Dal VI Congresso alle
regionali: note sul Prc
di Claudio Grassi
Editoriale da "l’Ernesto", n. 2/2005
La sconfitta delle destre e di Berlusconi con il voto regionale e
amministrativo del 3-4 aprile ha determinato un terremoto politico di enorme
portata. Dobbiamo, in primo luogo, soffermarci su di essa, cercare di capire
cosa è successo, cominciando col passare in rassegna le ragioni che hanno
decretato la sconfitta delle destre.
Individuiamo a questo riguardo due cause fondamentali, tra loro connesse: il
grave stato di crisi dell’economia italiana (la mancata crescita, il declino
produttivo, la tendenza verso un’esplosione del deficit, il perdurare di una
crisi occupazionale mal dissimulata dal diffondersi del precariato) e lo
sfaldarsi (in parte conseguente) del blocco sociale su cui la Casa delle
Libertà ha costruito i propri successi elettorali: quell’arco di forze e di
poteri che va dalla Confindustria (passata dalla presidenza amica di D’Amato
alla guida, assai meno simpatetica, di Luca di Montezemolo) alla Confcommercio,
alla stessa Cisl di Pezzotta (da ultimo tornata sugli antichi sentieri
dell’intesa tra le confederazioni). Il riflesso politico di questa crisi di
consenso è la crescente difficoltà di conciliare le due anime della coalizione
di governo: l’asse “statalista” e “meridionalista” costituito da An e Udc
(tradizionalmente sensibile alle istanze del pubblico impiego), e quello
nordista di Lega e Forza Italia, assai più attento alle esigenze del capitale
privato (con particolare riferimento al tessuto della microimprenditorialità
del nord-est). Sta qui, in estrema sintesi, la radice della crisi del
berlusconismo, inteso come formula politica di compromesso tra interessi
sociali diversi (altra cosa – e purtroppo ben più radicata – è ovviamente il
berlusconismo in quanto ethos, cioè come attitudine morale e culturale
caratterizzata dal culto individualistico del successo economico e dalla
negazione del pubblico). Il voto regionale ha messo a nudo una caduta verticale
dei consensi intorno alla CdL, ormai largamente minoritaria nel Paese. Mai come
in questo momento il governo Berlusconi è apparso privo di credito e di
legittimità politica. Dinanzi a questo risultato, appare dunque del tutto
incomprensibile la decisione dell’Unione, di lasciare respiro al governo, di
non incalzarlo al fine di determinare la conclusione anticipata della
legislatura. Com’è stato autorevolmente osservato, si tratta di un calcolo
spericolato, che comporta due seri rischi. Per un verso, le destre cercheranno
di risalire la china utilizzando la spesa pubblica e la politica fiscale in
funzione elettorale. Ciò si tradurrà in ulteriori disastri per l’assetto
economico del Paese. Per l’altro verso, mettendo in conto la probabile
sconfitta alle prossime elezioni, il governo cercherà di realizzare nei
prossimi mesi quanto resta ancora inattuato del suo programma, a cominciare
dalle “riforme” più devastanti: la Costituzione, l’ordinamento giudiziario, la
par condicio, la legge elettorale. Quello che ci attende – se Berlusconi sarà lasciato
fare – è con ogni probabilità un annus horribilis, per evitare il quale le
forze dell’opposizione dovrebbero fare tutto quanto è nelle loro possibilità.
