluppo economico mondiale e quindi, in definitiva, a svolgere il ruolo di un’economia dipendente da quelle imperialistiche più forti. Tra il 1929 e il 1941 il paese passa da prevalentemente agricolo a industriale, con un tasso di sviluppo che susciterà l’incredulità o la rabbiosa denigrazione degli studiosi borghesi, ma anche l’ammirazione e lo studio di quanti vedono nell’URSS un modello di superamento dell’arretratezza che potrebbe essere seguito con successo dai paesi in via di sviluppo.

Per quanto si possano mettere in discussione i metodi della statistica sovietica, per quanto si possa dubitare di questa o quella cifra, incontestabile è il dato della costruzione di un grande apparato industriale, corredato di giganteschi impianti e della nascita ex novo di grandi città industriali disseminate nel paese e, durante e dopo la guerra, anche nelle zone più arretrate transuraliche dell’Asia centrale. Questo successo spingerà negli anni ‘50 molti a studiare il meccanismo economico sovietico di sviluppo[1], la sua strategia, la sua pianificazione volta a privilegiare gli investimenti nel settore della costruzione dei mezzi di produzione (settore I) e dei grandi impianti.

Il successo sovietico è tanto più rilevante se confrontato con la grande crisi di sovrapproduzione che negli anni Trenta investe le principali economie capitalistiche falcidiando posti di lavoro, seminando miseria e fame e generando, infine, la guerra imperialista quale sbocco obbligato per la fuoriuscita dalla recessione. I sovietici erano riusciti a realizzare questi grandiosi risultati in condizioni difficilissime, di accerchiamento internazionale, praticamente senza crediti esteri, contando solo sulle proprie forze. Il paese aveva dovuto superare pesanti carestie, aveva dovuto risollevarsi con grandi difficoltà dai danni e mutilazioni infertigli dalla prima guerra mondiale. E aveva vinto la prova, aveva sviluppato l’industria, aveva spostato nell’arco di un decennio decine di milioni di contadini dalle campagne alle città, che era riuscito ad approvvigionare degli alimenti necessari. E aveva trasformato in pochi anni una massa di analfabeti in persone istruite, in tecnici e ingegneri in grado di progettare nuove fabbriche e costruire nuove immense città industriali[2].

Se fossero stati solo questi i risultati di un potere rivoluzionario che nasceva sulle ceneri del disfacimento dello zarismo, ereditandone una struttura sociale arretrata e semifeudale, con un tasso elevato di analfabetismo, di miseria, i dirigenti bolscevichi avrebbero potuto dirsi più che soddisfatti. La struttura industriale dell’URSS aveva dimostrato di poter superare anche la prova dello scontro militare con l’esercito hitleriano che aveva sgominato nelle sue guerre-lampo l’Europa continentale: le corazze dei carri armati sovietici si erano dimostrate più resistenti di quelli prodotti dalla grande industria di uno dei paesi capitalistici più forti del mondo...

Ma i bolscevichi al potere non si erano posti solo l’obiettivo di superare l’arretratezza economica, ma quello, ben più ambizioso e difficile, di costruire una società socialista, di organizzare un’economia pianificata sulla base della proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Affrontavano, dunque, un compito ben più arduo, senza modelli di riferimento nella storia, rispetto a cui anche le indicazioni teoriche dei classici del marxismo erano poche e rare.

A distanza di poco meno di un secolo dall’inizio di quella straordinaria impresa, i compiti che il piccolo nucleo dirigente dei bolscevichi si pose sulle spalle appare ancor più immane e gigantesco: essi dovevano inventare sul campo una nuova economia, organizzare una nuova formazione economico-sociale, rendere egemone nella società il modo di produzione dei produttori associati. E dovevano compierlo, tra l’altro, in condizioni di estrema difficoltà, dovevano pianificare non in condizioni di un normale sviluppo, ma nell’arretratezza, per fuoriuscire da essa e industrializzare il paese.

Ma, per di più, l’altro compito che essi si pongono, quello del passaggio al socialismo, è un discorso tutto da costruire anche sul piano teorico. Alcuni testi di Marx ed Engels (in particolare l’Antiduhring) fornivano delle indicazioni di carattere generalissimo, non di più. Marx aveva forgiato gli strumenti per la critica della società borghese, aveva armato ideologicamente le avanguardie politiche rivoluzionarie di ragioni per rovesciare il capitalismo, ma si era giustamente rifiutato di scrivere ricette per le osterie dell’avvenire. La riflessione di Lenin degli ultimi anni è fondamentale per la distinzione tra modi di produzione e formazione economico-sociale (ne individua ben 5 all’interno della Russia sovietica), e per alcune indicazioni strategiche per la transizione al socialismo (ad esempio, il ruolo della cooperazione), ma si tratta di un lavoro essenzialmente preliminare.

