Dal VI Congresso alle regionali: note sul Prc

di
Claudio Grassi


Editoriale da "l’Ernesto", n. 2/2005

La sconfitta delle destre e di Berlusconi con il voto regionale e amministrativo del 3-4 aprile ha determinato un terremoto politico di enorme portata. Dobbiamo, in primo luogo, soffermarci su di essa, cercare di capire cosa è successo, cominciando col passare in rassegna le ragioni che hanno decretato la sconfitta delle destre.

Individuiamo a questo riguardo due cause fondamentali, tra loro connesse: il grave stato di crisi dell’economia italiana (la mancata crescita, il declino produttivo, la tendenza verso un’esplosione del deficit, il perdurare di una crisi occupazionale mal dissimulata dal diffondersi del precariato) e lo sfaldarsi (in parte conseguente) del blocco sociale su cui la Casa delle Libertà ha costruito i propri successi elettorali: quell’arco di forze e di poteri che va dalla Confindustria (passata dalla presidenza amica di D’Amato alla guida, assai meno simpatetica, di Luca di Montezemolo) alla Confcommercio, alla stessa Cisl di Pezzotta (da ultimo tornata sugli antichi sentieri dell’intesa tra le confederazioni). Il riflesso politico di questa crisi di consenso è la crescente difficoltà di conciliare le due anime della coalizione di governo: l’asse “statalista” e “meridionalista” costituito da An e Udc (tradizionalmente sensibile alle istanze del pubblico impiego), e quello nordista di Lega e Forza Italia, assai più attento alle esigenze del capitale privato (con particolare riferimento al tessuto della microimprenditorialità del nord-est). Sta qui, in estrema sintesi, la radice della crisi del berlusconismo, inteso come formula politica di compromesso tra interessi sociali diversi (altra cosa – e purtroppo ben più radicata – è ovviamente il berlusconismo in quanto ethos, cioè come attitudine morale e culturale caratterizzata dal culto individualistico del successo economico e dalla negazione del pubblico). Il voto regionale ha messo a nudo una caduta verticale dei consensi intorno alla CdL, ormai largamente minoritaria nel Paese. Mai come in questo momento il governo Berlusconi è apparso privo di credito e di legittimità politica. Dinanzi a questo risultato, appare dunque del tutto incomprensibile la decisione dell’Unione, di lasciare respiro al governo, di non incalzarlo al fine di determinare la conclusione anticipata della legislatura. Com’è stato autorevolmente osservato, si tratta di un calcolo spericolato, che comporta due seri rischi. Per un verso, le destre cercheranno di risalire la china utilizzando la spesa pubblica e la politica fiscale in funzione elettorale. Ciò si tradurrà in ulteriori disastri per l’assetto economico del Paese. Per l’altro verso, mettendo in conto la probabile sconfitta alle prossime elezioni, il governo cercherà di realizzare nei prossimi mesi quanto resta ancora inattuato del suo programma, a cominciare dalle “riforme” più devastanti: la Costituzione, l’ordinamento giudiziario, la par condicio, la legge elettorale. Quello che ci attende – se Berlusconi sarà lasciato fare – è con ogni probabilità un annus horribilis, per evitare il quale le forze dell’opposizione dovrebbero fare tutto quanto è nelle loro possibilità.

