LA NOSTRA STORIA E' UN PATRIMONIO, NON UN PROBLEMA

 

Sintesi della mozione "Essere comunisti"

Partito della Rifondazione Comunista – VI Congresso


Il VI Congresso del Partito della Rifondazione Comunista cade in un momento difficile per il Paese e per l’intero pianeta. L’Italia è al bivio tra la possibilità di porre fine alla stagione del berlusconismo e il rischio – troppo spesso sottovalutato – di subire per un’altra legislatura i guasti prodotti da un governo di centrodestra. Il mondo si trova in una grave crisi a causa della politica del governo degli Stati Uniti e tutto, dopo la rielezione di Bush alla Casa Bianca, lascia prevedere che la strategia di guerra della superpotenza americana perdurerà, alimentando il rischio di una generalizzazione del conflitto armato.
Nel nostro Paese le elezioni politiche si avvicinano. Saranno elezioni in qualche modo decisive, tanti e tali sono i danni provocati dal centrodestra nel sistema sociale, nell’apparato produttivo, nel quadro costituzionale e nel tessuto morale del Paese. È dunque più che mai necessario che la sinistra e le forze democratiche vincano e si impegnino per invertire la tendenza di quest’ultimo decennio, che ha visto dilagare la guerra e i disastri del neoliberismo.
A sei anni dalla scissione del ’98, il Partito della Rifondazione Comunista è tornato al centro della scena politica italiana ed è oggi forza determinante per il mutamento degli equilibri politici del Paese. Concordi sull’importanza di questo obiettivo, siamo chiamati a discutere su come perseguirlo. Ciò pone al centro del nostro Congresso la questione politica e, più precisamente, il problema del governo.
È questo, oggettivamente, il tema all’ordine del giorno. Lo è per la rilevanza delle decisioni da assumere, e lo è anche per la portata dei rischi che queste comportano. Occorre dunque promuovere tra noi il confronto più sereno e franco possibile, dare a tutto il Partito la possibilità di prendere parte a scelte che ne ridefiniranno la collocazione e che potrebbero metterne in gioco la stessa ragion d’essere.
Le differenze, la pluralità di orientamenti sono risorse, non ostacoli: procurano strumenti, non difficoltà. Per tale ragione riteniamo che sarebbe stato più utile un congresso su documenti a tesi emendabili. Non è stato possibile e perciò contribuiamo alla discussione congressuale con questa nostra mozione, cominciando in premessa a segnalare cinque questioni fondamentali.

Al governo solo a precise condizioni
Ferma restando l’inderogabile necessità di unire le nostre forze a quelle degli altri Partiti di opposizione per cacciare Berlusconi, ci interroghiamo sulle condizioni di una nostra eventuale partecipazione al governo in caso di vittoria delle attuali forze di opposizione. Siamo consapevoli dell’importanza che potrebbe avere la presenza di Rifondazione Comunista in un governo di coalizione con un programma avanzato. Pensiamo che il nostro Partito sarebbe in grado di fornire un contributo indispensabile a qualificare in senso progressivo la piattaforma programmatica del futuro governo. Ma vediamo anche molti problemi.
L’attuale quadro politico non legittima grande ottimismo: pur con contraddizioni, le forze che hanno imposto le politiche di «libero mercato» restano egemoni in tutto il mondo capitalistico; l’ideologia neoliberista esercita ancora una forte influenza sugli orientamenti delle forze democratiche e sulla sinistra moderata del nostro Paese e, come si diceva, la conferma di Bush alla presidenza degli Stati Uniti lascia prevedere che nel prossimo futuro la strategia della «guerra preventiva» continuerà a ispirare l’agenda politica della superpotenza e dei suoi alleati.
Non possiamo non vedere i rischi che tale stato di cose porta con sé. Unendo le proprie forze, il centrosinistra e Rifondazione Comunista possono vincere le prossime elezioni. Nonostante ciò, non è affatto detto che il futuro governo si farà carico di quelli che consideriamo obiettivi prioritari: la difesa del lavoro contro la precarietà; la difesa dei salari e delle pensioni, duramente colpiti dall’inflazione e dalle politiche economiche di tutti i governi di quest’ultimo decennio; l’abrogazione delle “leggi-vergogna” di Berlusconi; la difesa della Costituzione nata dalla Resistenza antifascista; la messa al bando della guerra, da chiunque dichiarata e la fine di ogni occupazione militare.
Se ciò non avvenisse, una eventuale partecipazione del Partito della Rifondazione comunista al governo con dei ministri rischierebbe di avere gravi conseguenze sul nostro Partito, sui nostri militanti, sui settori di società e di movimenti che oggi guardano a noi. Per questo – e anche per il fatto che un programma chiaro, che preveda risposte efficaci ai bisogni della nostra gente, costituisce una premessa indispensabile per motivare il “popolo della sinistra” nella battaglia elettorale contro le destre – pensiamo che, prima di decidere se entrare o meno nel prossimo governo, il Partito debba pretendere precise garanzie a difesa dei soggetti che intende rappresentare, evitando di firmare cambiali in bianco. Prima i programmi, poi gli schieramenti: questo principio, che ha sempre guidato le scelte politiche di Rifondazione Comunista, è oggi più che mai la nostra bussola.