Nei loro lavori più politici, Marx ed Engels avevano chiaramente indicato la necessità di conquistare il potere politico, di istituire una dittatura rivoluzionaria del proletariato (Il Manifesto del partito comunista, La guerra civile in Francia, La critica del programma di Gotha), come premessa indispensabile per avviare la transizione a un nuovo modo di produzione. E ciò perché il proletariato inevitabilmente subalterno nella società borghese - a differenza della borghesia, che fece la sua rivoluzione antifeudale avendo il possesso dei mezzi di produzione, essendo già egemone nell’economia - non aveva altra scelta che la conquista del potere politico per avviare attraverso esso la trasformazione dei rapporti di produzione. Ma tra la conquista del potere politico e il passaggio ad un nuovo ordine economico-sociale c’è un abisso, di cui Lenin si dimostra ben consapevole nei suoi scritti degli anni postrivoluzionari.

E’ noto il dibattito e lo scontro che nel gruppo dirigente bolscevico (con riflessi anche nell’Internazionale Comunista) si avvia negli anni venti sulle strategie da seguire[3]. Ma essi ruotavano prima di tutto intorno all’esigenza di mantenere il potere e di uscire dall’arretratezza. Tanto la linea dell’opposizione di sinistra, quanto quella della destra, ruotavano intorno alla questione del rapporto tra decollo economico e alleanze di classe (rapporto operai-contadini, città-campagna): dunque, prima di tutto avevano una valenza politica: la possibilità stessa di mantenimento del potere. Se le città morivano di fame, se i contadini non consegnavano il grano perché ritenevano non remunerativo lo scambio coi prodotti dell’industria, se la prevista crisi generale del capitalismo ritardava e si avviava una fase di relativa stabilizzazione, se le rivoluzioni in occidente e in Cina venivano sconfitte, isolando l’URSS, questioni ben più pressanti si ponevano ai bolscevichi che non quelle del passaggio a un nuovo modo di produzione. In primis c’era la questione politica del mantenimento del potere, del rapporto che i gruppo dirigente bolscevico intratteneva con la base comunista e con la classe operaia, coi contadini, con la popolazione.

Per lunghi e difficilissimi anni il potere sovietico vive in uno stato di emergenza permanente, per uscire dal quale era conditio sine qua non il superamento dell’arretratezza. Nessun potere può reggere a lungo in condizioni di miseria, tanto meno il potere bolscevico la cui legittimazione politica e morale si giocava sul terreno del soddisfacimento dei bisogni vitali: pane, lavoro, pace erano iscritti sulle bandiere della rivoluzione del ‘17. Ma, al contempo, uscire dall’arretratezza senza tradire gli ideali del socialismo, senza accrescere la differenza tra una manciata di ricchi nepmani (così in gergo russo si definivano i nuovi ricchi della NEP) e una massa di diseredati e immiseriti.

Erano consapevoli del problema che come un macigno si parava davanti a loro i dirigenti bolscevichi? Il dibattito degli anni venti ci dice di sì. E la violenza dello scontro che si svolge in seno al gruppo dirigente, lungi dall’essere una sordida lotta per il potere personale – come una buona parte della storiografia demonizzante tende a presentarla – non è che il riflesso delle terribili contraddizioni in cui si trovava la rivoluzione sovietica. Posta di fronte all’alternativa: avanzare o soccombere.

La scelta intrapresa per affrontare il duplice immane problema di superare l’arretratezza avanzando sulla strada del socialismo risultò vincente, anche se il prezzo pagato fu altissimo, con l’esercizio di una dittatura severissima sul mondo contadino e di una repressione che in molti casi andò ben al di là del previsto (come Stalin denuncia nell’articolo Vertigine di successi).

Ben vasto è il filone che condanna questa scelta e le attribuisce il peccato originale che avrebbe alla fine condotto al “tradimento della rivoluzione” e alla disfatta finale. Migliaia e migliaia di pagine sono state scritte per denunciare – talora con scarso apporto documentale, talora in modo puntuale – le repressioni, il GULAG, le morti e le fucilazioni, le deportazioni dei kulaki e dei contadini. Anni terribili in cui col ferro e col fuoco si forgiava una nuova società. Vasto è anche il dibattito sulle possibili altre scelte che avrebbero potuto essere praticate, sulla via buchariniana, sul rapporto operai-contadini da salvaguardare (ma come, se le campagne non davano pane alle città?). E, tuttavia, storici dell’economia come Maurice Dobb, ragionando sul contesto complessivo, convengono sulla estrema difficoltà di praticare altre scelte, se si voleva raggiungere quel duplice obiettivo[4].

Cosa appare prioritario negli anni trenta al gruppo dirigente bolscevico diretto da Stalin? Anche dai documenti più recenti desecretati delle riunioni del massimo organo dirigente del partito, il Politbjuro, emerge il quadro di un partito teso ad assicurare i risultati economici, a portare avanti l’industrializzazione del paese. Nelle lettere che si scambiano i massimi dirigenti sovietici, oberati da un lavoro immane, emerge la preoccupazione di assicurare il raccolto[5], di costruire ferrovie, canali e ponti, di sviluppare l’industria, di assicurarsi persino del tipo di motori acquistati all’estero da produrre per i camion sovietici! Realizzare gli obiettivi posti dal piano diviene l’obiettivo prioritario. Negli anni trenta l’emergenza continua, sulla realizzazione o meno del piano si misura il successo della politica bolscevica e la sopravvivenza o meno del potere sovietico. L’acuirsi dei pericoli di guerra e di aggressione all’URSS da parte delle potenze fasciste spinge il gruppo dirigente sovietico ad accelerare i tempi dell’industrializzazione.

