Il
Partito della Sinistra Europea (SE) è ormai un dato di fatto politico: un
evento destinato a lanciare una sfida di egemonia all’intero movimento
antagonista e anticapitalista del vecchio continente. I principali artefici di questa sfida sono, non casualmente,
la PDS tedesca, formazione che nasce dalle ceneri del Partito Comunista della
Germania dell’Est e ansiosa di accreditarsi nei salotti alternativi
occidentali, e il PRC italiano. Non a caso, perché la parabola della
rifondazione sta per trovare compimento in un azzeramento di fatto (e ormai
apertamente teorizzato) del suo termine costitutivo, “comunista”. E’
certo, il PSE, un “rassemblement” eclettico, ma esistono presupposti e
coordinate che non solo mirano ad assumere la guida della formazione, ma
strategicamente sono volti a imprimere una direzione politico-ideale al
“movimento dei movimenti”. Basta leggere il dibattito accesosi e
sviluppatosi nel mese di gennaio sulle colonne di Liberazione (fuori da ogni
discussione vera nelle istanze di partito deputate alle decisioni) per
comprendere quali sono questi presupposti e queste coordinate: gli stessi
esponenti della maggioranza del PRC, hanno dovuto faticare non poco a rincorrere
il Bertinotti-pensiero tra interviste e articoli, convegni e scritti molto
spesso fuori dalle regole minime di formazione di linee politiche non di un
partito comunista, ma di qualsivoglia organizzazione politica. C’è stata
un’accelerazione improvvisa, una forzatura voluta: comprendendo molto bene
come questa fosse l’unica maniera per frantumare e disperdere le pur labili
forme di resistenza interna. Perché tutto il dibattito si sarebbe centralizzato
sul metodo
piuttosto che sul merito:
la qual cosa è puntualmente avvenuta. E invece andiamo al merito:
-
la costituzione del PSE avviene
senza una rigorosa analisi della specifica morfologia del capitalismo europeo (e
dei suoi rapporti con il capitalismo americano) e dunque senza comprendere le
forme che già assume e sempre più assumerà l’imperialismo europeo. Per una
forza “antiglobalizzazione” ciò è vitale, per una forza comunista sarebbe
assolutamente necessaria. Ma, appunto, è il comunismo il convitato di pietra.
Il
comunismo viene destrutturato non nella versione del ‘900, ma nei suoi
fondamenti storici costitutivi:
-
la violenza deve essere espunta
come arma delle classi subalterne. Essa, si dice, è l’arma dei poteri
dominanti. Dunque, se mezzi e fini non possono che coincidere, pena il ripetersi
delle tragedie del XX secolo (come le foibe titine, assurte da Bertinotti in un
convegno come simbolo degli “orrori” della “nostra parte”), la
nonviolenza è l’unica forma assoluta
di lotta. La lotta di classe viene così ingabbiata in una sola forma possibile:
e se non si accetta questo assioma assoluto,
si finisce per accettare quella
incredibile categoria direttamente prestata dalle classi dominanti, la spirale guerra-terrorismo.
E ogni assioma, come si sa, oltre a
non dover essere confutato, ha delle conseguenze pratiche: è terrorista
chiunque brandisca l’arma della resistenza armata o non-pacifica per
rispondere alla guerra. Ed è così che terrorista diventa l’avanguardia
palestinese: e, a ritroso, il movimento dei partigiani italiani, i vietcong
vietnamiti, il Che Guevara. Se il
leninismo, tra le sue lezioni, ha quello delle diverse forme della lotta di
classe organizzata (tra cui anche quella di una via pacifica, si badi) proprio a
seconda delle analisi specifiche degli assetti delle classi dominanti (è
evidente, ad es., che una cosa è organizzare la lotta di classe in Nepal,
un’altra in Italia), è giunta l’ora di fare i conti e sbarazzarsi del
leninismo (obiettivo vero, come avevamo già annotato, del V° congresso del
PRC). Il terrorismo viene a definirsi per la forma di lotta, non per l’assenza
di un movimento di massa e popolare al perseguimento dei suoi obiettivi.
-
La fuoriuscita dal leninismo è
fondamentale per il disegno bertinottiano (che, però, come si vede, ha un
respiro quantomeno europeo). Il leninismo, infatti, oltre all’analisi marxista
dell’imperialismo, alle forme della lotta di classe e del ruolo delle
avanguardie nella sua organizzazione, ha un nucleo centrale che non è possibile
“revisionare” ma deve essere cancellato. Questo nucleo forte è nella
questione del potere.
Il leninismo indica lì, nel potere politico, l’architrave del rovesciamento
dei rapporti sociali: in questo, sviluppando creativamente le basi della
riflessione e della prassi marx-engelsiane.
Il leninismo dà una risposta compiuta alla richiesta di “un mondo
diverso è possibile”: è possibile, ed è il socialismo, il superamento delle
antinomie sociali, con una connotazione di classe specifica e affatto
indeterminata: l’egemonia della classe operaia e dei suoi alleati nel
proletariato complessivamente inteso come classe dei produttori associati,
salariati del lavoro servile.
