Confesso che il dibattito avviatosi su "Liberazione"
pone un problema di non facile soluzione, e vale a dire l'individuazione di
quale sia l'effettivo oggetto del contendere. Dato il grande spazio concesso al
tema della "non violenza" si potrebbe pensare che questo sia il cuore
del problema, in verità esso è solo un tassello di un dibattito ben più
ampio. Per i temi e il modo con cui questi sono stati affrontati a me pare che,
di fatto, la questione che è rimessa in campo sia la solita e, cioè, se abbia
senso impegnarsi per la costruzione di un partito comunista, a meno di non
concepire tale costruzione come la salvaguardia di un puro simulacro di cui si
conservano i simboli mentre se ne svuotano i contenuti. Ma veniamo ad alcuni
punti essenziali.
E
cominciamo pure dalla questione della violenza. Molti fra quanti sono
intervenuti (da Tronti, a Raniero La valle, ecc) hanno espresso posizioni che
condivido. Che senso ha oggi questa palingenesi della non violenza? Se si vuole
polemizzare con comportamenti sbagliati a sinistra che praticano (soprattutto
simbolicamente) forme di lotta discutibili sarebbe sufficiente richiamare queste
forze nei momenti dovuti (ma, guarda caso, ce n'e voluto prima di smettere di
civettare con queste forme di protesta). Se si vuole teorizzare che la guerra
preventiva e il terrorismo esauriscono il campo della violenza possibile
bisognerebbe allora per lo meno spiegare che fine ha fatto il concetto di
resistenza. In ogni caso, che senso ha assumere la non violenza come categoria
metastorica? E se, come ha posto Ingrao (utilizzato il più delle volte solo per
le affermazioni che tornano comodo), ci si trovasse nella necessità di reagire
all'aggressione?
Marginalmente,
vorrei tornare sulla vicenda delle Foibe e dei fatti di Venezia. Da quando in
qua uno degli errori fondamentali che avrebbe commesso la sinistra sarebbe stato
quello di "angelizzare" la resistenza? Forse che il problema
fondamentale che abbiamo di fronte è di contrastare l'apologia della violenza
resistenziale? Non scherziamo. Se vi è oggi un problema è semmai quello di
respingere un'iniziativa revisionistica che punta a fare di tutta un'erba un
fascio, mettendo repubblichini e partigiani sulla stessa barca, in nome di una
comune ispirazione patriottica o del rispetto che si deve comunque alla vita
umana. Vorrei anche mi si spiegasse come mai a Venezia i nostri rappresentanti
istituzionali abbiano accettato la modifica del nome di una piazza al fine di
celebrare i martiri delle foibe.
E,
da questo punto di vista, mi permetto di chiedere: da oggi in poi i nostri
amministratori in giro per l'Italia, di fronte ad iniziative analoghe promosse
spesso dai DS (il più delle volte per fare l'occhiolino all'elettorato di
destra), cosa dovranno fare? Forse accodarsi?
definire
un nuovo profilo di questo partito e del suo ruolo. Consideriamo alcune
affermazioni emerse nel dibattito. Il compagno Bertinotti su una recente
intervista su Il manifesto ha testualmente detto: "Vorrei vederlo in faccia
uno che oggi dica voglio fare un partito marxista o leninista". Come debba
essere intesa questa frase (per me sorprendente) lo s'intuisce successivamente
dove, di fronte alla domanda sul senso che a questo punto assume il riferimento
al comunismo, la risposta è assai indicativa: "la parola comunista ha un
valore, ma non dice "io vengo da li", bensì "io vado la".
Quindi, il comunismo ha un senso se fa "tabula rasa" della sua storia.
In questa storia, naturalmente, non c'è solo Stalin, c'è Lenin e anche il
nostro povero Gramsci, che ora comprendiamo come sia stato frettolosamente
cancellato dal nostro statuto.
La
domanda da porsi è la seguente: ma si può costruire qualcosa a partire da un
cumulo di macerie? La risposta che ci viene è non meno sconcertante. Essa sta
nel riferirsi all'assunzione dell'esperienza pratica dei movimenti, escludendo
ogni riferimento ad alcun elemento teorico dato, ma anche semplicemente ad ogni
riflessione sull'esperienza del passato. In questo contesto, è il movimento a
farsi soggetto d'egemonia. E' il movimento, insomma, che si assume il compito di
svolgere il ruolo di intellettuale collettivo e, in ultima analisi, di guidare
la trasformazione. Ma qui sorge una prima questione e cioè quella della presa
del potere. In che modo, insomma, questo movimento può trasformare la società,
a maggior ragione se ormai gli stati nazionali non esistono praticamente più,
se il nuovo potere imperiale è tanto forte quanto spazialmente inafferrabile?
In primo luogo, mi pare, che a questo quesito si tenti di rispondere attraverso
alcune scelte: con l'assunzione della centralità delle nuove
"moltitudini" e considerando praticamente azzerata la dimensione della
sfera politico-istituzionale; in secondo luogo con l'assolutizzazione, come
forma di lotta, della non violenza, scelta considerata obbligata di fronte agli
enormi squilibri nei rapporti di forza con l'impero, ed infine, col rifiuto
della presa del potere come occupazione della sfera politico istituzionale. Qui
il cerchio si chiude.
Gianluigi
Pegolo, 28 gennaio 2004