I diritti del lavoro, questione cruciale
Un terreno per noi decisivo è costituito dalla difesa e anzi dalla riconquista dei diritti del lavoro, contro i quali si è abbattuto già nel corso degli ultimi due decenni del Novecento (e con particolare violenza nel corso degli anni Novanta) l’attacco del padronato e dei governi.
Per anni – benché l’area del lavoro salariato continuasse ad espandersi in Italia e nel mondo – ha imperversato, anche a sinistra, la tesi della «fine del lavoro». Questa ideologia è servita a distogliere l’attenzione dal massacro sociale subìto dalle classi lavoratrici. Nel frattempo la condizione dei lavoratori si è fatta insostenibile. I salari e gli stipendi sono divorati da un’inflazione reale assai più elevata di quella programmata. La precarietà e la flessibilità sono divenute norma. Si vorrebbero superare i contratti collettivi nazionali. Le imprese ricorrono quasi esclusivamente ai rapporti «atipici», a tempo determinato e senza tutele. Le norme sulla sicurezza sono sistematicamente eluse (l’Italia è ai primi posti nelle statistiche sugli incidenti mortali sul lavoro, con oltre 1400 vittime l’anno). La riforma delle pensioni ha duramente colpito il sistema previdenziale, trasformando per i più in un miraggio il raggiungimento dell’età pensionistica e gettando milioni di pensionati in condizioni di povertà.
Tutto questo accade in una Repubblica che il primo articolo della Costituzione dichiara «fondata sul lavoro». Occorre prendere sul serio questa dichiarazione, che riposa sulla consapevolezza del fatto che è il lavoro – e non certo un capitale che si accresce sul suo sfruttamento – la vera fonte della ricchezza del Paese. Occorre reagire contro il dogma della «centralità dell’impresa», che in Italia non ha nemmeno significato investimenti produttivi e sviluppo industriale, ma privatizzazione di risorse pubbliche, regalie a una borghesia parassitaria e accumulazione di profitti e di rendite. Occorre anche smascherare la retorica della concorrenza e del mercato, che, lungi dal significare smantellamento degli oligopoli, è servita solo a giustificare concentrazioni di capitale e rafforzamento delle rendite di posizione.
A questi criteri è necessario sostituirne altri, di segno opposto: piena occupazione e lavoro stabile; difesa del salario (mediante una nuova «scala mobile»); difesa del contratto collettivo nazionale e democrazia sindacale; rilancio della programmazione economica e dell’intervento pubblico, a cominciare dai settori a bassa redditività immediata (infrastrutture, ricerca, formazione); potenziamento dei servizi sociali. Non basta. È tempo anche di prendere sul serio quanto la Costituzione prescrive in materia di funzione sociale dell’iniziativa economica privata, prevedendo forme di controllo «dal basso» sui piani d’impresa, sull’organizzazione del lavoro, sull’impatto ambientale delle produzioni e sull’impiego dei finanziamenti pubblici ricevuti.
La difesa del lavoro e dei suoi diritti è il fondamento di una reale democrazia e il centro delle preoccupazioni dei comunisti. Data per morta, la contraddizione capitale-lavoro resta in realtà centrale. E il lavoro dipendente rimane, nelle sue molteplici forme, il fulcro del blocco sociale in grado di realizzare la trasformazione dello stato di cose presente.