C’è poi l’altro versante del voto del 3-4 aprile: la netta vittoria dell’ Unione, che incassa i frutti della crescente avversione nei confronti della CdL. È un risultato positivo che va ben al di là – lo si diceva – delle più rosee previsioni. Ben undici Regioni su tredici sono state conquistate dal centrosinistra, e ciò ha determinato un profondo mutamento della geografia politica del Paese. La vittoria del compagno Nichi Vendola in Puglia può ben essere assunta come il simbolo di questo accadimento, per la sua portata, per il suo significato e anche per ciò che di inaspettato rappresenta. Certo, Vendola ha vinto anche in quanto candidato della coalizione, ha vinto perché su di lui sono confluiti i voti di tutta l’Unione. Da questo punto di vista appaiono fuorvianti le analisi che considerano soltanto le straordinarie qualità del nostro compagno (il carattere fortemente innovativo della sua figura di dirigente politico, la sua notevole capacità di costruire relazioni con il territorio e con la società), prescindendo dal contesto politico e dal meccanismo elettorale. Non c’è alcun bisogno di cancellare la realtà per dire la grande soddisfazione tratta dall’affermazione di un comunista in una competizione difficile e di tanta rilevanza. Né occorre scomodare improbabili categorie (si è giunti a discorrere di «rottura antropologica», quasi stessimo assistendo al manifestarsi di una nuova forma di vita) per sottolineare la rilevanza di questa affermazione del nostro Partito. In questo caso le cose parlano da sé. Un comunista si è affermato in una battaglia che tanti avevano ritenuto disperata dimostrando quanto contino la serietà e l’onestà di un impegno politico e quanto sia importante conoscere una realtà, viverne i problemi e i conflitti, avvertirne i bisogni e farsene carico. Piuttosto che sovraccaricare il caso pugliese di significati impropri, cerchiamo di trarre con sobrietà gli insegnamenti che ne derivano: a cominciare, appunto, dal valore cruciale del radicamento, della concreta, duratura presenza di una soggettività sul territorio.

All’esito positivo della battaglia in Puglia si lega tuttavia un risvolto assai problematico del risultato elettorale. Se allarghiamo lo sguardo sull’intero scenario, vediamo facilmente come il tratto distintivo del successo delle forze di opposizione sia la netta affermazione della lista Uniti per l’Ulivo, ben più significativa dell’incremento ottenuto dai Verdi e dal Pdci. È questa, al di là di ogni dubbio, l’indicazione fondamentale emersa dalle urne. Ma si tratta altresì di una indicazione tutt’altro che incoraggiante: di un risultato che purtroppo smentisce le attese della vigilia, e con il quale occorre ora fare seriamente i conti.



Prc: battuta d’arresto



Tutte le previsioni indicavano in Rifondazione Comunista il partito che avrebbe registrato il più marcato incremento. Si è verificato l’esatto contrario. Dentro un risultato generale positivo (la sconfitta delle destre), si è avuto un risultato insoddisfacente del nostro Partito, che vanifica persino la fortissima esposizione mediatica di cui Rifondazione Comunista ha goduto negli ultimi mesi. Come mai si è verificato questo esito? Come mai assistiamo a una evoluzione del quadro politico specularmene opposta a quella evocata dal compagno Bertinotti ancora nelle conclusioni del Congresso, dove si affermava che le grandi «innovazioni» introdotte nella direzione politica e nel corredo culturale e identitario del Partito avevano «il vento in poppa» e avrebbero senz’altro intercettato grandi consensi? Come mai tutto questo? Che cosa resta della sprezzante sicurezza con cui sono state trattate le minoranze interne (il 41% del Partito!) e della certezza di trionfi elettorali? Raramente conclusioni congressuali sono apparse più stonate di quanto si rivelino, alla luce del voto di aprile, quelle del nostro VI Congresso. E come non osservare che – malgrado il generoso dispendio di modifiche culturali e organizzative – Rifondazione Comunista si ritrova ad oscillare, a quindici anni dalla nascita, tra il 5 e il 6%, allo stesso livello dei comunisti francesi e spagnoli, e ben al di sotto delle percentuali ottenute da portoghesi e greci, che, pur non avendo aderito alla Sinistra europea, si attestano tra l’8 e il 10%? Così stanno le cose, e occorre innanzi tutto prenderne atto. Maggiore modestia non avrebbe guastato e non guasterebbe.



Perché conseguiamo un risultato tanto insoddisfacente, e così lontano dalle previsioni? La ragione principale è che è stato operato un ribaltamento della linea politica, che ha visto il Partito passare immediatamente da un eccesso (il rifiuto del confronto con le altre forze politiche dell’opposizione, motivato con la tesi massimalistica delle «due destre») all’eccesso opposto (l’internità nell’Unione e l’accordo di governo, senza alcuna condizione sul terreno programmatico). A questa svolta, repentina ed esasperata, si sono accompagnati alcuni gravi inconvenienti, che hanno pesato sulla capacità attrattiva del Partito. È stato modificato il nostro impianto culturale e identitario privilegiando una indistinta «radicalità». Non è un caso che il Partito abbia raccolto infervorati elogi da un giornale molto schierato come il Riformista, che si è più volte complimentato con il compagno Bertinotti per l’opera di «innovazione» ideologica messa in atto, depurando il Partito da «anacronistici» riferimenti alle idee e all’esperienza del movimento comunista. Questa «innovazione» avrebbe dovuto pagare sul piano elettorale nelle previsioni di chi ha inteso promuoverla. Ma i calcoli si sono rivelati sbagliati.