E i risultati dei piani quinquennali vengono riconosciuti apertamente anche dal più severo nemico di Stalin, Trockij, nel primo capitolo de La rivoluzione tradita[6]!
Il superamento dell’arretratezza veniva conseguito attraverso strumenti e forme economiche diverse da quelle di uno stato borghese: una proprietà statale di tutta l’industria, la pianificazione economica dello sviluppo industriale, forme di proprietà collettiva nelle campagne.
Il piano quinquennale si basa su quantità fisiche da realizzare (cosa relativamente semplice da calcolare per acciaio, carbone, grano, ben più difficile in altri casi). I piani erano teleologici, indicavano cioè lo scopo da raggiungere, prescindendo in sostanza da problemi di equilibrio.

Infatti, intorno alla metà degli anni Venti si confrontano due scuole di economisti, «scuola genetica» e «scuola teleologica». I primi (Bazarov, Kondrat'ev, Groman), intendono enucleare gli avvenimenti passati per proiettarli nell'avvenire, in modo tale che i risultati economici ottenuti lungo un arco significativo di anni, una volta analizzati, servano da modello per l'elaborazione delle proporzioni fondamentali del piano nella costruzione del socialismo. In tal modo si può adottare un ordine rigoroso nella connessione dei diversi settori del piano tra loro.

I “teleologici” (Leont'ev, Strumilin) sostengono che il compito principale dei piani in tutto il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo risiede nella costruzione del socialismo stesso, definendo i ritmi produttivi necessari, stabilendo il fine, il telos, proposto. La critica che i «teleologici» rivolgono ai «genetici» è quella di non volere veramente la transizione al socialismo, di operare nei fatti per un ritorno al capitalismo. Lì dove non c'è il fine verso cui tendere - scrive nel '28 A. Leont'ev - non si può, a rigore, neppure parlare di piano: «un piano senza obiettivi è una contraddizione interna, è come un piano senza piano». Il XV Congresso del partito comunista (dicembre 1927) si pronuncia duramente contro la concezione «genetica», sancendo la vittoria dei «teleologici»: i piani saranno elaborati sulla base del progetto e della concezione di socialismo. Stalin ne I problemi economici del socialismo ribadirà la concezione teleologica.

La pianificazione che si realizza negli anni trenta in URSS non può essere assunta a modello generale: il suo fine principale è il superamento dell’arretratezza, scopo rispetto al quale si possono sacrificare altri aspetti, di razionalità economica, proporzionalità o equilibrio nello sviluppo. Nell’esigenza di raggiungere i risultati nei fatidici dieci anni indicati da Stalin per portare il paese a un livello tale da poter resistere alla prevista aggressione[7] (una valutazione che si rivelò pienamente fondata), alcuni obiettivi furono esagerati, irrealistici, infondati. Nella tumultuosa avanzata verso l’industrializzazione furono compiuti errori anche notevoli, fu sconvolto il paesaggio, ridisegnato l’ambiente, anche con una violenza spietata.

Le trasformazioni intervenute tra il 1929 (I piano quinquennale) e il 1941 (aggressione hitleriana) sono impressionanti. Ma la pianificazione che le aveva guidate e il sistema economico che si era costruito intorno ad esse erano largamente imperfette. Assumerle come un modello già maturo di socialismo realizzato sarebbe un errore. Poiché non si terrebbe conto delle condizioni eccezionali nelle quali si è svolto il processo di accumulazione primitiva e di industrializzazione in URSS. In cui volontari, lavoratori d’assalto, stachanovisti, ingegneri, tecnici, dirigenti, erano ossessionati dal raggiungimento degli obiettivi ambiziosi posti dal piano. Cosa che provocava anche notevoli squilibri, cadute produttive, sprechi. L’URSS degli anni trenta non vive in condizioni normali, ma in una continua mobilitazione: campagne produttive, mobilità sociale, che consente la promozione di milioni di analfabeti a tecnici, quadri, membri di partito (che segna il riconoscimento di uno status raggiunto, ma mai permanentemente: ascese e cadute costituiscono una caratteristica dell’instabilità e della mobilitazione di questi anni).

Uno stato d’emergenza permanente caratterizza la vita sovietica degli anni trenta. La rapidissima industrializzazione provoca scosse telluriche nella società, che il partito si propone di controllare e indirizzare; provoca un sommovimento nella composizione dl partito stesso. Gli anni trenta sono anni di una rivoluzione sociale senza precedenti e la Russia compie in 10 anni il percorso che altre società hanno fatto in oltre un secolo.

