RIFONDAZIONE, NON RIMOZIONE

 

Liberazione - Tribuna sulle 15 tesi di Bertinotti:

Contributi di: Burgio, Cavallaro, Cristiano, Giannini

Bene la critica, ma il '900 non può essere rimosso
di  Alberto Burgio
(Liberazione del 30/10/2004)

La discussione sulle 15 Tesi elaborate dal Segretario in vista del Congresso si è prevalentemente incentrata sulle questioni inerenti allo scenario politico nazionale e alla questione delle questioni: il tema delle alleanze per vincere le prossime elezioni politiche, e degli impegni programmatici per un possibile (ma non certo) accordo di governo con le altre forze di opposizione. E' ben comprensibile che l'attenzione si polarizzi, in questa fase, su questo terreno. Nondimeno, anche altre questioni meritano approfondimento. Il documento di Bertinotti tocca aspetti rilevanti del quadro internazionale (la globalizzazione neoliberista, la guerra, il movimento per la pace) e del contesto storico e culturale (il bilancio del Novecento, l'identità comunista) con i quali il Partito deve fare i conti e sui quali il Congresso vivrà momenti impegnativi. Vale la pena di discutere anche di questi.

Un punto condivisibile: l'unificazione dei movimenti
Dico subito che ho trovato nel documento spunti suggestivi e passaggi condivisibili. Penso, per esempio, alla quarta Tesi, dove l'accento cade sull'importanza di una iniziativa volta a produrre l'unificazione dei movimenti che si sono dispiegati in questi anni nei conflitti di lavoro, nell'opposizione alla guerra, nella critica del neoliberismo e, per quanto concerne il nostro Paese, nella denuncia del degrado istituzionale e morale prodotto dal berlusconismo. Si tratta effettivamente di una esigenza cruciale, che non decide solo della vitalità dei movimenti, ma anche della loro qualità politica. La sintesi delle rispettive piattaforme - di più: la messa in comunicazione delle rispettive culture e agende è condizione essenziale per un salto di qualità che, solo, può assicurare ai movimenti un protagonismo e un'adeguata capacità di proposta.

Scacciare la guerra dallo scenario internazionale
Lo stesso vale per un passaggio dell'ottava Tesi, dove Bertinotti afferma che la pace - la pace come valore e come obiettivo di lotta - è il «terreno di rinascita della politica». In particolare oggi non si può non consentire con questa valutazione. La guerra è divenuta l'espressione più propria della crisi della politica, intesa come pratica di autogoverno, di partecipazione e di democrazia. E' l'esatto contrario di tutto questo. E' la negazione dei diritti fondamentali (a cominciare dal diritto alla vita) di milioni di persone. Ed è il principale strumento per la conservazione di un capitalismo ridotto a puro sistema di sopraffazione, di distribuzione iniqua delle risorse, di devastazione dell'ambiente e delle relazioni umane. Per questo non potrà esserci rinascita della politica finché non si sarà posta fine alla guerra, finché non la si sarà scacciata dalla scena internazionale.

Accanto a passaggi condivisibili, il documento ne contiene tuttavia altri meno persuasivi. Anche in questo caso mi limito a pochi esempi, riferiti a temi che mi paiono di particolare rilievo.

Ma la categoria di terrorismo oscura i movimenti di resistenza
Il primo riguarda proprio la guerra, e in particolare la lettura della catastrofe irachena. Naturalmente sono del tutto d'accordo con l'attribuzione della responsabilità della guerra all'amministrazione Bush e con la ferma condanna del terrorismo. Quello che non pare convincente è il modo con cui Bertinotti imposta la questione del rapporto tra la guerra e il terrorismo. Il motivo è semplice (è lo stesso che mi ha sempre indotto a considerare infelice la tesi della «spirale guerra-terrorismo»). Limitarsi a scrivere che «la guerra alimenta il terrorismo, che è figlio e fratello della guerra» non suggerisce solo una non condivisibile simmetria tra elementi diversi per entità e gravità. Fa sì, soprattutto, che si perda di vista il terzo protagonista dello scenario iracheno: quella Resistenza di popolo che ha sin qui impedito agli Stati Uniti e ai loro alleati di vincere la guerra, che sta imponendo loro di rimandare ulteriori (e già pianificate) campagne di aggressione (in Medio Oriente e non solo), e che mantiene aperto lo spazio di intervento per un movimento di massa contro la guerra imperialista che forse, altrimenti, avrebbe ammainato le proprie bandiere.

