Non-violenza, diritto alla resistenza e sinistra di fronte alla guerra

 Alberto Burgio 

da : La Rinascita 22.4.2004



Dentro la discussione sulla non-violenza che dura, tra alti e bassi, da qualche mese c’è di tutto. Non è solo una discussione politica, è anche la manifestazione di stati d’animo, di sentimenti e passioni sollecitate dal perdurare della guerra e dal dilagare dell’ansia che essa porta con sé. C’è stato di tutto, a guardar bene, anche nel dibattito interno a Rifondazione comunista, dove non di rado fa capolino la tentazione apocalittica di sbarazzarsi della storia del Novecento e dove pure l’esperienza «grande e terribile» del movimento operaio e comunista assume talvolta le sembianze di una preistoria dalla quale prendere congedo. Da ultimo, registrata l’inconsistenza di certe posizioni, si è sostenuto che il discorso sul ripudio della violenza ha inteso mettere in chiaro l’arcaicità di un concetto di rivoluzione come «presa del Palazzo d’inverno». Peccato che la consapevolezza del carattere processuale della trasformazione rivoluzionaria stia alla base dei Quaderni di Gramsci (e della stessa teoria marxiana delle crisi), dunque al fondamento della discussione teorica del movimento comunista almeno da mezzo secolo a questa parte. Ad ogni modo, meglio tardi che mai.

Insomma, molto rumore per nulla. A meno che non abbia ragione Raniero La Valle. Il quale intende la discussione sulla non-violenza nei termini di una forte ripresa dei temi del pacifismo. «Togliere alla guerra asimmetrica le radici di cui si nutre nel mitico sogno di un’unica sovranità mondiale»: questo è oggi il nucleo propositivo della scelta  non-violenta. Se ci si accorda su questa interpretazione, allora non c’è dubbio: nessuna battaglia è più attuale e indispensabile di questa. Dopodiché, forse, si potrebbe aggiungere qualcosa.

L’attuale quadro «politico-storico» è sorto ben prima dell’11 settembre, e cioè all’indomani della rottura del 1989-91. La fine della Guerra fredda aveva offerto al mondo un’opportunità inedita. Si sarebbe potuto scegliere la pace, senza che ciò minacciasse le posizioni del vincitore. La leadership statunitense (segnatamente il padre dell’attuale presidente americano, il che fornisce materia per qualche meditazione intorno alla persistenza di logiche arcaiche – in senso proprio patriarcali – nel cuore stesso della metropoli capitalistica) volle altrimenti. Puntò tutto sul costante incremento del divario di potenza militare, spostando su logiche di dominio l’intero asse delle relazioni internazionali. L’emergere di altre aree di potenza globale (l’Europa, la Cina, l’India, la stessa Russia) fu di per sé considerato una sfida e un segno di tracotanza. Un delitto di lesa maestà. Le guerre che si sono succedute dal ’91 ad oggi si collocano in questo contesto, dal quale emerge un grave atto di accusa nei confronti della dirigenza americana.

Non si tratta di essere «anti-americani», ma di onestà intellettuale. La Valle ricorda che nel diritto internazionale, dagli albori della modernità, gli Stati nazionali sono stati considerati titolari di uno jus ad bellum che rientrava nelle prerogative della sovranità. Ma quella storia si chiude con il 1945, proprio alla luce dell’esperienza maturata nei due conflitti mondiali. Tant’è che non solo la nostra Costituzione «sovietica», ma anche la Carta dell’Onu e il Trattato fondativo della Nato che vi si richiama mettono la guerra offensiva fuori legge. Ora, cos’altro è quella scatenata da Bush e dal «socialista» Blair se non una guerra offensiva in piena regola, senz’altra motivazione che la volontà di potenza? Cos’altro, se non una radicale violazione del diritto internazionale e dei diritti umani? Ogni discussione sulla violenza oggi deve muovere da questa premessa e incentrarsi su questa denuncia, se non vuol rendersi complice dell’ignominia.

Su un altro punto La Valle ha ragione, proprio quando descrive l’infinita arroganza degli Stati Uniti e osserva che «anche la guerra di difesa contro l’invasione viene dall’invasore considerata illegittima e coloro che la combattono sono definiti “combattenti illegali”». Si ripete (lo ricordava anche Lidia Menapace su Liberazione) la storia dei nostri partigiani chiamati banditi dai nazifascisti. E, proprio come sessant’anni fa, di nuovo anche le società dei «vincitori» sono devastate dalla deriva guerresca: sorvegliate, represse, militarizzate. Mai, dal tempo dei fascismi, la democrazia occidentale è stata più di oggi in pericolo. Solo che, se le cose stanno così, bisognerebbe trarne alcune conseguenze.

Perché continuare a parlare di «terrorismo», dimenticando che niente è più terroristico di una guerra di aggressione? Perché continuare ad agitare questa fantomatica «spirale guerra-terrorismo», accreditando la menzogna americana di una risposta bellica al «terrorismo internazionale»? E cosa vuol dire che «il terrorismo ristabilisce tragicamente» lo schema dialettico cancellato dalla guerra asimmetrica e concluderne che «la politica della non violenza deve rompere questo schema»? Non sembra una sintesi coerente con le premesse. Parlare di terrorismo a proposito di quanto avviene in Iraq significa – lo si intenda o meno – far proprio un programma politico, proprio come ieri parlare di banditi a proposito della lotta partigiana contro nazisti e repubblichini. Gianni Vattimo ha ragione su questo punto. Se è vero che – come anche La Valle riconosce – la «guerra degli sconfitti che non vogliono continuare ad essere sconfitti» non può non far ricorso agli strumenti della guerriglia, delle due l’una: o riconosciamo un diritto alla sopraffazione agli Stati Uniti e ai loro alleati (tra cui con infinita vergogna annoveriamo anche l’Italia, che fa giorno dopo giorno strame della propria Costituzione), o riconosciamo il diritto dei popoli invasi di resistere, rispondendo alla violenza nei modi in cui è loro possibile.