C’è poi l’altro versante del voto del 3-4 aprile: la netta vittoria dell’
Unione, che incassa i frutti della crescente avversione nei confronti della
CdL. È un risultato positivo che va ben al di là – lo si diceva – delle più
rosee previsioni. Ben undici Regioni su tredici sono state conquistate dal
centrosinistra, e ciò ha determinato un profondo mutamento della geografia
politica del Paese. La vittoria del compagno Nichi Vendola in Puglia può ben
essere assunta come il simbolo di questo accadimento, per la sua portata, per
il suo significato e anche per ciò che di inaspettato rappresenta. Certo, Vendola
ha vinto anche in quanto candidato della coalizione, ha vinto perché su di lui
sono confluiti i voti di tutta l’Unione. Da questo punto di vista appaiono
fuorvianti le analisi che considerano soltanto le straordinarie qualità del
nostro compagno (il carattere fortemente innovativo della sua figura di
dirigente politico, la sua notevole capacità di costruire relazioni con il
territorio e con la società), prescindendo dal contesto politico e dal
meccanismo elettorale. Non c’è alcun bisogno di cancellare la realtà per dire
la grande soddisfazione tratta dall’affermazione di un comunista in una
competizione difficile e di tanta rilevanza. Né occorre scomodare improbabili
categorie (si è giunti a discorrere di «rottura antropologica», quasi stessimo
assistendo al manifestarsi di una nuova forma di vita) per sottolineare la
rilevanza di questa affermazione del nostro Partito. In questo caso le cose
parlano da sé. Un comunista si è affermato in una battaglia che tanti avevano
ritenuto disperata dimostrando quanto contino la serietà e l’onestà di un
impegno politico e quanto sia importante conoscere una realtà, viverne i
problemi e i conflitti, avvertirne i bisogni e farsene carico. Piuttosto che
sovraccaricare il caso pugliese di significati impropri, cerchiamo di trarre
con sobrietà gli insegnamenti che ne derivano: a cominciare, appunto, dal
valore cruciale del radicamento, della concreta, duratura presenza di una
soggettività sul territorio.
All’esito positivo della battaglia in Puglia si lega tuttavia un risvolto assai
problematico del risultato elettorale. Se allarghiamo lo sguardo sull’intero
scenario, vediamo facilmente come il tratto distintivo del successo delle forze
di opposizione sia la netta affermazione della lista Uniti per l’Ulivo, ben più
significativa dell’incremento ottenuto dai Verdi e dal Pdci. È questa, al di là
di ogni dubbio, l’indicazione fondamentale emersa dalle urne. Ma si tratta
altresì di una indicazione tutt’altro che incoraggiante: di un risultato che
purtroppo smentisce le attese della vigilia, e con il quale occorre ora fare
seriamente i conti.
Prc: battuta d’arresto
Tutte le previsioni indicavano in Rifondazione Comunista il partito che avrebbe
registrato il più marcato incremento. Si è verificato l’esatto contrario. Dentro
un risultato generale positivo (la sconfitta delle destre), si è avuto un
risultato insoddisfacente del nostro Partito, che vanifica persino la
fortissima esposizione mediatica di cui Rifondazione Comunista ha goduto negli
ultimi mesi. Come mai si è verificato questo esito? Come mai assistiamo a una
evoluzione del quadro politico specularmene opposta a quella evocata dal
compagno Bertinotti ancora nelle conclusioni del Congresso, dove si affermava
che le grandi «innovazioni» introdotte nella direzione politica e nel corredo
culturale e identitario del Partito avevano «il vento in poppa» e avrebbero
senz’altro intercettato grandi consensi? Come mai tutto questo? Che cosa resta
della sprezzante sicurezza con cui sono state trattate le minoranze interne (il
41% del Partito!) e della certezza di trionfi elettorali? Raramente conclusioni
congressuali sono apparse più stonate di quanto si rivelino, alla luce del voto
di aprile, quelle del nostro VI Congresso. E come non osservare che – malgrado
il generoso dispendio di modifiche culturali e organizzative – Rifondazione
Comunista si ritrova ad oscillare, a quindici anni dalla nascita, tra il 5 e il
6%, allo stesso livello dei comunisti francesi e spagnoli, e ben al di sotto
delle percentuali ottenute da portoghesi e greci, che, pur non avendo aderito
alla Sinistra europea, si attestano tra l’8 e il 10%? Così stanno le cose, e
occorre innanzi tutto prenderne atto. Maggiore modestia non avrebbe guastato e
non guasterebbe.
