RIFONDAZIONE, NON RIMOZIONE
Liberazione - Tribuna sulle
15 tesi di Bertinotti:
Contributi di: Burgio,
Cavallaro, Cristiano, Giannini
Bene la critica, ma il '900 non può
essere rimosso
di
Alberto Burgio
(Liberazione del 30/10/2004)
La discussione sulle 15 Tesi elaborate dal Segretario in vista del Congresso
si è prevalentemente incentrata sulle questioni inerenti allo scenario
politico nazionale e alla questione delle questioni: il tema delle alleanze
per vincere le prossime elezioni politiche, e degli impegni programmatici
per un possibile (ma non certo) accordo di governo con le altre forze di
opposizione. E' ben comprensibile che l'attenzione si polarizzi, in questa
fase, su questo terreno. Nondimeno, anche altre questioni meritano
approfondimento. Il documento di Bertinotti tocca aspetti rilevanti del
quadro internazionale (la globalizzazione neoliberista, la guerra, il
movimento per la pace) e del contesto storico e culturale (il bilancio del
Novecento, l'identità comunista) con i quali il Partito deve fare i conti e
sui quali il Congresso vivrà momenti impegnativi. Vale la pena di discutere
anche di questi.
Un punto condivisibile: l'unificazione dei movimenti
Dico subito che ho trovato nel documento spunti suggestivi e passaggi
condivisibili. Penso, per esempio, alla quarta Tesi, dove l'accento cade
sull'importanza di una iniziativa volta a produrre l'unificazione dei
movimenti che si sono dispiegati in questi anni nei conflitti di lavoro,
nell'opposizione alla guerra, nella critica del neoliberismo e, per quanto
concerne il nostro Paese, nella denuncia del degrado istituzionale e morale
prodotto dal berlusconismo. Si tratta effettivamente di una esigenza
cruciale, che non decide solo della vitalità dei movimenti, ma anche della
loro qualità politica. La sintesi delle rispettive piattaforme - di più: la
messa in comunicazione delle rispettive culture e agende è condizione
essenziale per un salto di qualità che, solo, può assicurare ai movimenti un
protagonismo e un'adeguata capacità di proposta.
Scacciare la guerra dallo scenario internazionale
Lo stesso vale per un passaggio dell'ottava Tesi, dove Bertinotti afferma
che la pace - la pace come valore e come obiettivo di lotta - è il «terreno
di rinascita della politica». In particolare oggi non si può non consentire
con questa valutazione. La guerra è divenuta l'espressione più propria della
crisi della politica, intesa come pratica di autogoverno, di partecipazione
e di democrazia. E' l'esatto contrario di tutto questo. E' la negazione dei
diritti fondamentali (a cominciare dal diritto alla vita) di milioni di
persone. Ed è il principale strumento per la conservazione di un capitalismo
ridotto a puro sistema di sopraffazione, di distribuzione iniqua delle
risorse, di devastazione dell'ambiente e delle relazioni umane. Per questo
non potrà esserci rinascita della politica finché non si sarà posta fine
alla guerra, finché non la si sarà scacciata dalla scena internazionale.
Accanto a passaggi condivisibili, il documento ne contiene tuttavia altri
meno persuasivi. Anche in questo caso mi limito a pochi esempi, riferiti a
temi che mi paiono di particolare rilievo.
Ma la categoria di terrorismo oscura i movimenti di resistenza
Il primo riguarda proprio la guerra, e in particolare la lettura della
catastrofe irachena. Naturalmente sono del tutto d'accordo con
l'attribuzione della responsabilità della guerra all'amministrazione Bush e
con la ferma condanna del terrorismo. Quello che non pare convincente è il
modo con cui Bertinotti imposta la questione del rapporto tra la guerra e il
terrorismo. Il motivo è semplice (è lo stesso che mi ha sempre indotto a
considerare infelice la tesi della «spirale guerra-terrorismo»). Limitarsi a
scrivere che «la guerra alimenta il terrorismo, che è figlio e fratello
della guerra» non suggerisce solo una non condivisibile simmetria tra
elementi diversi per entità e gravità. Fa sì, soprattutto, che si perda di
vista il terzo protagonista dello scenario iracheno: quella Resistenza di
popolo che ha sin qui impedito agli Stati Uniti e ai loro alleati di vincere
la guerra, che sta imponendo loro di rimandare ulteriori (e già pianificate)
campagne di aggressione (in Medio Oriente e non solo), e che mantiene aperto
lo spazio di intervento per un movimento di massa contro la guerra
imperialista che forse, altrimenti, avrebbe ammainato le proprie bandiere.