No alla rimozione del Novecento e delle rivoluzioni operaie
Un secondo insieme di temi meritevoli di discussione sono affrontati nella sesta Tesi, dedicata alla vicenda storica del movimento operaio e al problema della rifondazione culturale di una identità comunista all'altezza di questi tempi. Bertinotti sintetizza l'esperienza del cosiddetto «socialismo reale» in un giudizio molto netto: parla di «fallimento». Quindi indica nella «critica al potere» il fondamento teorico di una «nuova idea e pratica della politica». Il primo giudizio mi pare storicamente e politicamente errato; il secondo, quanto meno opinabile.

La necessaria denuncia dei processi degenerativi e delle violenze che hanno macchiato la storia di alcune società post-rivoluzionarie non dovrebbe portare alla rimozione dei successi delle rivoluzioni operaie del Novecento, a cominciare dall'Ottobre. L'emancipazione di enormi masse di popolo, il riconoscimento di diritti sociali, la prima pur problematica esperienza di abolizione dello sfruttamento capitalistico del lavoro vivo, il sostegno alle lotte anticoloniali e alle battaglie del movimento operaio e democratico nei Paesi occidentali - per non parlare della vittoriosa resistenza contro il nazismo - restano enormi meriti del movimento comunista novecentesco. Perdere di vista questi risultati significa disperdere un grande patrimonio di esperienza e impedisce di valutare correttamente le responsabilità del capitalismo.

Il potere è uno strumento: la sua natura dipende dal fine
Quanto alla critica del potere, il motivo della perplessità è semplice. A meno di collocarsi su un terreno metafisico (o mistico), non si dovrebbe mai ragionare in termini assoluti. Il potere è uno strumento; la sua natura (progressiva o regressiva) dipende dal fine al quale obbedisce. Se il potere serve a liberare il lavoro e a difenderne l'autonomia, a impedire un'ingiustizia o una violenza (per esempio una guerra), quel potere non va criticato, ma difeso e rafforzato. Pena la rinuncia a qualsiasi concreta prospettiva di trasformazione.


Quali margini di riforme con il patto di stabilità?
di  Luigi Cavallaro
(Liberazione del 28/10/2004)

Fa bene Bertinotti a riconoscere che è possibile qui e ora dar vita a un'alternativa programmatica di governo in cui il Prc e le forze della sinistra di alternativa nel loro complesso diventino motore di un processo riformatore: troppo tempo s'è perso dietro l'idea che si fossero esauriti gli spazi del riformismo e che la sovranità dello Stato-nazione fosse ormai un simulacro dietro il quale dettavano legge le istituzioni politiche dell'Impero (cioè del capitalismo) globale, al punto che poco importava che a governare fosse la Casa delle libertà o l'Ulivo, visto che il programma era già scritto e niente e nessuno poteva modificarlo.

Il tramonto della tesi dell'Impero, un nuovo ruolo agli Stati nazionali
Ci si potrebbe eventualmente interrogare su cosa mai sia accaduto in questo scorcio di tempo per mutare l'opposto giudizio espresso al riguardo dall'ultimo congresso e chiedere se le ragioni del riformismo (concetto che, a scanso di equivoci, uso nell'accezione originaria che esso possedeva nella cultura del movimento operaio, dove indicava una sequenza di riforme legislative e lato sensu istituzionali che pervenisse gradualmente alla trasformazione in senso socialista della società) non fossero presenti anche prima del 12 settembre scorso. Ma sarebbe polemica inutile: la situazione odierna è grave, talora perfino seria, e non consente di immorare su discorsi rivolti all'indietro; meglio quindi esplorare un po' più dappresso la possibilità evocata da Bertinotti.