In Iraq c’è una Resistenza di popolo
Il dramma della guerra in Iraq occupa da oltre un anno e mezzo il centro della scena internazionale. L’attacco imperialista a uno Stato sovrano da parte degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dei loro più stretti alleati (tra cui figura purtroppo anche l’Italia) ha sin qui causato la morte di oltre 100mila civili innocenti: un massacro che pesa come un macigno sugli uomini e sui governi che hanno messo in atto questa infame impresa bellica, un gravissimo crimine contro l’umanità, che rende più che mai necessario l’immediato ritiro dall’Iraq di tutte le truppe di occupazione, a cominciare da quelle italiane.
Ma le cose non vanno secondo le previsioni di Bush, di Blair e di Berlusconi. La guerra, che si sarebbe dovuta concludere in poco più di un mese, dura ancora, e ciò rende più difficile agli Stati Uniti, almeno per il momento, nuove aggressioni, già pianificate, a danno di altri Stati sovrani (a cominciare dai cosiddetti «Stati canaglia»: Iran, Siria, Corea del nord e Cuba). La macchina bellica più agguerrita del mondo stenta ad avere la meglio contro un Paese distrutto e contro una popolazione stremata. Ciò si deve al fatto che all’occupazione militare il popolo iracheno ha risposto con straordinario coraggio e orgoglio, mettendo in campo una capillare Resistenza armata che i continui bombardamenti e gli attacchi di terra delle truppe anglo-americane non sono ancora riusciti a piegare.
Questa Resistenza di popolo deve essere riconosciuta e sostenuta quale espressione della legittima aspirazione della popolazione irachena all’indipendenza e all’autonoma determinazione del proprio futuro. Per questo dissentiamo da chi, con la complicità dei media, evoca una presunta «spirale guerra-terrorismo». Non solo questa formula cancella dalla scena la Resistenza irachena, ma per di più suggerisce una inammissibile equivalenza delle responsabilità. Ferma restando la più netta condanna del terrorismo, noi riteniamo invece che la responsabilità di questa guerra criminale incomba esclusivamente su Bush e sui suoi alleati, che hanno scatenato l’attacco all’Iraq per tutt’altre ragioni (il controllo delle risorse energetiche; la competizione geopolitica con la Cina, la Russia e l’Unione europea; gli enormi profitti legati alla spesa militare e al business della «ricostruzione», ecc.). Ha ragione il premio Nobel Pérez Esquivel quando afferma che è Bush oggi il più pericoloso terrorista. Da questo giudizio deve, a nostro giudizio, prendere avvio qualsiasi discorso sulla guerra in Iraq.