Perché conseguiamo un risultato tanto insoddisfacente, e così lontano dalle
previsioni? La ragione principale è che è stato operato un ribaltamento della
linea politica, che ha visto il Partito passare immediatamente da un eccesso
(il rifiuto del confronto con le altre forze politiche dell’opposizione,
motivato con la tesi massimalistica delle «due destre») all’eccesso opposto
(l’internità nell’Unione e l’accordo di governo, senza alcuna condizione sul
terreno programmatico). A questa svolta, repentina ed esasperata, si sono
accompagnati alcuni gravi inconvenienti, che hanno pesato sulla capacità
attrattiva del Partito. È stato modificato il nostro impianto culturale e
identitario privilegiando una indistinta «radicalità». Non è un caso che il
Partito abbia raccolto infervorati elogi da un giornale molto schierato come il
Riformista, che si è più volte complimentato con il compagno Bertinotti per
l’opera di «innovazione» ideologica messa in atto, depurando il Partito da
«anacronistici» riferimenti alle idee e all’esperienza del movimento comunista.
Questa «innovazione» avrebbe dovuto pagare sul piano elettorale nelle
previsioni di chi ha inteso promuoverla. Ma i calcoli si sono rivelati
sbagliati.
Si è poi avuto un appannamento politico, sostituendo l’immagine – e la pratica
– di un Partito conflittuale, capace di porre condizioni, con quella di un
Partito che tende ad allinearsi alle indicazioni delle forze prevalenti
dell’Unione e mette la sordina alle proprie richieste: dall’introduzione della
patrimoniale al ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq. E così siamo
arrivati, da ultimo, a non chiedere le dimissioni del governo nemmeno dopo il
crollo elettorale e a subire persino la prospettiva che Mario Monti –
autorevole incarnazione del credo neoliberista – figuri nella prossima
compagine di governo capeggiata da Romano Prodi.
Perché queste scelte tattiche abbiano prodotto risultati tanto negativi non è
difficile a comprendersi. Il fatto è che al nostro radicale mutamento di linea
(approdato alla decisione di entrare nell’alleanza e persino di dare per
scontato il nostro ingresso nel futuro governo di centrosinistra ancor prima di
cominciare la discussione sul programma) non ha corrisposto alcun mutamento
nelle posizioni politiche dei partiti dell’Unione.
Prodi e il Prc: chi è cambiato?
Chiediamoci, molto semplicemente: rispetto agli anni Novanta è cambiato Prodi o
è cambiata Rifondazione Comunista? Se siamo sinceri con noi stessi, la risposta
non può essere che una: è cambiato – e in profondità – il nostro partito. Non
certo il gruppo dirigente del centrosinistra, che anzi non perde occasione per
ribadire (quasi a voler mettere le mani avanti) che le direttrici di marcia
della sua azione di governo saranno domani quelle che sono state ieri, negli
anni Novanta, e che hanno aperto la strada alla destra berlusconiana e
post-fascista. Si leggano anche solo le più recenti interviste dell’on. Fassino
e dell’on. Rutelli. L’uno si dice persuaso che il presidente Bush abbia
cambiato linea politica; e, rivolto ai nostri imprenditori, promette che la
strada della flessibilità sarà ancora privilegiata dal centrosinistra. L’altro
gli fa eco sulle questioni del lavoro e della precarietà, e si premura di
aggiungere che le leggi di Berlusconi saranno in gran parte conservate dal
nuovo governo. E si leggano le ultime uscite del leader dell’Unione,
l’entusiastica accoglienza riservata alle predicazioni iperliberiste del
professor Monti e la proposta di collaborazione in campo economico rivolta al
capo dell’attuale governo. Con queste posizioni Rifondazione Comunista si trova
a fare i conti. E con chi esprime queste posizioni l’attuale direzione politica
del Partito ha scelto di non aprire una forte offensiva programmatica. È,
questa, una modalità di costruzione di una intesa politica che ci appare
sbagliata su entrambi i versanti.