Non pochi (e chi scrive fra questi) ritengono che il limite principale dell'esperienza dei precedenti governi dell'Ulivo vada ricercato nell'incapacità di intraprendere politiche che avviassero a rimedio i mali storici della nostra realtà economica e sociale: una struttura fortemente territorializzata della produzione e dell'occupazione, il declino del contenuto tecnologico dei nostri prodotti, la conseguente possibilità di competere con l'estero solo sul costo del lavoro, un settore terziario e finanziario che pratica comportamenti collusivi, infrastrutture civili fatiscenti, consumi penalizzati da almeno due decenni di distribuzione del reddito favorevole ai profitti, un welfare iniquo ed escludente. Mentre ciò avrebbe richiesto cospicue risorse finanziarie a sostegno della domanda pubblica, prima ancora che privata, le statistiche indicano invece che negli anni dell'Ulivo gli investimenti pubblici, scesi ai minimi storici durante i quattro anni precedenti, non hanno mostrato alcuna significativa inversione di tendenza, mentre si è proceduto con dedizione degna di miglior causa nella privatizzazione del patrimonio industriale, con i risultati che Luciano Gallino ha scolpito con rara efficacia descrittiva nel suo prezioso La scomparsa dell'Italia industriale.

Grandi riforme in rottura col ciclo neoliberista: una strada obbligata
A ragione, dunque, Bertinotti indica in alcune «grandi riforme di rottura col ciclo neoliberista» la strada obbligata per «un'innovazione del modello generale di organizzazione della società»: essenzialmente, un'ampia redistribuzione del reddito a favore di salari, stipendi e pensioni e la (ri) costituzione di un'ampia disponibilità di beni pubblici, in un quadro di rinnovata programmazione dell'allocazione delle risorse pubbliche e private.

Ora, da un punto di vista macroeconomico, riforme del genere implicano che la spinta sulla spesa pubblica possa essere tale da far tendere il bilancio verso il pareggio primario (vale a dire verso l'uguaglianza tra la spesa al netto degli interessi e le entrate fiscali) e che le pressioni sui salari siano tali non solo da oltrepassare la dinamica dell'inflazione, ma anche da conquistare quote sempre più ampie di produttività.

Ma come la mettiamo con il Patto di stabilità?

Spinte di questo tipo - lo ha chiarito Emiliano Brancaccio in un lucido intervento sul manifesto del 18 luglio scorso - non possono certo definirsi «estremiste», dal momento che si limitano solo ad attenuare, non certo a ribaltare, l'ascesa tendenziale del saggio di profitto e le conseguenti variazioni nella distribuzione del reddito: un ribaltamento avverrebbe solo se l'aumento della spesa portasse al disavanzo primario e l'incremento salariale superasse quello della produttività. Ma - domando - sono queste spinte, per quanto «moderate», compatibili con gli obblighi assunti dal nostro Paese con la sottoscrizione del Patto di stabilità?

Per quanto di quest'ultimo le tesi di Bertinotti non facciano menzione alcuna, la questione non è secondaria, perché la giustificazione che da molte parti s'è data dell'incapacità dei primi governi dell'Ulivo di risolvere i mali storici della nostra società è stata che risorse non ce n'erano perché si dovevano rispettare i parametri fissati a Maastricht.

Sennonché, lo sforzo di convergere verso quei parametri obbliga lo Stato italiano a perseguire una linea di politica economica antitetica a quella auspicata da Bertinotti, perché comporta la necessità di spendere per sanità, pensioni, istruzione, ricerca e sviluppo ecc. meno di quel che s'introita con le tasse e di «girare» la differenza ai portatori di titoli del debito pubblico, almeno fino a quando quest'ultimo non sarà abbattuto di circa la metà (per capirci: dal 1993 al 2003 ciò ha comportato minori spese per 484.000 miliardi di vecchie lire).

La domanda obbligata, allora, è la seguente: è possibile, con un vincolo simile, risolvere gli immani problemi che abbiamo di fronte? O non si continuerà a fare come s'è fatto in passato, cioè a scambiare per «riformismo» la destrutturazione del mercato del lavoro e della previdenza sociale, che poi è la strada obbligata se si vogliono sostenere i profitti in un contesto di domanda calante? E che farà Rifondazione quando le si chiederà di contribuire allo scopo? Abbozzerà, come ha fatto col pacchetto Treu (padre naturale della legge 30) e con la controriforma delle pensioni approvata dal primo governo Prodi, o romperà il patto di governo, nell'uno e nell'altro caso vanificando la possibilità di sconfiggere la legge del pendolo, il cui spettro Bertinotti opportunamente richiama nell'undicesima tesi?