Si è poi avuto un appannamento politico, sostituendo l’immagine – e la pratica – di un Partito conflittuale, capace di porre condizioni, con quella di un Partito che tende ad allinearsi alle indicazioni delle forze prevalenti dell’Unione e mette la sordina alle proprie richieste: dall’introduzione della patrimoniale al ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq. E così siamo arrivati, da ultimo, a non chiedere le dimissioni del governo nemmeno dopo il crollo elettorale e a subire persino la prospettiva che Mario Monti – autorevole incarnazione del credo neoliberista – figuri nella prossima compagine di governo capeggiata da Romano Prodi.

Perché queste scelte tattiche abbiano prodotto risultati tanto negativi non è difficile a comprendersi. Il fatto è che al nostro radicale mutamento di linea (approdato alla decisione di entrare nell’alleanza e persino di dare per scontato il nostro ingresso nel futuro governo di centrosinistra ancor prima di cominciare la discussione sul programma) non ha corrisposto alcun mutamento nelle posizioni politiche dei partiti dell’Unione.



Prodi e il Prc: chi è cambiato?



Chiediamoci, molto semplicemente: rispetto agli anni Novanta è cambiato Prodi o è cambiata Rifondazione Comunista? Se siamo sinceri con noi stessi, la risposta non può essere che una: è cambiato – e in profondità – il nostro partito. Non certo il gruppo dirigente del centrosinistra, che anzi non perde occasione per ribadire (quasi a voler mettere le mani avanti) che le direttrici di marcia della sua azione di governo saranno domani quelle che sono state ieri, negli anni Novanta, e che hanno aperto la strada alla destra berlusconiana e post-fascista. Si leggano anche solo le più recenti interviste dell’on. Fassino e dell’on. Rutelli. L’uno si dice persuaso che il presidente Bush abbia cambiato linea politica; e, rivolto ai nostri imprenditori, promette che la strada della flessibilità sarà ancora privilegiata dal centrosinistra. L’altro gli fa eco sulle questioni del lavoro e della precarietà, e si premura di aggiungere che le leggi di Berlusconi saranno in gran parte conservate dal nuovo governo. E si leggano le ultime uscite del leader dell’Unione, l’entusiastica accoglienza riservata alle predicazioni iperliberiste del professor Monti e la proposta di collaborazione in campo economico rivolta al capo dell’attuale governo. Con queste posizioni Rifondazione Comunista si trova a fare i conti. E con chi esprime queste posizioni l’attuale direzione politica del Partito ha scelto di non aprire una forte offensiva programmatica. È, questa, una modalità di costruzione di una intesa politica che ci appare sbagliata su entrambi i versanti.

Sbaglia, a nostro giudizio, il presidente Prodi, il quale si illude che l’essenziale sia l’ingresso del Prc nell’alleanza, e l’accoglimento, in linea di principio, del vincolo di maggioranza. Suole ripeterlo, Prodi, a ogni piè sospinto: «obbediranno». Il fatto è che questo nostro partito – a differenza delle formazioni minori della sinistra di alternativa, nelle quali il ceto politico è proporzionalmente prevalente sul resto – non è affatto pacificato, remissivo. Al contrario, mantiene un ampio margine di autonomia e di capacità critica. Se riconosciuta sbagliata alla prova dei fatti, una linea può quindi essere ribaltata da nuovi orientamenti della base o degli stessi organismi dirigenti centrali, anche nel pieno di una legislatura.