La guerra introduce un ulteriore fattore di instabilità con il rischio di disgregazione e distruzione dello stato sovietico programmata da Hitler. La struttura sociale sovietica riesce a superare la difficilissima prova. Gli anni successivi sono dedicati con successo alla ricostruzione postbellica, intrapresa in un paese che ha subito i danni più pesanti della guerra distruttiva hitleriana e senza alcun aiuto esterno, nelle condizioni di una nuova guerra – la “guerra fredda” - che gli USA avevano intrapreso contro l’URSS.

Problemi economici del socialismo si colloca dunque ad uno snodo cruciale della storia dell’URSS: si può guardare alla strada percorsa, alle realizzazioni,alle vittorie ottenute in un periodo tumultuoso e senza tregua; si deve guardare al futuro, allo sviluppo della società socialista, ponendo infine l’accento sulla sua necessaria “regolarizzazione”, “stabilizzazione”, fuoriuscita dallo stato d’emergenza. Non è un caso che nel testo si insista tanto sulle leggi oggettive del socialismo. E che cos’è una legge se non regolarità, fine di uno straordinario e prolungato stato d’eccezione?

Il “testamento economico-politico” di Stalin è una riflessione sulla struttura economico-sociale che si è costruita, ma non ha assolutamente il carattere di uno scritto sistematico e compiuto, sì quello di un testo “reattivo”, “occasionale”, di risposta e puntualizzazioni (al pari di celebri precedenti nella storia del marxismo, da Miseria della filosofia alla Critica del programma di Gotha, dall’Antiduhring alle Osservazioni di Lenin al libro di Bucharin Economia del periodo di transizione). Raccolti in un piccolo libro, furono pubblicati quattro scritti di Stalin, prodotti in un arco di tempo di alcuni mesi, dal 1 febbraio 1952 al 28 settembre dello stesso anno: 1. Osservazioni sulle questioni economiche relative alla discussione del novembre 1951; 2. Risposta al compagno Aleksandar Il’ic Notkin; 3. Sugli errori del compagno Jaroscenko; 4. Risposta ai compagni A. V. Sanina e V. C. Vensger[8].

Il primo, e più corposo, prende spunto dalla discussione per giudicare il progetto di manuale di economia politica. L’invito a pubblicare un manuale ufficiale del partito per la formazione comunista dei quadri era stato espressamente formulato in una direttiva del CC del partito comunista (bolscevico) pansovietico del 14 novembre 1938, in concomitanza con la pubblicazione del Breve corso di storia del VKP(b): era necessario, si diceva, impostare le questioni teoriche attuali, generalizzare l’esperienza della costruzione del socialismo, rispondere alle questioni poste dai quadri, elaborare nuovi problemi teorici e sviluppare creativamente il dibattito teorico.

L’invito segnalava indirettamente le grandi carenze teoriche degli economisti sovietici, che la rivista Problemy Ekonomiki qualche mese dopo (nel n. 3 del 1939) denunciava apertamente: gli economisti si limitano ad una descrizione elementare della costruzione socialista e alla ripetizione di qualche formula dei classici del marxismo, ma non sanno applicare creativamente il marxismo-leninismo allo studio “delle leggi dello sviluppo della società, delle leggi di movimento della nostra società sovietica” [9].
Era questa la ragione per cui il manuale che l’Accademia delle Scienze dell’URSS aveva programmato di terminare nel 1938, non poté essere soddisfacentemente redatto. Nel gennaio 1943 fu pubblicato un articolo redazionale della rivista Pod znamenem marksizma (Sotto la bandiera del marxismo), dal titolo “Alcune questioni dell’insegnamento dell’economia politica”, in cui si poneva la questione di definire chiaramente l’oggetto dell’economia politica, “scienza dello sviluppo dei rapporti di produzione tra gli uomini”, e di spiegare il carattere delle leggi economiche del socialismo: “negare l’esistenza di tali leggi economiche significa scadere nel più volgare volontarismo, che, in luogo di un processo regolare, conforme a legge (zakonomernyj[10]) di sviluppoo della produzione, pone l’arbitrio, la casualità, il caos.

E’ chiaro che con tale approccio alla questione si perde ogni criterio per valutare la correttezza di questa o quella linea, di questa o quella politica, si perde la comprensione della regolarità di questi o quei fenomeni nel nostro sviluppo sociale”[11]. L’articolo suscitò grande interesse e dibattiti, non solo in URSS, ma anche all’estero[12], e nella seconda metà degli anni quaranta si intensificò la discussione sovietica tanto sullo statuto teorico dell’economia politica, sul suo oggetto, sulla sua possibilità di estendere tale scienza a tutti i modi di produzione e non solo a quello capitalistico, come aveva invece sostenuto N. Bucharin in Economia del periodo di transizione[13], quanto sulle leggi economiche del socialismo[14].

