Nicola Badaloni, filosofo partigiano

Un ricordo del filosofo dello storicismo marxista italiano, scomparso il 20 gennaio u.s.

 Michele Prospero

 

da : L'Unità 21.1.2005                                                                          



Per Nicola Badaloni non devono essere stati leggeri questi confusi anni successivi ai grandi crolli del 1989. A uno dei suoi libri più fortunati (pubblicato nel 1972 da Einaudi) egli del resto aveva dato un titolo programmatico, quasi di lotta: Per il Comunismo. In quelle pagine dense, dal linguaggio talvolta anche aspro, contrastava i cedimenti teorici e rivendicava il contributo essenziale dei classici nello scandagliare «già all’interno della società capitalista la via della realizzazione del comunismo». La fine traumatica dell’esperienza controversa inaugurata dall’ottobre sovietico, e soprattutto la risposta che alla grande crisi dell’89 aveva dato il Pci, gli apparvero un taglio troppo profondo, una abiura per lui incomprensibile. Preferì perciò la via di un nobile e solitario silenzio, quasi a sanzionare un sofferto ma ineluttabile distacco da una politica che ormai non dava più alcun peso agli intellettuali e guardava con un certo disprezzo alle idee diverse dalle magiche tecniche elettorali.

Badaloni era un filosofo scrupoloso che aveva conosciuto tutta la grandezza e il fascino di una politica come dimensione pratica legata a un solido impianto culturale. Partigiano, sindaco di Livorno, prestigioso docente universitario a Pisa, presidente dell’Istituto Gramsci quando ancora era una fucina di grande elaborazione culturale, membro a lungo del comitato centrale del Pci, non immaginava neppure una filosofia che non avesse ricadute nella prassi politica. Questo senso alto della politica come prosecuzione della cultura con altri mezzi, si univa in lui ad un rigoroso impiego degli attrezzi del mestiere. Soprattutto nei suoi studi su alcuni grandi classici della filosofia italiana, Badaloni aveva dato prova di attitudine filologica e di tensione interpretativa. Aveva cominciato studiando Giordano Bruno nella metà degli anni cinquanta, aveva proseguito rivisitando Tommaso Campanella, aveva proposto un autore poco noto come Antonio Conti, un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire.

Il suo autore era comunque Vico, con la sua peculiare attenzione alla storicità come deposito di ragione, di cui aveva curato (con il suo allievo Paolo Cristofolini) anche le opere giuridiche.

Accanto alle ricostruzioni di momenti alti della storia della filosofia italiana, Badaloni aveva dedicato i suoi studi alla lettura e all’interpretazione di Marx. In anni in cui la politica viveva della battaglia delle idee, egli è stato uno dei protagonisti di primo piano (accanto a Cerroni, Colletti, Della Volpe, Gerratana, Luporini) di quel marxismo italiano degli anni sessanta che ampia eco ebbe un po’ in tutta Europa, e in verità non solo in Europa. A distanza di quasi mezzo secolo, può sicuramente apparire bizzarra e vagamente teologica una politica che nei suoi vertici ma anche nella sua base di massa non disquisiva ancora su primarie, federazioni e sistemi elettorali ma si appassionava di dispute sottili sulla identità tautoeterologica proposta da Galvano della Volpe, sulla surdeterminazione e il recupero dello strutturalismo suggerito da Cesare Luporini, sulla differenza tra contraddizione logica e opposizione reale rilanciata da Lucio Colletti. Però, attraverso controversie terminologiche e battaglie sulle astrazioni determinate e la dialettica, si svolgeva una accanita battaglia dalle notevoli implicazioni politiche e culturali.

Uno dei bersagli della elaborazione di Badaloni era sicuramente Della Volpe, originalissimo filosofo eccentrico rispetto alla corrente storicistica dominante, confinato nella piccola università di Messina, che riconduceva Marx a un filone realistico e antimetafisico risalente ad Aristotele e passato poi per Hume e attraverso il Kant precritico. Le ascendenze teoriche di Marx (che adopera «concetti strutturali che sono anche dialettici») per Badaloni erano altre, risiedevano prevalentemente nella logica di Hegel che conferiva spazio alla contraddizione, all’oltrepassamento del dato. Della Volpe in una sua opera rispose piuttosto piccato «al compagno Badaloni» rassicurandolo sul significato tutt’altro che statico, non critico della sua nozione di astrazione determinata nonché del suo dialogo intenso con il positivismo logico. Al centro delle controversie degli anni sessanta si trovava Hegel visto da molti quale metafora di un bisogno di criticità verso il regno dell’empirico. Secondo Badaloni la logica del filosofo di Stoccarda non era solo una sublimazione del reale ma enucleava anche una efficace descrizione dei rapporti moderni. Un taglio netto con la dialettica significava dunque abbattere accanto al lato metafisico, anche il pregevole impianto realistico che aveva consentito a Hegel di «interpretare genialmente una situazione storica», sia pure all’interno di una logica ingannevole perché racchiusa nell’automovimento delle forme. In particolare Badaloni rinveniva nel concetto hegeliano di contraddizione la embrionale messa a punto di una «conoscenza teleologica di nuovo tipo» capace di cogliere la concretezza dei rapporti borghesi e di evocare la larvata possibilità di transitare oltre le contingenze storiche.