E sbaglia, secondo noi, anche il compagno Bertinotti. La scelta di posporre il confronto programmatico all’accordo si fonda sull’idea che è dall’interno dell’Unione che il Partito può massimizzare i propri risultati. Per questo abbiamo sinora rinunciato a far emergere le pur cospicue contraddizioni che solcano la coalizione di centrosinistra. Ma questa scelta non è solo perdente, come dimostra l’esito elettorale che ha ridotto il peso contrattuale di Rifondazione nei confronti delle altre forze di opposizione. È assai discutibile anche su un piano, per dir così, etico-politico, poiché rischia di determinare una duplice delusione. Diamo agli elettori di sinistra l’immagine di una unità piena tra le opposizioni che nei fatti non c’è, che sappiamo invece molto parziale e fragile, e che in effetti rischia di venir travolta da sviluppi tutt’altro che improbabili. E trasmettiamo ai nostri compagni una indicazione di unità tra tutte le forze democratiche che essi certo richiedono con forza, ma omettiamo di farci carico al contempo delle richieste che essi avanzano sul piano dei contenuti, dei programmi e dei risultati politici concreti.

Il risultato di questi errori convergenti è un rischio che non possiamo, oggi, sottacere. Benché affermino entrambi di non volere riprodurre la situazione del 1998, sia Prodi che Bertinotti corrono il serio pericolo di lavorare – entrambi – proprio in quella direzione. Assumendosi con ciò gravissime responsabilità. Vediamo – per intenderci – di fare qualche esempio.



Il governo dell’Unione



Sappiamo bene che la prospettiva di una nuova avventura bellica imposta dagli Stati Uniti è tutt’altro che inverosimile. È anche molto probabile che la decisione di attaccare uno degli Stati contro i quali la Casa Bianca concentra la propria offensiva ottenga la copertura dell’Onu, magari dopo qualche messinscena simile a quella volta ad accreditare la leggenda delle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein. Bene: che cosa farà, in tal caso, il governo dell’ Unione? Abbiamo tutti gli elementi per prevedere che i maggiori partiti – a cominciare dai Ds – spingerebbero affinché l’Italia «faccia la sua parte», come ha detto l’on. Fassino in una delle sue ultime interviste, nella quale programmava anche che in politica estera, pur di ottenere la maggioranza in Parlamento, il governo di centrosinistra dovrebbe avvalersi anche del sostegno della Casa delle Libertà. E noi? Abbiamo sempre detto – tutti – che Rifondazione Comunista non avallerà mai la partecipazione italiana a nuove guerre. Dunque in tale eventualità usciremmo dal governo. E allora, non sarebbe meglio parlarne prima, chiarire preliminarmente questa materia?

A questa stessa questione si lega un altro scenario, ancor più concreto. In caso di elezioni anticipate e di vittoria del centrosinistra si porrà subito il problema se ritirare immediatamente le nostre truppe dall’ Iraq (e dagli altri scenari di guerra, a cominciare dall’Afghanistan colonizzato dagli Stati Uniti). Che cosa deciderà il nuovo governo? Par di capire che Fassino, Prodi e Rutelli siano per un rientro graduale, in tempi lunghi. E noi? Manterremo la linea, sempre riaffermata, del ritiro immediato (entrando in collisione col resto della coalizione), o ci allineeremo?

E ancora. È ben nota l’entità della voragine che il governo Berlusconi lascerà dietro di sé nei conti pubblici. Il debito (già superiore al 105% del Pil) è tornato a crescere. Il deficit si avvia a raggiungere quota 3,6% quest’anno, e supererà il 4,6% l’anno prossimo. L’Europa chiederà al prossimo esecutivo misure draconiane per rientrare nei parametri del Patto di Stabilità. E sappiamo bene quanti guardiani di Maastricht militino nelle file dei Ds e della Margherita. Chiediamoci: è difficile prevedere che, pur di «risanare», il presidente Prodi elaborerà finanziarie «lacrime e sangue», fatte di tagli alla spesa e di nuovi «sacrifici», imposti come sempre al lavoro dipendente, ai giovani, ai pensionati? Non è affatto difficile: difficile è capire come Rifondazione Comunista potrebbe tenere insieme la capra della disciplina di governo con i cavoli della coerenza politica rispetto agli impegni da sempre assunti con la propria gente, già tartassata in vent’anni di neoliberismo trionfante.