Questa discussione, che può apparire al lettore odierno artificiosa, “bizantina”, giocata spesso sull’interpretazione di alcuni termini, su puntualizzazioni esasperate di chi sembra dilettarsi nel mestiere di spaccare il capello in quattro, ha invece – come si può ben intuire – un risvolto pratico-politico di importanza cruciale, che risponde sostanzialmente alla domanda: si procederà nella pianificazione e nella direzione e organizzazione dell’attività economica sulla base del “lavoro d’assalto”, di un volontarismo che rispondeva all’esigenza e all’emergenza di una fase tumultuosa di passaggio che dovette essere – per quanto sinora detto - forzatamente rapido da una società agricolo-industriale ad una industriale-agricola, o si pianificherà e organizzerà la produzione e distribuzione di beni sulla base di una valutazione oggettiva e non arbitraria delle condizioni reali del paese, in modo che il socialismo diventi “regolarità”, abitudine, costume nella pratica dei milioni e milioni di cittadini sovietici?

Stalin avverte il bisogno di intervenire in prima persona, con tutta l’autorevolezza di cui dispone[15], nella battaglia contro il volontarismo in economia. La prima delle sue osservazioni sulla bozza di manuale di economia politica presentato nel 1951 riguarda proprio la questione del carattere delle leggi economiche del socialismo. Esse, ribadisce Stalin più volte, hanno carattere oggettivo, “riflettono le leggi di sviluppo dei processi della vita economica, i quali si compiono indipendentemente dalla nostra volontà”[16] e precisa:
“Si dice che la necessità dello sviluppo pianificato (proporzionale) dell’economia del nostro paese dà la possibilità al potere sovietico di sopprimere le leggi economiche esistenti e di crearne delle nuove. Ciò non è affatto vero. Non si possono confondere i nostri piani annuali e quinquennali con la legge economica obiettiva dello sviluppo pianificato, proporzionale, dell’economia nazionale. La legge dello sviluppo pianificato è sorta come contrapposizione alla legge della concorrenza e dell’anarchia della produzione nel capitalismo [...] è entrata in vigore perché un’economia nazionale socialista si può avere soltanto sulla base della legge economica dello sviluppo pianificato dell’economia nazionale. Questo significa che la legge dello sviluppo pianificato dell’economia nazionale dà la possibilità ai nostri organi pianificatori di pianificare in modo giusto la produzione sociale. Ma non si deve confondere la possibilità con la realtà. Per far sì che questa possibilità diventi realtà occorre studiare questa legge economica, impadronirsene, occorre imparare ad applicarla con perfetta cognizione di causa, occorre elaborare dei piani che riflettano per intiero l’esistenza di questa legge. Non si può dire che i nostri piani annuali e quinquennali riflettano per intiero le esigenze di questa legge economica[17].

Questo riferimento esplicito ad errori nella pianificazione e a interventi arbitrari del Gosplan assume – nello snodo cruciale in cui questo scritto appare, quale passaggio di fase ad una riflessione su quanto e come si è costruito – di particolare importanza. Vi sono nel testo staliniano altri riferimenti estremamente critici di plateali errori cui possono essere indotti i pianificatori dall’assenza di una visione oggettiva e realistica e di una teoria del calcolo economico: “i dirigenti d’azienda e i dirigenti della pianificazione avanzarono una proposta che non poté non riempire di stupore i membri del Comitato centrale perché, secondo questa proposta, il prezzo di una tonnellata di grano doveva essere quasi uguale a quello di una tonnellata di cotone, e il prezzo di una tonnellata di grano veniva eguagliato a quello di una tonnellata di pane”[18].

Lo scritto staliniano non ha qui assolutamente un tono trionfalistico e vi si possono leggere, direttamente o in controluce alcune note critiche, che aprono squarci significativi sulle prospettive dell’URSS in questo passaggio cruciale, in cui appare sostanzialmente terminata la fase della costruzione d’assalto e a qualsiasi costo, nonché la ricostruzione postbellica. Nel 1938, a qualche anno di distanza dall’annunciata vittoria dei rapporti di produzione socialisti in URSS, vittoria sancita dalla Costituzione del 1936 (ed è questa la data che gli storici sovietici, ancora negli anni ’80, indicavano come fine del “periodo di transizione” per la costruzione del socialismo e passaggio al socialismo), Stalin scriveva che “i rapporti di produzione corrispondono perfettamente allo stato delle forze produttive, perché il carattere sociale del processo della produzione è rafforzato dalla proprietà sociale dei mezzi di produzione”[19], nello scritto del 1952, pur ribadendo questa corrispondenza generale, ne indica anche il carattere ancora incompiuto:

“I nostri attuali rapporti di produzione attraversano un periodo in cui, corrispondendo appieno alla crescita delle forze produttive, le fanno procedere in avanti a passi da giganti. Ma non sarebbe giusto accontentarsi di questo e ritenere che non esista nessuna contraddizione tra le nostre forze produttive e i rapporti di produzione. Contraddizioni esistono senz’altro ed esisteranno, in quanto lo sviluppo dei rapporti di produzione ritarda e ritarderà rispetto allo sviluppo delle forze produttive”[20].