Certo, l’uccisione di prigionieri ripugna alla coscienza civile (al pari – bisogna pur dirlo – dei crimini di guerra commessi quotidianamente dalle forze di occupazione). Ma una coscienza civile non scantona dal fatto che la quantità è qualità e che decine di migliaia di assassini provocati da una guerra decisa a tavolino sono un crimine contro l’umanità (oltre che un lievito di inestinguibile collera) incommensurabile con qualsiasi violazione delle Convenzioni di Ginevra e dello jus publicum europaeum. È mai possibile che non ci si accorga che associarsi al coro della «fermezza» contro il «vile ricatto» dei rapimenti significa ripetere testualmente il commento di Wolfowitz alla decisione di Zapatero di lasciare l’Iraq? È mai possibile che Romano Prodi non capisca che se c’è qualcosa per cui non si può, per nulla al mondo parlare di «unità nazionale», questo qualcosa è proprio una guerra di occupazione?

È davvero incredibile la timidezza con cui a sinistra si commenta quanto accade in Iraq. Ci si divide tra quanti denunciano la «barbarie» dei rapimenti e quanti, con qualche imbarazzo, li giustificano. Tra quanti parteggiano per la resistenza irachena e quanti non osano pronunciarne il nome. Ma pochi levano la voce sul punto che dirime l’intera questione. Lì noi occidentali non abbiamo alcun diritto di stare. Invece ci stiamo, dopo avere continuato per quindici anni a scaricare tonnellate di bombe e avere ucciso un milione di bambini con un embargo criminale. Massacriamo, rapiniamo, devastiamo. Abbiamo le mani e l’anima sozze di sangue innocente. E per giunta ci chiediamo «perché ci odiano tanto». Ogni giorno in più di permanenza in Iraq aggiunge nuove colpe inescusabili. Non c’è molto da aggiungere, il discorso dovrebbe chiudersi qui, prima ancora di cominciare. Invece molto ancora aggiungiamo: e che cosa, per distinguerci da Berlusconi? Che la guerra è stata «sbagliata» (sbagliata!) ma che ora non sarebbe opportuno «abbandonare gli iracheni a se stessi». Quanto razzismo c’è, quanti pregiudizi tipici della cultura colonialista, in simili discorsi – oltre che nella turpe celebrazione della «eroica morte italiana» di Fabrizio Quattrocchi?

Concludo con una osservazione che riguarda quella parte (per fortuna sempre meno vasta) dell’Ulivo che brilla per subalternità alla destra. Le prese di posizione dei Prodi, dei D’Alema, dei Fassino, dei Rutelli e di quanti come loro spaccano il capello in quattro pur di non dire un no che dispiacerebbe all’America e all’elettorato italiano più «moderato» destano serie preoccupazioni sul prossimo futuro di questo paese. Non è bastato il Kosovo, come non sono bastati i disastri accumulati negli ultimi quindici anni su tutti i terreni in cui la sinistra ha rincorso la destra per mostrare a chi conta la propria affidabilità. C’è da temere che la mancanza di coraggio al cospetto di questa sporca guerra anglo-americana («una guerra sporca che fa strage di innocenti», ha detto lo zio di uno dei civili italiani catturati in Iraq) non sia frutto del caso, ma l’espressione dell’idea di «modernità» che informa di sé la cultura dei gruppi dirigenti diessini e post-democristiani. Una cultura figlia di un reaganismo appena temperato nel segno di una sempre più improbabile «terza via» alla Giddens.  

Tutte le scelte strategiche compiute da questi gruppi dirigenti lo testimoniano. Dalle riforme istituzionali (con il maggioritario, il «federalismo», il presidenzialismo e lo sdoganamento delle manomissioni della Costituzione operato alla Bicamerale) alla precarizzazione del lavoro, dal welfare alle privatizzazioni, dalla scuola all’università, non c’è terreno rimasto immune da questa pandemia. E non si intravedono segni di ripensamento. Né sulla politica, né sulla guerra. Ancora un anno fa, subito dopo l’occupazione dell’Iraq, l’on. D’Alema chiedeva a tutta la sinistra di «appoggiare Blair», così come oggi l’Ulivo – per bocca di Prodi – rivendica il Kosovo. Di questo bisogna discutere e con urgenza, in vista delle imminenti scadenze elettorali. Per evitare che – posti dinanzi all’alternativa tra l’originale e una sua copia – gli italiani tornino a votare come nel 2001. E per evitare che l’Italia si trovi di nuovo in una guerra decisa da un governo «progressista».

Piuttosto che di dibattere di violenza e non-violenza, si tratta di riaprire la grande battaglia per il disarmo e la pace che riempì Firenze in occasione del Social Forum Europeo nel novembre del 2002. Mentre la resistenza irachena conquista nuove posizioni allontanando il rischio di nuove aggressioni anglo-americane contro altri Stati sovrani, è giunto il momento di rilanciare il movimento di lotta contro la guerra imperialista.

 

frame ©Lavoro Politico-Linea Rossa


vai all' index di Lavoro Politico nr.11    vai all'home Linea Rossa      scrivi alla redazione       webmaster