Mi è già capitato altre volte di richiamare l'attenzione su queste e simili questioni, che certo non incontrano l'interesse delle masse, per quanto ne condizionino come poche altre le concrete condizioni di vita. Soprattutto quando si discute di coalizioni, governi e riforme sarebbe bene, però, averle presenti: il diavolo sta sempre nei dettagli.


Un programma per una sinistra d'alternativa
di  Stefano Cristiano
(Liberazione del 3/11/2004)

Le 15 tesi proposte da Bertinotti e la recente discussione nel Cpn, ci offrono una base comune di discussione e alcuni punti che meritano un approfondimento. Per questo ho votato contro la proposta di congresso a mozioni, che enfatizza le differenze e fa prevalere le logiche di schieramento, e a favore di un congresso a tesi emendabili, che privilegia i contenuti e permette di circoscrivere il dissenso. Purtroppo il segretario e la maggioranza del Cpn hanno scelto la prima ipotesi, deludendo quella richiesta di unità che anche dentro il Prc è forte e presente.

Una necessità: costruire la sinistra di alternativa
Uno dei punti sostanziali sui quali c'è piena sintonia con il Segretario è la necessità di costruire la Sinistra di Alternativa. Ma proprio alla luce di questo obiettivo trovo contraddittoria l'accelerazione impressa alla costruzione della Gad. Battere Berlusconi è una priorità, e l'unità con le opposizioni per sconfiggere le destre è indispensabile. Però l'ingresso organico in un governo è un'altra cosa. Ebbene anziché costruire la Sinistra di Alternativa, definirne i contenuti, e confrontarsi poi, da una posizione di forza, con tutto il centro sinistra, noi abbiamo già deciso di stare in una coalizione di governo, ne abbiamo scelto il nome, ed individuata la guida, il tutto senza sapere su quali basi programmatiche e dovendone rispettare i vincoli attraverso la scelta delle primarie che sono coerenti al modello bipolare e maggioritario che privilegia le persone rispetto ai contenuti e alle organizzazioni che li sostengono. Accettando le primarie quindi veniamo meno ad una linea che abbiamo sostenuto da sempre, diamo per acquisita la nostra presenza all'interno della Gad e ci accingiamo ad accettarne le scelte visto che come coerentemente sottolineato dal segretario nell'intervista di agosto le primarie di programma impongono l'accettazione del vincolo di maggioranza.

Il punto è che il no alla guerra senza se e senza ma e il ritiro delle truppe dall'Iraq sono elementi costitutivi del Prc, e la difficoltà del nostro percorso nel rapporto con la Gad si è palesata proprio in questi giorni: la recente mozione parlamentare sull'Iraq se da un lato ha dato visibilità mediatica al partito, dall'altro rappresenta un arretramento rispetto al documento unitario votato prima delle elezioni amministrative. Infatti allora il ritiro delle truppe non era subordinato ad altri eventi, nella nuova mozione esso avviene solo dopo la conferenza di pace, che per altro non prevede la presenza della resistenza irachena, e dopo elezioni svolte in condizioni imprevedibili.

Un eventuale governo con il Prc deve escludere ogni intervento militare
Ebbene io credo che un governo con ministri del Prc oltre a prevedere il ritiro immediato delle truppe italiane, dovrà escludere qualsiasi intervento militare, più o meno umanitario, con o senza l'Onu. Una scelta come questa non può essere subordinata ad un vincolo di maggioranza, e se non fosse prevista il Prc non dovrà partecipare ad alcuna coalizione di governo.

Nella 15 tesi, e poi approfondendo il concetto al Cpn, il Segretario ci esorta a non fissare paletti programmatici ma a considerare il governo come uno degli strumenti da utilizzare per una alternativa di società e chiede al partito di ragionare in termini di blocco sociale e di sua rappresentanza.