Può essere interessante notare a proposito del rapporto tra “volontarismo” e “oggettivismo” come un altro grande dirigente rivoluzionario, impegnato a guidare un paese contadino ben più arretrato della Russia presovietica alla duplice transizione alla fuoriuscita dall’arretratezza e al socialismo, commenti questa posizione di Stalin, in un testo denso di minuziose e puntigliose annotazioni sui Problemi economici del socialismo. Commentando nel 1958 il passo di Stalin in cui si critica la confusione che gli economisti volontaristi fanno tra “leggi scientifiche, che riflettono processi oggettivi che si sviluppano nella natura o nella società in modo autonomo e al di fuori della volontà dell’uomo” e leggi emanate dai governi, “espressione della volontà dell’uomo”, che “hanno valore solo in quanto imposte dal potere giuridico”, Mao Tse Tung scrive:“Questa concezione delle leggi è fondamentalmente giusta; però ha due difetti: primo, non mette abbastanza in luce l’attivismo soggettivo del partito e delle masse; secondo, non è completa; non spiega che le leggi statali sono giuste non solo se nascono dalla volontà della classe operaia, ma riflettono anche correttamente le esigenze delle leggi oggettive dell’economia”[21].

Siamo all’epoca del “grande balzo in avanti” e delle comuni popolari, dell’accelerazione estrema e volontaristica che i dirigenti cinesi intendono imporre allo sviluppo dell’economia, ripercorrendo, in qualche modo, un’analoga strada di “lavoro d’assalto” che aveva caratterizzato la prima fase della pianificazione sovietica: l’attivismo soggettivo, non riuscì ad evitare – né in URSS, né in Cina – pesanti errori nell’organizzazione economica.

L’altro grande problema affrontato da Stalin nel suo scritto è quello della produzione mercantile e dell’azione della legge del valore nel socialismo, questione che sarà poi trattata nel complesso nella pubblicistica sovietica successiva come rapporti mercantil-monetari. Anche qui Stalin scioglie un nodo a lungo dibattuto sin dai tempi del “comunismo di guerra”, chiarendo che di per sé la forma merce non implica immediatamente rapporti capitalistici, mentre questi ultimi non possono darsi senza la forma merce: “Si dice che la produzione mercantile in qualsiasi condizione deve portare e necessariamente porterà al capitalismo. Questo non è vero. Non sempre e non in qualsiasi condizione! Non si può identificare la produzione mercantile con la produzione capitalistica. Son due cose diverse.

La produzione capitalistica è la forma più alta di produzione mercantile. La produzione mercantile porta al capitalismo solamente se esiste la proprietà privata, se la forza lavoro si presenta sul mercato come una merce che il capitalista può comprare e sfruttare nel processo di produzione, se, di conseguenza, esiste nel paese un sistema di sfruttamento degli operai salariati da parte dei capitalisti. La produzione capitalistica incomincia là, dove i mezzi di produzione sono concentrati in mani private e gli operai, privi dei mezzi di produzione, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro come una merce. Senza di ciò non vi è produzione capitalistica”[22].

Nella società sovietica tale produzione, continua Stalin, è invece limitata e controllata. Essa si spiega essenzialmente per lo scambio che intercorre tra le due principali forme della proprietà socialista, statale e cooperativo-colcosiana. Tale forma di produzione scomparirà, ma in un futuro non prossimo, con l’unificazione – volontaria e non coatta, poiché la proprietà colcosiana è una forma di proprietà socialista – delle due forme di proprietà e col passaggio alla fase superiore del comunismo, quando anche lo Stato si estinguerà: “Con l’estendersi del campo d’azione del socialismo nella maggior parte dei paesi del mondo lo Stato si estinguerà e, naturalmente, in legame con ciò cadrà la questione del passaggio del patrimonio di singole persone e di singoli gruppi in proprietà dello Stato. Lo Stato si sarà estinto, ma la società continuerà ad esistere.

Di conseguenza, erede della proprietà di tutto il popolo non sarà lo Stato, che si sarà estinto, ma sarà la società stessa, rappresentata dal suo organo economico dirigente centrale”[23]. Ma perché questo passaggio al comunismo si realizzi occorrono condizioni di sviluppo economico e culturale, che consentano la riduzione della giornata lavorativa a sei-cinque ore (era l’idea espressa da Lenin nella prima stesura dei Compiti immediati del potere sovietico), una ricchezza diffusa e un’istruzione politecnica che dia la possibilità a ciascuno di scegliere liberamente il proprio lavoro e non essere inchiodato alla stessa professione[24] (riecheggiano qui i passi marxiani dell’Ideologia tedesca e del Capitale).