No alla rimozione del Novecento e delle rivoluzioni operaie
Un secondo insieme di temi meritevoli di discussione sono affrontati nella
sesta Tesi, dedicata alla vicenda storica del movimento operaio e al
problema della rifondazione culturale di una identità comunista all'altezza
di questi tempi. Bertinotti sintetizza l'esperienza del cosiddetto
«socialismo reale» in un giudizio molto netto: parla di «fallimento». Quindi
indica nella «critica al potere» il fondamento teorico di una «nuova idea e
pratica della politica». Il primo giudizio mi pare storicamente e
politicamente errato; il secondo, quanto meno opinabile.
La necessaria denuncia dei processi degenerativi e delle violenze che hanno
macchiato la storia di alcune società post-rivoluzionarie non dovrebbe
portare alla rimozione dei successi delle rivoluzioni operaie del Novecento,
a cominciare dall'Ottobre. L'emancipazione di enormi masse di popolo, il
riconoscimento di diritti sociali, la prima pur problematica esperienza di
abolizione dello sfruttamento capitalistico del lavoro vivo, il sostegno
alle lotte anticoloniali e alle battaglie del movimento operaio e
democratico nei Paesi occidentali - per non parlare della vittoriosa
resistenza contro il nazismo - restano enormi meriti del movimento comunista
novecentesco. Perdere di vista questi risultati significa disperdere un
grande patrimonio di esperienza e impedisce di valutare correttamente le
responsabilità del capitalismo.
Il potere è uno strumento: la sua natura dipende dal fine
Quanto alla critica del potere, il motivo della perplessità è semplice. A
meno di collocarsi su un terreno metafisico (o mistico), non si dovrebbe mai
ragionare in termini assoluti. Il potere è uno strumento; la sua natura
(progressiva o regressiva) dipende dal fine al quale obbedisce. Se il potere
serve a liberare il lavoro e a difenderne l'autonomia, a impedire
un'ingiustizia o una violenza (per esempio una guerra), quel potere non va
criticato, ma difeso e rafforzato. Pena la rinuncia a qualsiasi concreta
prospettiva di trasformazione.
Quali margini di riforme con il patto
di stabilità?
di
Luigi Cavallaro
(Liberazione del 28/10/2004)
Fa bene Bertinotti a riconoscere che è possibile qui e ora dar vita a
un'alternativa programmatica di governo in cui il Prc e le forze della
sinistra di alternativa nel loro complesso diventino motore di un processo
riformatore: troppo tempo s'è perso dietro l'idea che si fossero esauriti
gli spazi del riformismo e che la sovranità dello Stato-nazione fosse ormai
un simulacro dietro il quale dettavano legge le istituzioni politiche
dell'Impero (cioè del capitalismo) globale, al punto che poco importava che
a governare fosse la Casa delle libertà o l'Ulivo, visto che il programma
era già scritto e niente e nessuno poteva modificarlo.
Il tramonto della tesi dell'Impero, un nuovo ruolo agli Stati nazionali
Ci si potrebbe eventualmente interrogare su cosa mai sia accaduto in questo
scorcio di tempo per mutare l'opposto giudizio espresso al riguardo
dall'ultimo congresso e chiedere se le ragioni del riformismo (concetto che,
a scanso di equivoci, uso nell'accezione originaria che esso possedeva nella
cultura del movimento operaio, dove indicava una sequenza di riforme
legislative e lato sensu istituzionali che pervenisse gradualmente alla
trasformazione in senso socialista della società) non fossero presenti anche
prima del 12 settembre scorso. Ma sarebbe polemica inutile: la situazione
odierna è grave, talora perfino seria, e non consente di immorare su
discorsi rivolti all'indietro; meglio quindi esplorare un po' più dappresso
la possibilità evocata da Bertinotti.