L’unità contro Berlusconi



Si tratta di fatti, pesanti come macigni. Con i quali si può non fare i conti quando, dal palco di un Congresso nazionale, si vuole a tutti i costi ribadire il proprio punto di vista. E allora magari ci si lascia andare all’irrisione nei confronti di chi chiede precisi impegni programmatici. Ma i fatti hanno la testa dura, non si lasciano persuadere facilmente, nemmeno da chi alza i toni dello scontro. Noi diciamo con molta chiarezza che sulla esigenza fondamentale del Paese – cacciare Berlusconi – non ci può essere alcuna incertezza. L’unità tra tutte le forze democratiche in vista di questo obiettivo è fuori discussione. Anzi, sosteniamo che le forze di opposizione dovrebbero assumere forti iniziative al fine di accelerare la caduta del governo e la fine della legislatura. Siamo molto critici nei confronti del basso profilo assunto dall’Unione e dal nostro stesso partito all’indomani del voto regionale. Perché lasciare che un governo precipitato al 42% dei consensi su base nazionale resti alla guida del Paese, minacciando di devastare ulteriormente l’economia e il bilancio pubblico, e di condurre in porto le più dirompenti «riforme» del suo programma? Dunque la partecipazione del Prc alla battaglia elettorale delle opposizioni contro le destre è fuori discussione, e lo è sempre stata. Ma questo non significa che sia lecito ingannare il «popolo della sinistra», prospettargli scenari confusi, nei quali sono sistematicamente eluse le divergenze tra i partiti sulle questioni della pace, del lavoro, del welfare, del salario e delle pensioni.



C’è ancora una lezione che dobbiamo saper trarre dal terremoto del 3-4 aprile. Perché tanti compagni erano così certi che Rifondazione Comunista avrebbe ottenuto un grande successo elettorale? Un successo talmente sicuro e cospicuo da giustificare – secondo queste previsioni – la linea decisa dal compagno Bertinotti: non porre al centrosinistra alcuna condizione preliminare per giocare poi «in corso d’opera», gettando sul confronto con l’Unione il peso di una crescita di consensi che si dava, appunto, per scontata? La risposta è molto semplice: perché questi compagni sono partiti da una analisi della fase politica e sociale in larga misura sbagliata. Lo abbiamo detto con forza durante i mesi che ci hanno condotto al Congresso. Lo abbiamo ribadito durante le giornate di Venezia. Abbiamo cercato di fornire un contributo costruttivo al dibattito interno, convinti come siamo che l’errore di analisi compiuto dalla maggioranza del Partito rischia di farci deragliare, con conseguenze assai gravi. Non siamo stati ascoltati. Non ci resta, dunque, che ripeterci, nella speranza di contribuire a un ripensamento.

Il compagno Bertinotti ripete da tempo che ci troviamo in una fase di grande fibrillazione sociale, accompagnata e amplificata dallo spostamento del centrosinistra su posizioni più avanzate. Lo schema rappresenta i movimenti in funzione di apripista di una stagione di conflitti vincenti, e le organizzazioni sindacali e politiche in una attitudine finalmente dinamica, pronti a recepire gli stimoli provenienti dal basso e a valorizzarli sul terreno delle lotte e della battaglia politica. Si comprende bene che, sullo sfondo di una simile rappresentazione, ci si attendesse un’impetuosa crescita di Rifondazione Comunista e anche un ridimensionamento delle componenti moderate dell’Unione. Ma le cose stanno davvero in questi termini? No. I movimenti – soprattutto il movimento no-global – attraversano una fase di difficoltà. Hanno avuto luogo iniziative anche molto importanti (le manifestazioni di Bruxelles contro la Bolkestein e di Roma contro la guerra, il 19 marzo; lo sciopero dei meccanici il 15 aprile). Ma si è trattato di momenti alti ed eccezionali in una fase prevalentemente statica, nella quale elementi dominanti sono la recrudescenza del bellicismo statunitense (simboleggiata dalla nomina di Condoleezza Rice al Dipartimento di Stato e dalle candidature di John Bolton e Paul Wolfowitz, rispettivamente all’Onu e al Fmi) e dell’aggressività di Israele (dove l’occupazione dei Territori e la costruzione del Muro continuano, nonostante la moderazione di Abu Mazen). Sul terreno dei conflitti di lavoro, il ricatto delle delocalizzazioni continua a determinare peggioramenti nell’orario e nelle condizioni salariali (a fronte di una vera esplosione delle retribuzioni per i manager, i cui stipendi oscillano tra i 2 e i 15 milioni di euro, tra i 4 e i 30 miliardi di vecchie lire). I sindacati confederali, a loro volta, danno segni di un tendenziale recupero di logiche concertative. E quanto ai partiti del centrosinistra, i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita hanno semmai radicalizzato le proprie propensioni moderate.