La spiegazione fornita da Stalin sulla persistenza di forme economiche mercantil-monetarie e della legge del valore dovuta essenzialmente alla presenza di due forme di proprietà, però, non risolve a pieno la questione, che si presenterà come un problema più generale del calcolo economico nel socialismo.
Un vasto filone di teorici marxisti di sinistra ha criticato a lungo la presenza delle forme mercantil-monetarie come sintomo rivelatore di rapporti capitalistici in URSS. Dalle critiche di A. Bordiga, fino al Le capital socialiste di Bernard Chavance, allievo di Bettelheim, per citarne solo alcuni tra i tanti. A questi critici si può rispondere che essi ignorano le categorie dialettiche della transizione, che pensano strutturalisticamente in termini di sostituzione di un modo di produzione all’altro. In termini di aut aut: o socialismo o capitalismo.

Ma già Lenin aveva posto la questione della pluralità di modi di produzione all’interno di un’unica formazione economico-sociale e del kto pobedit? (chi vincerà?) ritenendo non scontato il risultato della vittoria del socialismo, ma fortemente problematico. A quella domanda Stalin rispondeva nel 1936 affermando la vittoria del socialismo che la nuova costituzione era chiamata a sancire. Sedici anni dopo, tuttavia, le cose non appaiono del tutto scontate. Stalin denuncia l’incapacità dei quadri della pianificazione di avvalersi della legge del piano, la pianificazione non è affatto ottimale. E denuncia gli errori nel calcolo economico.

Il problema del calcolo economico continuerà a travagliare gli economisti sovietici negli anni successivi: migliaia di pagine vengono scritte per cercare di venirne a capo. Qualcuno, come Lange, proporrà il recupero di principi marginalisti; altri estenderanno il computo in termini di prezzi anche ai mezzi di produzione. Un certo revisionismo nella teoria economica si affaccerà, ma credo sia sbagliato e fuorviante qualificare l’insieme di questi tentativi sul calcolo economico in un’economia basata sulla proprietà statale generalizzata dei mezzi di produzione come responsabili dello scacco successivo del socialismo sovietico. E’ una spiegazione mitologica e semplificatoria, che parte dal presupposto che le questioni fondamentali - teoriche e pratiche - di un’economia di transizione fossero tutte già risolte nel 1936 o nel 1952, e che, dunque, la revisione sia stata un deliberato tradimento.

Il fatto è che i problemi erano – stanno – di fronte e non sono soddisfacentemente risolti. E lo scritto di Stalin lo rivela – per quel che dice e per i problemi che tralascia.
L’URSS sotto la guida del gruppo dirigente staliniano riuscì a vincere battaglie decisive, prima di tutto quella di conservare una trincea rivoluzionaria. Riuscì a realizzare una transizione dall’arretratezza all’industrializzazione nel giro di pochi, decisivi anni. E, dunque, il giudizio storico che a distanza di mezzo secolo si può pronunciare su quell’esperienza non può non essere nel complesso positivo. Al di là di errori e contingenze storiche, Stalin affermò il ruolo dell’URSS come rivoluzione vittoriosa, lasciando aperta, dopo la sua scomparsa, la possibilità di ulteriori trasformazioni e rotture rivoluzionarie.
Ma assumere quanto si realizzò in URSS come il modello perfetto e assoluto, come il classico di una transizione al socialismo, sarebbe errato, antidialettico, e, in definitiva, contrario allo spirito dell’ultimo scritto staliniano.