Non pochi (e chi scrive fra questi) ritengono che il limite principale
dell'esperienza dei precedenti governi dell'Ulivo vada ricercato
nell'incapacità di intraprendere politiche che avviassero a rimedio i mali
storici della nostra realtà economica e sociale: una struttura fortemente
territorializzata della produzione e dell'occupazione, il declino del
contenuto tecnologico dei nostri prodotti, la conseguente possibilità di
competere con l'estero solo sul costo del lavoro, un settore terziario e
finanziario che pratica comportamenti collusivi, infrastrutture civili
fatiscenti, consumi penalizzati da almeno due decenni di distribuzione del
reddito favorevole ai profitti, un welfare iniquo ed escludente. Mentre ciò
avrebbe richiesto cospicue risorse finanziarie a sostegno della domanda
pubblica, prima ancora che privata, le statistiche indicano invece che negli
anni dell'Ulivo gli investimenti pubblici, scesi ai minimi storici durante i
quattro anni precedenti, non hanno mostrato alcuna significativa inversione
di tendenza, mentre si è proceduto con dedizione degna di miglior causa
nella privatizzazione del patrimonio industriale, con i risultati che
Luciano Gallino ha scolpito con rara efficacia descrittiva nel suo prezioso
La scomparsa dell'Italia industriale.
Grandi riforme in rottura col ciclo neoliberista: una strada obbligata
A ragione, dunque, Bertinotti indica in alcune «grandi riforme di rottura
col ciclo neoliberista» la strada obbligata per «un'innovazione del modello
generale di organizzazione della società»: essenzialmente, un'ampia
redistribuzione del reddito a favore di salari, stipendi e pensioni e la (ri)
costituzione di un'ampia disponibilità di beni pubblici, in un quadro di
rinnovata programmazione dell'allocazione delle risorse pubbliche e private.
Ora, da un punto di vista macroeconomico, riforme del genere implicano che
la spinta sulla spesa pubblica possa essere tale da far tendere il bilancio
verso il pareggio primario (vale a dire verso l'uguaglianza tra la spesa al
netto degli interessi e le entrate fiscali) e che le pressioni sui salari
siano tali non solo da oltrepassare la dinamica dell'inflazione, ma anche da
conquistare quote sempre più ampie di produttività.
Ma come la mettiamo con il Patto di stabilità?
Spinte di questo tipo - lo ha chiarito Emiliano Brancaccio in un lucido
intervento sul manifesto del 18 luglio scorso - non possono certo definirsi
«estremiste», dal momento che si limitano solo ad attenuare, non certo a
ribaltare, l'ascesa tendenziale del saggio di profitto e le conseguenti
variazioni nella distribuzione del reddito: un ribaltamento avverrebbe solo
se l'aumento della spesa portasse al disavanzo primario e l'incremento
salariale superasse quello della produttività. Ma - domando - sono queste
spinte, per quanto «moderate», compatibili con gli obblighi assunti dal
nostro Paese con la sottoscrizione del Patto di stabilità?
Per quanto di quest'ultimo le tesi di Bertinotti non facciano menzione
alcuna, la questione non è secondaria, perché la giustificazione che da
molte parti s'è data dell'incapacità dei primi governi dell'Ulivo di
risolvere i mali storici della nostra società è stata che risorse non ce
n'erano perché si dovevano rispettare i parametri fissati a Maastricht.
Sennonché, lo sforzo di convergere verso quei parametri obbliga lo Stato
italiano a perseguire una linea di politica economica antitetica a quella
auspicata da Bertinotti, perché comporta la necessità di spendere per
sanità, pensioni, istruzione, ricerca e sviluppo ecc. meno di quel che
s'introita con le tasse e di «girare» la differenza ai portatori di titoli
del debito pubblico, almeno fino a quando quest'ultimo non sarà abbattuto di
circa la metà (per capirci: dal 1993 al 2003 ciò ha comportato minori spese
per 484.000 miliardi di vecchie lire).
La domanda obbligata, allora, è la seguente: è possibile, con un vincolo
simile, risolvere gli immani problemi che abbiamo di fronte? O non si
continuerà a fare come s'è fatto in passato, cioè a scambiare per
«riformismo» la destrutturazione del mercato del lavoro e della previdenza
sociale, che poi è la strada obbligata se si vogliono sostenere i profitti
in un contesto di domanda calante? E che farà Rifondazione quando le si
chiederà di contribuire allo scopo? Abbozzerà, come ha fatto col pacchetto
Treu (padre naturale della legge 30) e con la controriforma delle pensioni
approvata dal primo governo Prodi, o romperà il patto di governo, nell'uno e
nell'altro caso vanificando la possibilità di sconfiggere la legge del
pendolo, il cui spettro Bertinotti opportunamente richiama nell'undicesima
tesi?