La nostra storia è un patrimonio, non un problema
Essere comunisti oggi è difficile anche perché più che mai violento è l’attacco alle nostre idee, alle nostre aspirazioni, alla nostra storia. Il revisionismo storico, che punta a criminalizzare l’idea stessa della lotta di classe, stravolge l’intera esperienza del movimento rivoluzionario operaio e comunista presentandola come una sequenza di violenze e di fallimenti. Di recente questa tesi liquidatoria si è fatta strada anche a sinistra. Autorevoli intellettuali hanno rappresentato l’eredità del secolo scorso come un cumulo di macerie. Contro le rivoluzioni proletarie e la stessa Resistenza antifascista sono stati intentati processi sommari con condanne senza appello. Da ultimo si è giunti a dichiarare politicamente morti tutti i più grandi dirigenti comunisti del Novecento.
Non ci riconosciamo in questi bilanci, che riteniamo storicamente e politicamente errati. Il movimento comunista ha dato forza alla rivendicazione dei diritti fondamentali delle masse lavoratrici e si è sempre schierato contro la guerra, per la pace e per la giustizia sociale. L’insegnamento dei suoi più grandi dirigenti del Novecento – da Lenin a Gramsci – è ancora un contributo prezioso per l’analisi critica della società capitalistica. Le grandi rivoluzioni che si sono susseguite dopo il 1917 hanno liberato sterminate masse di popolo e inaugurato una nuova epoca storica, nella quale si colloca la nostra esperienza di comunisti. La Resistenza antifascista – nella quale furono in prima fila i partigiani comunisti – ha permesso al nostro paese di riconquistare dignità e democrazia dopo l’infame vicenda del fascismo, delle sue leggi razziste e della guerra al fianco di Hitler.
Di questa storia siamo orgogliosi. Non ne dimentichiamo limiti e pagine buie, ma non condividiamo atteggiamenti liquidatori. Pensiamo che occorra, certo, procedere nella ricerca e nella riflessione. Ma rivisitare la storia non significa rimuoverla.
Non condividiamo la assunzione della teoria della nonviolenza come nuovo tratto identitario di Rifondazione Comunista. Le forme di lotta dipendono dal contesto in cui si praticano: oggi in Italia è possibile praticare la lotta pacifica anche perché ieri i partigiani, con le armi in pugno, hanno sconfitto il fascismo; per contro, in Iraq – dopo una guerra e una occupazione illegittime – il popolo iracheno è costretto a dare vita ad una resistenza anche armata per sconfiggere gli invasori.
Anche il concetto secondo il quale i comunisti non lottano per conquistare il potere ci pare non solo estraneo alla nostra storia, ma incomprensibile. Essere in un governo con dei ministri non significa forse “contaminarsi” col potere? Non c’è mai, nella realtà, un vuoto di potere. Perdere di vista questo terreno, per rimanere puri e incontaminati, significherebbe rinunciare alla lotta politica e renderebbe nei fatti impraticabile l’obiettivo della trasformazione della società in senso socialista.

Il Partito: uno strumento essenziale
Gli straordinari impegni che ci attendono impongono di dedicare particolare cura al Partito, al suo rafforzamento organizzativo, al suo insediamento sociale e territoriale.
Occorre un Partito comunista capace di organizzare lotte, promuovere conflitti, sviluppare movimenti, radicato nella società e nel mondo del lavoro e culturalmente autonomo dalle ideologie dominanti: un Partito, in ultima analisi, che consenta di tenere aperta la prospettiva del superamento del capitalismo.
Ciò pone in primo piano la necessità di una politica per l’organizzazione, tesa in particolare alla formazione di quadri e militanti, al rafforzamento e al rilancio delle strutture di base. I circoli, sia quelli territoriali che di luogo di lavoro, vivono oggi uno scarso coinvolgimento nella elaborazione della linea politica del Partito. Ciò determina un senso di disorientamento che in alcuni casi
Per queste ragioni, si richiede una correzione di linea rispetto alle “innovazioni” introdotte nel V Congresso, che, accentuando questo processo, sono andate nella direzione di costruire un Partito “leggero” e “mediatico”. Ne sono conferma il calo degli iscritti e, ancora di recente, la scarsa partecipazione alla nostra ultima manifestazione nazionale produce situazione di passività, di disaffezione e di calo della militanza.: tutti elementi in controtendenza rispetto allo sviluppo di importanti movimenti verificatosi nel corso di questi anni.
Occorre una netta inversione di tendenza, che consenta di recuperare i gravi ritardi nella discussione sullo stato dell’organizzazione, e di riconoscere nel Partito e nella sua forza organizzata uno strumento essenziale per la trasformazione della società.
 



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