Berlusconi ha un blocco sociale di riferimento e tutte le sue scelte sono coerentemente orientate a soddisfarne gli interessi, mi chiedo: qual è il referente prevalente della Gad? Il mondo del lavoro? La piccola borghesia? La confindustria? O tutto quanto insieme? Ecco quindi che l'individuazione di alcuni contenuti programmatici, è indispensabile per definire il segno del governo di centro sinistra e se sarà in grado di rimettere insieme i cocci del nostro blocco sociale frantumato e distrutto dalle politiche neo-liberiste.

Un programma per ricomporre il nostro blocco sociale
La cancellazione delle leggi vergogna quindi non è una bandierina: cancellare la legge 30 per la stabilità dei rapporti di lavoro; cancellare la legge Moratti per una scuola aconfessionale e non classista; cancellare le leggi ad personam e la bossi-fini per eliminare i privilegi dei potenti e favorire i diritti dei più deboli; cancellare la legge sulle pensioni, per garantire un futuro dignitoso a chi oggi lavori; cancellare la futura riforma fiscale per far pagare a chi ha fatto profitti e sostenere i servizi pubblici ed i servizi sociali. A questo si deve unire una legge sulla rappresentanza sindacale, che ridia forza ai lavoratori nei luoghi di lavoro, ed una nuova scala mobile per tutelare il potere d'acquisto di chi viva del proprio salario.
 
Queste sono, a mio parere, le condizioni minime per rispondere alla nostra gente senza le quali il Prc non potrà far parte di nessun governo, e dobbiamo dire forte nel nostro congresso e fuori che una alternativa di società può nascere solo a partire dalla individuazione di una serie di scelte programmatiche non mediabili perché strutturali, e condivise in questi anni con quel mondo con il quale abbiamo lavorato, e intendiamo lavorare per la costruzione della sinistra di alternativa.
 
Se temi, argomenti e contenuti come quelli che ho cercato di sintetizzare, saranno ritenuti tali dal Segretario da non consentire un congresso unitario perché snaturerebbero la linea del partito, ne prenderò serenamente atto e cercherò, con spirito unitario, di spiegare al partito le mie ragioni.
 
Stefano Cristiano


Prima i contenuti, poi lo schieramento
di  Fosco Giannini
(Liberazione del 2/11/2004)

Molte considerazioni contenute nelle 15 Tesi di Bertinotti sono condivisibili. Ciò mi conferma nel convincimento che sarebbe stata largamente preferibile l'ipotesi di un Congresso su documenti a tesi emendabili e non su mozioni contrapposte, come ha deciso il Comitato politico dei giorni scorsi. Ciò avrebbe potuto assicurare il massimo di partecipazione e di dialettica interna, entro una cornice unitaria.
In questa sede, allo scopo di nutrire la più approfondita discussione tra noi, concentrerò il mio ragionamento intorno a due argomenti sui quali ho opinioni diverse dal Segretario.

La questione del governo
Ovviamente siamo tutti d'accordo che bisogna cacciare Berlusconi e che, per ottenere questo risultato, occorre costruire un'alleanza con tutte le forze di opposizione. Affermo questa necessità da tempo, da quando nel partito era molto impopolare farlo e chi poneva il tema delle alleanze veniva spregiativamente definito frontista. Il rischio, oggi, è che si passi da un estremo all'altro: dall'impossibilità dell'accordo, all'accordo di governo prima ancora di avere iniziato a discutere di contenuti. In questo modo si metterebbe in discussione un punto dirimente dell'identità e del profilo di Rifondazione Comunista: il principio che prima vengono i contenuti, poi gli schieramenti. Su questo manifesto il mio dissenso.

Noi oggi facciamo parte della Grande Alleanza Democratica e abbiamo già detto che faremo parte del prossimo governo, ma, chiedo, quali sono i contenuti programmatici condivisi e qualificanti che ci hanno spinto ad entrare della Gad? Nessuno, visto che di programma ancora non si è discusso. Le stesse decisioni assunte nell'ultima riunione della Gad hanno prodotto iniziative che successivamente hanno perso di efficacia: una manifestazione contro la Finanziaria è stata inopportunamente rinviata e probabilmente non si realizzerà. E la mozione sulla guerra rappresenta un passo indietro rispetto la precedente mozione unitaria che chiedeva il ritiro immediato.