Mi è già capitato altre volte di richiamare l'attenzione su queste e simili
questioni, che certo non incontrano l'interesse delle masse, per quanto ne
condizionino come poche altre le concrete condizioni di vita. Soprattutto
quando si discute di coalizioni, governi e riforme sarebbe bene, però,
averle presenti: il diavolo sta sempre nei dettagli.
Un programma per una sinistra
d'alternativa
di
Stefano Cristiano
(Liberazione del 3/11/2004)
Le 15 tesi proposte da Bertinotti e la recente discussione nel
Cpn, ci offrono una base comune di discussione e alcuni punti che meritano
un approfondimento. Per questo ho votato contro la proposta di congresso a
mozioni, che enfatizza le differenze e fa prevalere le logiche di
schieramento, e a favore di un congresso a tesi emendabili, che privilegia i
contenuti e permette di circoscrivere il dissenso. Purtroppo il segretario e
la maggioranza del Cpn hanno scelto la prima ipotesi, deludendo quella
richiesta di unità che anche dentro il Prc è forte e presente.
Una necessità: costruire la sinistra di
alternativa
Uno dei punti sostanziali sui quali c'è piena sintonia con il
Segretario è la necessità di costruire la Sinistra di Alternativa. Ma
proprio alla luce di questo obiettivo trovo contraddittoria l'accelerazione
impressa alla costruzione della Gad. Battere Berlusconi è una priorità, e
l'unità con le opposizioni per sconfiggere le destre è indispensabile. Però
l'ingresso organico in un governo è un'altra cosa. Ebbene anziché costruire
la Sinistra di Alternativa, definirne i contenuti, e confrontarsi poi, da
una posizione di forza, con tutto il centro sinistra, noi abbiamo già deciso
di stare in una coalizione di governo, ne abbiamo scelto il nome, ed
individuata la guida, il tutto senza sapere su quali basi programmatiche e
dovendone rispettare i vincoli attraverso la scelta delle primarie che sono
coerenti al modello bipolare e maggioritario che privilegia le persone
rispetto ai contenuti e alle organizzazioni che li sostengono. Accettando le
primarie quindi veniamo meno ad una linea che abbiamo sostenuto da sempre,
diamo per acquisita la nostra presenza all'interno della Gad e ci accingiamo
ad accettarne le scelte visto che come coerentemente sottolineato dal
segretario nell'intervista di agosto le primarie di programma impongono
l'accettazione del vincolo di maggioranza.
Il punto è che il no alla guerra senza se e senza ma e il ritiro delle
truppe dall'Iraq sono elementi costitutivi del Prc, e la difficoltà del
nostro percorso nel rapporto con la Gad si è palesata proprio in questi
giorni: la recente mozione parlamentare sull'Iraq se da un lato ha dato
visibilità mediatica al partito, dall'altro rappresenta un arretramento
rispetto al documento unitario votato prima delle elezioni amministrative.
Infatti allora il ritiro delle truppe non era subordinato ad altri eventi,
nella nuova mozione esso avviene solo dopo la conferenza di pace, che per
altro non prevede la presenza della resistenza irachena, e dopo elezioni
svolte in condizioni imprevedibili.
Un eventuale governo con il Prc deve
escludere ogni intervento militare
Ebbene io credo che un governo con ministri del Prc oltre a
prevedere il ritiro immediato delle truppe italiane, dovrà escludere
qualsiasi intervento militare, più o meno umanitario, con o senza l'Onu. Una
scelta come questa non può essere subordinata ad un vincolo di maggioranza,
e se non fosse prevista il Prc non dovrà partecipare ad alcuna coalizione di
governo.
Nella 15 tesi, e poi approfondendo il concetto al Cpn, il Segretario ci
esorta a non fissare paletti programmatici ma a considerare il governo come
uno degli strumenti da utilizzare per una alternativa di società e chiede al
partito di ragionare in termini di blocco sociale e di sua rappresentanza.
Berlusconi ha un blocco sociale di riferimento e tutte le sue scelte sono
coerentemente orientate a soddisfarne gli interessi, mi chiedo: qual è il
referente prevalente della Gad? Il mondo del lavoro? La piccola borghesia?