La dialettica, che per un allievo di Della Volpe come Colletti era un inutile ferro vecchio che conteneva una evidente carica di irrazionalità nella sua pretesa di varcare i confini della ineludibile non-contraddizione, per Badaloni conteneva invece la molla della prassi storica. Nelle vesti di un efficace finalismo intramondano, essa rovescia il moderno con le contraddizioni esistenti nel suo impianto sociale. La dialettica era per il filosofo di Livorno il segreto di una teoria capace di organizzare le inquietudini del moderno, interpretato come pervasiva e inarrestabile generalizzazione del rapporto di scambio. La merce, come grammatica del mondo della utilizzazione reciproca di soggetti alienati, produce una realtà capovolta nascosta da forme sempre ingannevoli. Alla razionalità limitata del mondo dello scambio e della degradazione cosale dei soggetti, Badaloni contrapponeva una razionalità più densa, piena di intenzionalità pratiche che sopprimono i particolari rapporti di dominio e soggezione. Questo pratico agire per lui era il finalismo delle facoltà ossia l’apertura di nuove possibilità sociali, la realizzazione di contenuti più universali che si proiettano oltre quelli limitati e angusti consentiti dall’esistente mondo proprietario.

La razionalità scientifica che il capitale incorpora nel sistema delle macchine, secondo Badaloni non lo sottrae affatto al destino del conflitto ingaggiato da soggetti in lotta contro le perverse tendenze autodistruttive del mondo delle merci. Quella che Badaloni chiamava la «logica dei concetti» di Marx è un collaudato strumento critico che decodifica la funzione di dominio delle forme, ne esplica in pieno la storicità, rende disponibile la visibilità della struttura nascosta.

Il comunismo, in tale prospettiva, non si configurava come il ritorno ingenuo alla natura amica o come il rifiuto totale del sistema onnipervasivo escogitato dalla scuola di Francoforte. Esso faceva invece corpo con la piena affermazione della libertà degli individui intesi come «singoli sociali», soggetti completi finalmente affrancati dal «magma capitalistico», incapace di togliere la contraddizione lacerante che anima il mondo senza qualità della merce. Il comunismo per Badaloni indicava una razionalità sociale matura in grado di reagire contro l’impulso irrazionale scatenato dal mercato. Nel suo lessico, questo scenario di liberazione dalle separazioni irriducibili espresse dal capitale, veniva chiamato «effetto di padronanza» e prevedeva la coerente costruzione di un luogo della trasparenza posto al riparo dal dominio delle forme. Entro le coordinate di una razionalità pienamente dispiegata, secondo Badaloni, «si rendono superflui tutti gli apparati costrittivi dello Stato». La ricomposizione comunitaria, a suo avviso, potrebbe lasciare in disparte i temi legati alla cornice istituzionale e trascurare gli stessi problemi del garantismo, della regolazione secondo forme prevedibili e codificate. In una condizione di autoregolazione cosciente da parte dei soggetti sarebbe stata assicurata infatti la «riappropriazione totale da parte delle masse della scienza separata della politica».

Con questa sua forte rivendicazione del primato della teoria critica, al di là delle soluzioni offerte al problema logico della contraddizione, al rapporto tra funzione delle categorie e dato storico, al nesso tra istituzioni politiche e società civile, Badaloni si inseriva in un intenso dibattito culturale espresso dalla stagione più ricca conosciuta dalla politica italiana nel secondo dopoguerra. Con la sua produzione scientifica Badaloni ha avuto la fortuna di vivere in prima fila questa dimensione irripetibile della politica come braccio laico di una concezione del mondo. Gli accadimenti storici non gli hanno risparmiato di vedere anche il lato più meschino di una politica come sfuggente pratica di potere, come gestione occulta che procede cieca senza bisogno di teoria. Ai problemi della dialettica e delle astrazioni determinate, della transizione e della liberazione umana, la politica di oggi ha ormai sostituito la più prosaica preoccupazione che suscita l’ultimo sondaggio sull’indice di gradimento del leader. Per questa politica, Badaloni era divenuto già da tempo un inattuale.



 

frame ©Lavoro Politico-Linea Rossa


vai all' index di Lavoro Politico nr.13    vai all'home Linea Rossa      scrivi alla redazione       webmaster