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Note

[1] Cfr. ad esempio N. Spulber, La strategia sovietica per lo sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1970: “A partire dagli anni ’50, che videro la formazione di molti paesi di nuova indipendenza impegnati nella ricerca di una rapida crescita economica, i problemi connessi con l’intervento massiccio dello Stato in economia, con l’industrailizzazione forzata e con la pianificazione, hanno dato origine in Occidente a tutta una serie di pubblicazioni sullo sviluppo economico. Molti dei problemi discussi in queste pubblicazioni occidentali e nei paesi emergenti furono già affrontati nella Russia degli anni ’20. Di qui l’interesse a conoscere le tesi allora dibattute in questo paese...” (p. 105).
[2] Nella popolazione tra i 9 e i 49 anni di età la percentuale di analfabeti scende dal 43% del 1926 al 13% del 1939; la percentuale di studenti universitari provenienti da famiglie operaie sale dal 30% nel 1928-29 a quasi il doppio nel 1932-33. 17 milioni di contadini tra il 1928 e il 1935 passano dalle campagne nelle città o nei nuovi poli industriali. La disoccupazione operaia fu riassorbita nei primi due anni del primo piano quinquennale. Cfr. A. Agosti, Stalin, Editori Riuniti, Roma, 1983, pp. 71-72.
[3] Cfr. N. Bucharin – E. Preobrazenskij, L’accumulazione socialista (a cura di L. Foa), Ed. Riu., Roma, 1969. Cfr. anche Spulber, op. cit.
[4] M. Dobb, Storia dell’economia sovietica, II edizione, Ed. Riu., Roma, 1972, p. 26: “Negli anni che seguirono il 1920 non vi fu alcuna possibilità di manovra e i programmi dovettero in gran parte essere subordinati alle necessità. Un paese sviluppato può sfidare le incognite e procedere per tentativi: un paese povero può puntare solo sulla carta sicura”.
[5] Si veda – ma è solo un esempio tra tanti - la lettera di L. M. Kaganovic a G. K. Ordzonikidze del 4 settembre 1935: “Ciò che accade, ad esempio, con gli ammassi di grano di quest'anno è la nostra tangibile vittoria senza precedenti, è la vittoria dello Stalinismo. Abbiamo già portato all'ammasso un miliardo di pud di grano + 370 milioni rimasti dall'anno precedente. L'Ucraina ha terminato, un'intera serie di altri kraj hanno terminato. [...] Da me al trasporto le cose vanno non male, ma occorre stringere tutto per l'inverno. In particolare ora si è avuto un grande rivolgimento con l'ordine sulle locomotive. Bisogna pensare che ciò apporterà un notevole rafforzamento della vittoria”. (in Stalinskoe Politbjuro v 30-e gody (Il Politbjuro staliniano negli anni Trenta), a cura di O. Chlevnjuk, A. Kvasonkin, L. Koseleva, L. Rogovaja, edizioni «AIRO-XX», Mosca, 1995.
[6] Ecco ciò che scrive Trockij nel 1936: «Gli immensi risultati ottenuti dall'industria, l'inizio molto promettente di uno sviluppo dell'agricoltura, lo svilupparsi straordinario delle vecchie città industriali, la creazione di nuove, il rapido aumento del numero degli operai, l'elevamento del livello di vita e dei bisogni, tali sono i risultati incontestabili della rivoluzione d'Ottobre, in cui i profeti del vecchio mondo videro la tomba della civiltà. Non è più il caso di discutere con i signori economisti borghesi: il socialismo ha dimostrato il diritto alla vittoria non nelle pagine del Capitale, ma su un'arena economica che comprende la sesta parte della superficie del globo; non con il linguaggio della dialettica, ma con quello del ferro, del cemento e dell'elettricità. [...] Solo la rivoluzione proletaria ha permesso a un paese arretrato di ottenere in meno di vent'anni risultati senza precedenti nella storia». Cfr. L. Trockij, La rivoluzione tradita, Samonà e Savelli, Roma, 1972, pp. 6-8.
[7] “Noi siamo in ritardo rispetto ai paesi avanzati da cinquanta a cento anni. Dobbiamo coprire questa distanza in dieci anni. O lo faremo, o saremo schiacciati” (“Sui compiti dei dirigenti dell’industria. Discorso alla prima conferenza dei dirigenti dell’industria socialista dell’Unione sovietica”, 4 febbraio 1931, in Stalin, Opere scelte, edizioni movimento studentesco, Milano 1973, p730-31).
[8] Gli scritti furono pubblicati subito in Italia nel supplemento al numero 9/1952 di Rinascita. Li cito dall’edizione De Donato, Bari, 1976, con introduzione di F. Botta e uno scritto di E. Sereni.
[9] Cfr. AA.VV., Istorija politiceskoj ekonomii socializma, Ed. dell’Università di Leningrado, 1983, pp. 25-26. Da questo testo sono tratte anche altre successive notizie sul dibattito sovietico sulla teoria economica.
[10] L’espressione è tipicamente russa e difficilmente traducibile pienamente in italiano ed esprime l’idea di una conformità ad una legge oggettiva.
[11] Riportato in Istorija...., cit., p. 27.
[12] L’articolo fu tradotto integralmente su The American Economic Review, sett. 1944, pp. 501-530.
[13] Bucharin sostiene che l’economia politica può essere scienza – che ha il compito di svelare l’essenza che si cela dietro il fenomeno - solo per il modo di produzione capitalistico, basato sull’occultamento dei reali rapporti di produzione (il libero acquisto nella sfera della circolazione della merce forza-lavoro cela l’estorsione di pluslavoro che si attua nella sfera della produzione). Ma nel socialismo, in cui i rapporti sociali sono trasparenti, l’economia politica si trasforma in scienza dell’organizzazione. Cfr. N. Bucharin, Economia del periodo di trasformazione, Jaca Book, Milano, 1970.
[14] Si vedano, ad es. gli articoli e saggi di L. A. Leont’ev pubblicati nella seconda metà degli anni quaranta.
[15] E che gli consente anche di opporsi fermamente a che nel nuovo manuale vi sia un “capitolo speciale su Lenin e Stalin quali fondatori dell’economia politica del socialismo”, cfr. Problemi economici del socialismo, op. cit., p. 103.
[16] Stalin, op. cit., p. 63
[17] Stalin, op. cit., p. 61-62. Le evidenziazioni in grassetto sono mie, A. C.
[18] Ivi, p. 76.
[19] Cfr. Materialismo storico e materialismo dialettico, in Opere scelte, cit., p. 938.
[20] Stalin, Problemi economici del socialismo, cit., p. 129.
[21] Mao Tse-Tung, Opere, vol. 17°, Edizione Rapporti Sociali, Milano, 1993, p. 64. Evidenziazione in corsivo mia, A. C.
[22] Stalin, Problemi..., cit., p. 69.
[23] Ivi, p. 152-153.
[24] Cfr. ivi, p. 129-132.

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