La confindustria? O tutto quanto insieme? Ecco quindi che l'individuazione
di alcuni contenuti programmatici, è indispensabile per definire il segno
del governo di centro sinistra e se sarà in grado di rimettere insieme i
cocci del nostro blocco sociale frantumato e distrutto dalle politiche
neo-liberiste.
Un programma per ricomporre il nostro
blocco sociale
La cancellazione delle leggi vergogna quindi non è una
bandierina: cancellare la legge 30 per la stabilità dei rapporti di lavoro;
cancellare la legge Moratti per una scuola aconfessionale e non classista;
cancellare le leggi ad personam e la bossi-fini per eliminare i privilegi
dei potenti e favorire i diritti dei più deboli; cancellare la legge sulle
pensioni, per garantire un futuro dignitoso a chi oggi lavori; cancellare la
futura riforma fiscale per far pagare a chi ha fatto profitti e sostenere i
servizi pubblici ed i servizi sociali. A questo si deve unire una legge
sulla rappresentanza sindacale, che ridia forza ai lavoratori nei luoghi di
lavoro, ed una nuova scala mobile per tutelare il potere d'acquisto di chi
viva del proprio salario.
Queste sono, a mio parere, le condizioni minime per rispondere alla nostra
gente senza le quali il Prc non potrà far parte di nessun governo, e
dobbiamo dire forte nel nostro congresso e fuori che una alternativa di
società può nascere solo a partire dalla individuazione di una serie di
scelte programmatiche non mediabili perché strutturali, e condivise in
questi anni con quel mondo con il quale abbiamo lavorato, e intendiamo
lavorare per la costruzione della sinistra di alternativa.
Se temi, argomenti e contenuti come quelli che ho cercato di sintetizzare,
saranno ritenuti tali dal Segretario da non consentire un congresso unitario
perché snaturerebbero la linea del partito, ne prenderò serenamente atto e
cercherò, con spirito unitario, di spiegare al partito le mie ragioni.
Stefano Cristiano
Prima i contenuti, poi lo schieramento
di
Fosco Giannini
(Liberazione del 2/11/2004)
Molte considerazioni contenute nelle 15 Tesi di Bertinotti sono
condivisibili. Ciò mi conferma nel convincimento che sarebbe stata
largamente preferibile l'ipotesi di un Congresso su documenti a tesi
emendabili e non su mozioni contrapposte, come ha deciso il Comitato
politico dei giorni scorsi. Ciò avrebbe potuto assicurare il massimo di
partecipazione e di dialettica interna, entro una cornice unitaria.
In questa sede, allo scopo di nutrire la più approfondita discussione tra
noi, concentrerò il mio ragionamento intorno a due argomenti sui quali ho
opinioni diverse dal Segretario.
La questione del governo
Ovviamente siamo tutti d'accordo che bisogna cacciare Berlusconi e che, per
ottenere questo risultato, occorre costruire un'alleanza con tutte le forze
di opposizione. Affermo questa necessità da tempo, da quando nel partito era
molto impopolare farlo e chi poneva il tema delle alleanze veniva
spregiativamente definito frontista. Il rischio, oggi, è che si passi da un
estremo all'altro: dall'impossibilità dell'accordo, all'accordo di governo
prima ancora di avere iniziato a discutere di contenuti. In questo modo si
metterebbe in discussione un punto dirimente dell'identità e del profilo di
Rifondazione Comunista: il principio che prima vengono i contenuti, poi gli
schieramenti. Su questo manifesto il mio dissenso.
Noi oggi facciamo parte della Grande Alleanza Democratica e abbiamo già
detto che faremo parte del prossimo governo, ma, chiedo, quali sono i
contenuti programmatici condivisi e qualificanti che ci hanno spinto ad
entrare della Gad? Nessuno, visto che di programma ancora non si è discusso.
Le stesse decisioni assunte nell'ultima riunione della Gad hanno prodotto
iniziative che successivamente hanno perso di efficacia: una manifestazione
contro la Finanziaria è stata inopportunamente rinviata e probabilmente non
si realizzerà. E la mozione sulla guerra rappresenta un passo indietro
rispetto la precedente mozione unitaria che chiedeva il ritiro immediato.