L’analisi della fase su cui è stata costruita la linea del Partito (e una strategia di lotta interna che mette a dura prova le relazioni politiche tra le sue diverse componenti) si è rivelata priva di fondamento nel Paese e nella realtà internazionale. Hanno dunque buon gioco ora i veri vincitori delle elezioni a dare la propria interpretazione della situazione, e a incassarne i dividendi. Rutelli ha detto a chiare lettere: «l’espressione Prodinotti è archiviata. L’asse riformista del centrosinistra esce molto rafforzato dalle elezioni». Fassino gli ha fatto eco: «nei mesi scorsi si era ipotizzato che la nascita della Federazione dell’Ulivo aprisse grandi spazi alla sinistra radicale. Il voto dimostra il contrario. Evapora definitivamente il Prodinotti». Potremmo continuare con le citazioni, ma servirebbe a poco. La verità è che purtroppo questi commenti colgono nel segno. Fornendo l’ennesima riprova del fatto che le scelte compiute dalla maggioranza del Partito da un anno e mezzo a questa parte – e soprattutto nel VI Congresso Nazionale – hanno sortito il solo effetto di accrescere via via le nostre difficoltà, esasperate, da ultimo, dal cattivo esito elettorale.



Il VI Congresso



Visto che ci è accaduto di menzionare il nostro VI Congresso, soffermiamoci qualche istante ancora su quest’argomento. I compagni conoscono le nostre critiche nei confronti della formula prescelta dal Segretario nazionale: un Congresso a mozioni contrapposte, che certo non aiuta il Partito ad esprimere tutte le sue potenzialità, e che comporta invece il grave difetto di esasperare le divisioni interne. Queste erano le nostre preoccupazioni della vigilia, e non ci pare affatto che quanto è accaduto a Venezia e dopo Venezia (si pensi, per fare un esempio, alle gravi forzature introdotte nello Statuto del Partito) possa indurci a ridimensionarle. Ma ora, a bocce ferme, si tratta innanzi tutto di valutare i risultati del Congresso, sui quali la stampa nazionale ha fornito resoconti molto diversi e non di rado imprecisi.

Qualche dato, per cominciare. La mozione 1 (presentata dal compagno Bertinotti) ha ottenuto il 59,1%; il Segretario è stato rieletto con il 60% dei voti (contro l’88% ottenuto nel V Congresso). Le quattro mozioni di minoranza hanno raccolto il 40,9% dei consensi, e ciò nonostante un cospicuo rigonfiamento del tesseramento (avvenuto nel corso degli ultimi dieci giorni utili ai fini congressuali) e un regolamento che consentiva di votare per alcune ore dopo la chiusura del dibattito. Per fare un esempio, a me è capitato di prendere parte, a Reggio Calabria, al Congresso di un Circolo con 340 iscritti, nel quale il dibattito si è svolto in una stanza che conteneva una ventina di sedie. Il dibattito ha visto la partecipazione di una dozzina di compagni. Ma nel tempo destinato alle votazioni, il Circolo è stato meta di un assiduo pellegrinaggio: circa duecento persone si sono presentate alle urne, chiedendo di «votare per Bertinotti».