Noi abbiamo sempre sostenuto - e io resto di questa opinione - che gli obiettivi strategici della componente maggioritaria del centrosinistra e della sinistra di alternativa sono radicalmente diversi. La prima si muove nella cornice del sistema capitalista per rimuoverne le storture più gravi, la seconda opera per fuoriuscirne. Ne segue che le intese per battere le destre - che devono essere ricercate - sono necessariamente parziali e debbono in ogni caso essere vincolate a contenuti programmatici.

Ma, si dice, oggi la situazione è mutata, è «cambiato il vento» e l'asse del centrosinistra si è spostato a sinistra. E' un'analisi che non ritengo suffragata da fatti. E' vero che rispetto agli anni passati ci sono significativi mutamenti nell'orientamento di importanti organizzazioni sindacali (la Fiom e, parzialmente, la Cgil) e che si è consolidato un importate movimento per la pace e contro il liberismo. Ma questi fatti non hanno ancora mutato i connotati politici di fondo del centrosinistra in Italia e in Europa. Infatti dice Rutelli: «Vinceremo se terremo il centro dell'arena». Dice Prodi: «Gli italiani vivono più a lungo, dunque si deve avere il coraggio di essere impopolari in materia di pensioni». E dice Veltroni: «In certe circostanze è necessario l'uso della forza come è stato per porre fine ai massacri in Bosnia e nel Kosovo».

Non sarà quindi facile scrivere un programma di governo comune e, in ogni caso, noi non possiamo accontentarci di un "impianto generale", così come sta scritto nelle 15 Tesi. E' necessario porre alcuni punti programmatici vincolanti e irrinunciabili, senza i quali non si deve entrare nel governo. Sono gli obiettivi su cui sono cresciuti e hanno combattuto i movimenti che si sono espressi in questi anni: il rifiuto della guerra da chiunque dichiarata, Onu compresa; una legge che consenta ai lavoratori di votare i loro contratti; l'abrogazione delle leggi vergona di Berlusconi (legge 30, pensioni, Bossi-Fini, Moratti); una nuova scala mobile. Se non facciamo questo, noi rischiamo di compromettere la nostra autonomia, poiché è del tutto evidente che, ove si ripetesse, una rottura come quella del 1998 potrebbe provocare conseguenze ben più gravi.

La guerra e il terrorismo
In una intervista uscita in agosto Bertinotti ha detto che, se dalle primarie sui programmi a cui partecipasse l'elettorato, emergesse una posizione favorevole alla guerra sotto l'egida dell'Onu, Rifondazione si adeguerebbe a questo esito. Non sono d'accordo. Come la Fiom dice: «sui licenziamenti non si vota», così noi dobbiamo dire «sulla guerra non si vota».
Oltre a questo credo che la rappresentazione della situazione internazionale attraverso la «spirale guerra-terrorismo» sia fuorviante. La guerra in Iraq è stata decisa ben prima degli attentati dell'11 settembre. Ha a che fare con il petrolio e con il controllo di una zona strategica del mondo. Parlare di «spirale guerra-terrorismo» significa equiparare le responsabilità della crisi internazionale, mentre invece sono decisive e determinanti le scelte di guerra del governo americano e, per quanto riguarda il Medio Oriente, dal governo israeliano. Siamo nemici irriducibili del terrorismo. I comunisti lo sono sempre stati. Ma dobbiamo avere il coraggio di dire che è terrorismo anche quello di Bush e di Blair, che dall'inizio della guerra - definita illegale da Kofi Annan - ha causato almeno 100mila morti, quasi tutti civili innocenti. La guerra è terrorismo all'ennesima potenza.

Ma soprattutto, nelle 15 Tesi non compare mai la parola Resistenza. E ciò è sbagliato, poiché in Iraq non vi sono solo la guerra e il terrorismo; c'è un popolo che resiste, anche con le armi, per cacciare le truppe di occupazione e per conquistare il diritto di decidere del proprio destino. Di questa Resistenza va affermata la piena legittimità. Non solo. Noi dobbiamo auspicare che essa si rafforzi, intrecciandosi con il movimento internazionale della pace. Affinché, attraverso questa unione, si riesca a sconfiggere la politica di guerra dell'imperialismo americano.

Fosco Giannini

 



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