Noi abbiamo sempre sostenuto - e io resto di questa opinione - che gli
obiettivi strategici della componente maggioritaria del centrosinistra e
della sinistra di alternativa sono radicalmente diversi. La prima si muove
nella cornice del sistema capitalista per rimuoverne le storture più gravi,
la seconda opera per fuoriuscirne. Ne segue che le intese per battere le
destre - che devono essere ricercate - sono necessariamente parziali e
debbono in ogni caso essere vincolate a contenuti programmatici.
Ma, si dice, oggi la situazione è mutata, è «cambiato il vento» e l'asse del
centrosinistra si è spostato a sinistra. E' un'analisi che non ritengo
suffragata da fatti. E' vero che rispetto agli anni passati ci sono
significativi mutamenti nell'orientamento di importanti organizzazioni
sindacali (la Fiom e, parzialmente, la Cgil) e che si è consolidato un
importate movimento per la pace e contro il liberismo. Ma questi fatti non
hanno ancora mutato i connotati politici di fondo del centrosinistra in
Italia e in Europa. Infatti dice Rutelli: «Vinceremo se terremo il centro
dell'arena». Dice Prodi: «Gli italiani vivono più a lungo, dunque si deve
avere il coraggio di essere impopolari in materia di pensioni». E dice
Veltroni: «In certe circostanze è necessario l'uso della forza come è stato
per porre fine ai massacri in Bosnia e nel Kosovo».
Non sarà quindi facile scrivere un programma di governo comune e, in ogni
caso, noi non possiamo accontentarci di un "impianto generale", così come
sta scritto nelle 15 Tesi. E' necessario porre alcuni punti programmatici
vincolanti e irrinunciabili, senza i quali non si deve entrare nel governo.
Sono gli obiettivi su cui sono cresciuti e hanno combattuto i movimenti che
si sono espressi in questi anni: il rifiuto della guerra da chiunque
dichiarata, Onu compresa; una legge che consenta ai lavoratori di votare i
loro contratti; l'abrogazione delle leggi vergona di Berlusconi (legge 30,
pensioni, Bossi-Fini, Moratti); una nuova scala mobile. Se non facciamo
questo, noi rischiamo di compromettere la nostra autonomia, poiché è del
tutto evidente che, ove si ripetesse, una rottura come quella del 1998
potrebbe provocare conseguenze ben più gravi.
La guerra e il terrorismo
In una intervista uscita in agosto Bertinotti ha detto che, se
dalle primarie sui programmi a cui partecipasse l'elettorato, emergesse una
posizione favorevole alla guerra sotto l'egida dell'Onu, Rifondazione si
adeguerebbe a questo esito. Non sono d'accordo. Come la Fiom dice: «sui
licenziamenti non si vota», così noi dobbiamo dire «sulla guerra non si
vota».
Oltre a questo credo che la rappresentazione della situazione internazionale
attraverso la «spirale guerra-terrorismo» sia fuorviante. La guerra in Iraq
è stata decisa ben prima degli attentati dell'11 settembre. Ha a che fare
con il petrolio e con il controllo di una zona strategica del mondo. Parlare
di «spirale guerra-terrorismo» significa equiparare le responsabilità della
crisi internazionale, mentre invece sono decisive e determinanti le scelte
di guerra del governo americano e, per quanto riguarda il Medio Oriente, dal
governo israeliano. Siamo nemici irriducibili del terrorismo. I comunisti lo
sono sempre stati. Ma dobbiamo avere il coraggio di dire che è terrorismo
anche quello di Bush e di Blair, che dall'inizio della guerra - definita
illegale da Kofi Annan - ha causato almeno 100mila morti, quasi tutti civili
innocenti. La guerra è terrorismo all'ennesima potenza.
Ma soprattutto, nelle 15 Tesi non compare mai la parola Resistenza. E ciò è
sbagliato, poiché in Iraq non vi sono solo la guerra e il terrorismo; c'è un
popolo che resiste, anche con le armi, per cacciare le truppe di occupazione
e per conquistare il diritto di decidere del proprio destino. Di questa
Resistenza va affermata la piena legittimità. Non solo. Noi dobbiamo
auspicare che essa si rafforzi, intrecciandosi con il movimento
internazionale della pace. Affinché, attraverso questa unione, si riesca a
sconfiggere la politica di guerra dell'imperialismo americano.
Fosco Giannini