Ciò nonostante la mozione Essere comunisti ha conseguito un risultato molto significativo. Siamo cresciuti rispetto allo scorso Congresso, sia in termini percentuali (rappresentiamo oggi il 26,5% del Partito), che in voti assoluti (circa 13.500). Siamo primi in 22 Federazioni (in altre otto superiamo il 40%) e in 4 regioni, mentre in 10 regioni su 20 la maggioranza non supera il 51%. A Torino vinciamo, ottenendo la rielezione del nostro Segretario, che era stato sostituito nello scorso Congresso in quanto sostenitore degli emendamenti alle tesi della maggioranza. In Calabria passiamo dal 42 al 57%, dando così la risposta più univoca alla decisione, presa dalla maggioranza all’inizio del percorso congressuale, di commissariare la segreteria regionale per «punire» il Segretario, anch’egli firmatario degli emendamenti.

Ce n’è abbastanza per dire che la sintesi giornalistica propagandata da giornali e televisioni – la tesi secondo la quale la mozione 1 avrebbe «vinto il Congresso» – è totalmente fallace. La verità è che mai, nella storia di Rifondazione Comunista, il gruppo dirigente, la maggioranza che governa il Partito, aveva conseguito un consenso così modesto. Ciò rende ancor più incomprensibile la decisione di modificare lo Statuto (un po’ la nostra Costituzione) a colpi di maggioranza, e di concepire gli organismi politici più importanti (la Segreteria e l’Esecutivo) anch’essi, di fatto, come espressioni della sola maggioranza del Partito.

Soprattutto, alla luce di questo quadro, appare in tutta la sua gravità l’atto conclusivo di questo VI Congresso: le conclusioni sprezzanti con cui il compagno Bertinotti ha ritenuto di suggellare le giornate di Venezia. Con uno stile che ci ha ricordato alcuni momenti tra i più tristi della nostra storia quando si usava ridurre in caricatura le posizioni degli avversarsi per sconfiggerle senza confrontarsi seriamente con esse.



Le prospettive del nostro lavoro



Chi ha alimentato questo clima di contrapposizione si è assunto, crediamo, gravi responsabilità, anche perché l’acuirsi delle divisioni interne rischia di indebolire seriamente l’iniziativa complessiva del Partito. Quanto a noi, condurremo la nostra iniziativa di opposizione tenendo ben fermi due obiettivi fondamentali: contribuire alla costruzione di una linea del Partito che sia, a nostro parere, più efficace, e rafforzare, così facendo, le nostre posizioni, nell’interesse comune della rifondazione comunista. Vorrei, in chiusura, delineare brevemente i tre temi politici intorno ai quali questa nostra iniziativa potrebbe convenientemente svilupparsi.

In primo luogo occorre approfondire la critica della svolta governista praticata dal compagno Bertinotti, ponendo in evidenza che essa determina la subalternità del Prc al centrosinistra e un consolidamento del meccanismo dell’alternanza. È nostra convinzione che, poiché permangono divergenze strategiche rispetto al centrosinistra (le forze della Fed considerano il capitalismo un orizzonte non trascendibile; noi comunisti pensiamo invece che superare il capitalismo sia indispensabile per risolvere i principali problemi che fronteggiano l’umanità), si possano stringere intese, non alleanze organiche. E che vada attentamente salvaguardata l’autonomia di Rifondazione Comunista, quale unica forza che in Italia si colloca fuori dal bipolarismo e dalla logica dell’alternanza. Non è in discussione – lo ribadiamo ancora una volta – la nostra propensione unitaria (che in un passato ancora recente ci veniva imputata come «frontismo»), ma l’interpretazione governista di questa giusta linea.