L’ubiquità dei poteri è, al contrario, un altro assioma assoluto: il moderno potere, qui in occidente, si dice, ha diverse dislocazioni senza un centro effettivo. Dunque, tanti poteri, nessun potere da conquistare. E se non c’è nessun potere da conquistare, l’unica forma della lotta conflittuale è la nonviolenza, la disobbedienza, che debbono caratterizzare un movimento senza fini strategici, perché il “mondo diverso” sarà l’esito di un “processo” indistinto e indefinito, di una ricerca incessante, come il rotolare nella botte di Diogene filosofo e della sua lucerna.
M.
Revelli, intellettuale impegnato su questi temi con la pretesa di
un’originalità innovativa post-novecentesca
(e si sa, che tutti i post sono al contrario più debitori delle forme criticate e dunque affatto
creativi) scrive su Il
Manifesto del 18 gennaio u.s., che al posto della “conquista del potere”,
bisogna passare alla “produzione
di relazionalità”. Cosa questo
significhi in concreto non è dato di sapere. Forse che l’affermazione di
nuove relazioni umane prescinde da come gli uomini organizzano complessivamente
le loro relazioni sociali e i rapporti di produzione?
Ciò che colpisce in queste affermazioni apodittiche è la loro pretesa
assolutizzazione, una ricerca dell’”universale” che prescinde dalle
situazioni concrete e determinate. Cioè è l’abbandono completo del marxismo
e una nuova forma di idealismo utopico. Ancora una volta, niente di nuovo sotto
il sole.
Alle
classi subalterne si chiede dunque di rinunciare al potere per strutturare
“relazioni” e di abbandonare per principio forme di lotta che siano
rispondenti ai vari contesti storico-sociali. In cambio, c’è l’assunzione
di nuovi principi assoluti, trascendenti le condizioni materiali di vita. Una
nuova forma di religiosità, dunque, pur laica. E, a questo proposito, non è
indifferente che sulle pagine di Liberazione
e nel PRC si sia sviluppato il dibattito se la religione sia ancora da
considerarsi ‘oppio dei popoli’ (che, come si sa, è direttamente
definizione marxiana). Con la risposta che ci si poteva aspettare da chi oggi ha
le redini e la direzione dell’organizzazione politica: la religione non è più l’’oppio dei
popoli’. Ma la ragione di questa risposta è più implicita che esplicita: il
‘movimento dei movimenti’ ha una forte componente cattolica che, tra
l’altro, proprio in assenza di una compiuta cultura comunista che possa
confrontarsi in autonomia, mira ad un’egemonia di fatto sullo stesso. Categoria, “egemonia”, di derivazione gramsciana, che il
PRC già dal V° Congresso aveva criticato e messo al bando.
-
E’ dunque una vera e propria
offensiva politica e culturale contro i principi della tradizione comunista
quella a cui stiamo assistendo. In sua vece, ma in maniera stupefacente con la
pretesa di conservarne la denominazione, un impasto eclettico che proviene dallo
stesso XX secolo che ci si vorrebbe allegramente buttare alle spalle. Cosa
rimarrà nella storia di questo impasto non è ancora intellegibile. Ma
concretamente rischia di annichilire non solo la memoria, ma ciò che dalla
memoria può essere strumento di emancipazione per le nuove sfide che abbiamo
davanti. La rinuncia al marxismo e al leninismo da parte di comunisti
“rifondati” rischia di privare (o mira a privare?) la classe del suo
strumento organizzativo per tentare di costruire la società socialista.
E
non basta per questo porsi in maniera autoreferenziale rispetto alla tradizione
solo italiana del comunismo, come fa il PdCI, anche perché manca completamente
un vero bilancio critico di quell’esperienza (perché si è autoliquidata?)
per assumerne solo formalmente l’eredità, svuotata di contenuti antagonisti.
Un’alterità che confligge con l’elaborare una prospettiva strategica di internità
alla coalizione di centro-sinistra. Perché una cosa sono le alleanze,
necessarie e da costruire in una sfida egemonica, un’altra l’internità,
che svuota la ragion d’essere di quell’alterità (appunto, solo formale).
E
non basta, da un altro versante, insistere su un mero ruolo di testimonianza e
di vestale dell’ideologia, come in molte esperienze minoritarie si tentano e
continuano a tentarsi, non ponendosi il problema del ruolo storico effettivo
dell’organizzazione politica dei comunisti.
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L’unica strada da intraprendere
è quella della faticosa ricomposizione: l’unità dei comunisti per l’unità
della classe. Un processo che deve
essere avviato a prescindere dai gruppi dirigenti che si sono posti alla
direzione di organizzazioni che non vogliono e possono rinunciare a un termine,
“comunista”, che li pone in condizione di godere di una rendita di
posizione.
E’
una strada faticosa, forse troppo lenta per l’emergere dei problemi e delle
questioni che, ad es., ci pone la politica reazionaria e aggressiva delle destre
al potere (altro che “ubiquità dei poteri”!). Ma è l’unica strada.
Ferdinando
Dubla, gennaio 2004