La seconda questione concerne la sinistra di alternativa. L’impostazione data dal Segretario al tema del governo non ha certo aiutato il processo di costruzione di questa vasta area politica, che costituisce per noi un riferimento di primaria importanza. Invece di chiamare a raccolta le forze sociali e politiche che sostennero la battaglia per l’estensione dell’art. 18, invece di coinvolgere questi soggetti nella elaborazione di un programma comune, si è privilegiata l’interlocuzione diretta con Romano Prodi, operando l’ingresso nell’Unione e addirittura accettando il vincolo di maggioranza (contro una delle nostre fondamentali parole d’ordine: «prima i programmi, poi le alleanze»). Oltre a indebolirci nel rapporto con le altre forze dell’opposizione, questa linea ha sin qui ostacolato la costruzione della sinistra di alternativa, che rimane per noi, al contrario, un progetto essenziale: uno dei compiti fondamentali del nostro lavoro politico in quest’ultimo anno di legislatura. L’aggregazione delle forze di alternativa, l’unità – nella rispettiva autonomia – di tutti i soggetti che a sinistra si schierano contro il liberismo e la guerra, è, a nostro giudizio, una esigenza oggettiva in questa fase storica. Per questo abbiamo considerato con rammarico la conclusione dell’esperienza della rivista del manifesto, e per questo riteniamo urgente la ricerca di nuovi strumenti di elaborazione e di intervento politico unitario.



Battaglia delle idee e impegno politico



Il terzo terreno di lavoro concerne, infine, la nostra cultura politica. Consideriamo indispensabile, a questo riguardo, contrastare con forza la svolta neo-identitaria promossa dal compagno Bertinotti, assai ben accolta dal Riformista ma per nulla gradita dai compagni che si riconoscono, pur criticamente, nella storia del movimento operaio e comunista. La questione che oggi si profila con grande nettezza è se auspichiamo che Rifondazione Comunista divenga una forza radicale, «antagonistica», o se manteniamo fermo l’obiettivo di costruire un nuovo partito comunista. Questa domanda trova una riformulazione ben chiara sul terreno culturale, dove la domanda che dobbiamo porci è se intendiamo rimuovere la nostra storia, quasi fosse soltanto un pesante fardello, o approfondirla, sottoponendola a una ricerca rigorosa, a una critica seria e costruttiva. Quest’ultimo è il nostro obiettivo, che va perseguito guardando anche al di fuori di noi, intrecciando un confronto serrato con le altre tesi che oggi si confrontano nell’ambito della sinistra di alternativa.

Intendiamo rilanciare la discussione sulla questione comunista, cercando di coinvolgere la diaspora comunista che in questi quindici anni non ha trovato luoghi e motivazioni adeguate per impegnarsi a fondo in una ricerca quanto mai necessaria. Vogliamo promuovere una iniziativa teorica e politica tesa a contrastare l’offensiva anticomunista e revisionistica (si pensi, da ultimo, al vergognoso tentativo di equiparare la svastica nazista al simbolo con la falce e il martello). Ci proponiamo di indagare le nuove forme della centralità del lavoro e del conflitto di classe, e le relazioni che saldano i temi economici alle questioni dell’ambiente, al nesso tra disoccupazione e sviluppo, alla grande questione strategica del processo di costruzione del socialismo. È nostro preciso intento, infine, proseguire nel lavoro di documentazione critica sul terreno internazionale, per rafforzare la nostra battaglia contro la guerra, a sostegno dei movimenti di resistenza e di lotta anti-imperialista (a cominciare, nel nostro Paese, dal movimento contro le basi Usa e Nato presenti sul territorio nazionale). Occorre per questo rilanciare la riflessione sui grandi processi geopolitici e sul ruolo degli Stati nazionali (e dell’Unione Europea).

Attraverso l’approfondimento di questi temi (ai quali molti altri se ne potrebbero aggiungere) intendiamo precisare sempre meglio il nostro profilo politico e con ciò condurre innanzi, con crescente efficacia, una battaglia che, cominciata dieci anni or sono sulle pagine di questa rivista, rafforzata dal contributo di innumerevoli saggi e libri scritti da nostri compagni, è proseguita con la presentazione degli emendamenti in occasione del V Congresso del Prc e con la elaborazione della mozione Essere comunisti all’ultimo Congresso. Ai nostri compagni rivolgiamo un caloroso ringraziamento per il sostegno che ci hanno sempre fatto sentire. A loro, e a quanti guardano con simpatia alla nostra battaglia, diciamo che abbiamo già ripreso il nostro cammino per la costruzione di una prospettiva politica e programmatica che, nel tenere aperto il confronto nel Partito e nella sinistra di alternativa, mira all’obiettivo per noi irrinunciabile della rifondazione comunista.

 


16 Aprile 2005

 

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