Sbaglia, a nostro giudizio, il presidente Prodi, il quale si illude che
l’essenziale sia l’ingresso del Prc nell’alleanza, e l’accoglimento, in linea
di principio, del vincolo di maggioranza. Suole ripeterlo, Prodi, a ogni piè
sospinto: «obbediranno». Il fatto è che questo nostro partito – a differenza
delle formazioni minori della sinistra di alternativa, nelle quali il ceto
politico è proporzionalmente prevalente sul resto – non è affatto pacificato,
remissivo. Al contrario, mantiene un ampio margine di autonomia e di capacità
critica. Se riconosciuta sbagliata alla prova dei fatti, una linea può quindi
essere ribaltata da nuovi orientamenti della base o degli stessi organismi
dirigenti centrali, anche nel pieno di una legislatura.
E sbaglia, secondo noi, anche il compagno Bertinotti. La scelta di posporre il
confronto programmatico all’accordo si fonda sull’idea che è dall’interno
dell’Unione che il Partito può massimizzare i propri risultati. Per questo
abbiamo sinora rinunciato a far emergere le pur cospicue contraddizioni che
solcano la coalizione di centrosinistra. Ma questa scelta non è solo perdente,
come dimostra l’esito elettorale che ha ridotto il peso contrattuale di
Rifondazione nei confronti delle altre forze di opposizione. È assai
discutibile anche su un piano, per dir così, etico-politico, poiché rischia di
determinare una duplice delusione. Diamo agli elettori di sinistra l’immagine
di una unità piena tra le opposizioni che nei fatti non c’è, che sappiamo
invece molto parziale e fragile, e che in effetti rischia di venir travolta da
sviluppi tutt’altro che improbabili. E trasmettiamo ai nostri compagni una
indicazione di unità tra tutte le forze democratiche che essi certo richiedono
con forza, ma omettiamo di farci carico al contempo delle richieste che essi
avanzano sul piano dei contenuti, dei programmi e dei risultati politici
concreti.
Il risultato di questi errori convergenti è un rischio che non possiamo, oggi,
sottacere. Benché affermino entrambi di non volere riprodurre la situazione del
1998, sia Prodi che Bertinotti corrono il serio pericolo di lavorare – entrambi
– proprio in quella direzione. Assumendosi con ciò gravissime responsabilità.
Vediamo – per intenderci – di fare qualche esempio.
Il governo dell’Unione
Sappiamo bene che la prospettiva di una nuova avventura bellica imposta dagli
Stati Uniti è tutt’altro che inverosimile. È anche molto probabile che la
decisione di attaccare uno degli Stati contro i quali la Casa Bianca concentra
la propria offensiva ottenga la copertura dell’Onu, magari dopo qualche
messinscena simile a quella volta ad accreditare la leggenda delle armi di
distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein. Bene: che cosa farà, in tal
caso, il governo dell’ Unione? Abbiamo tutti gli elementi per prevedere che i
maggiori partiti – a cominciare dai Ds – spingerebbero affinché l’Italia
«faccia la sua parte», come ha detto l’on. Fassino in una delle sue ultime
interviste, nella quale programmava anche che in politica estera, pur di
ottenere la maggioranza in Parlamento, il governo di centrosinistra dovrebbe
avvalersi anche del sostegno della Casa delle Libertà. E noi? Abbiamo sempre
detto – tutti – che Rifondazione Comunista non avallerà mai la partecipazione
italiana a nuove guerre. Dunque in tale eventualità usciremmo dal governo. E
allora, non sarebbe meglio parlarne prima, chiarire preliminarmente questa
materia?
A questa stessa questione si lega un altro scenario, ancor più concreto. In
caso di elezioni anticipate e di vittoria del centrosinistra si porrà subito il
problema se ritirare immediatamente le nostre truppe dall’ Iraq (e dagli altri
scenari di guerra, a cominciare dall’Afghanistan colonizzato dagli Stati
Uniti). Che cosa deciderà il nuovo governo? Par di capire che Fassino, Prodi e
Rutelli siano per un rientro graduale, in tempi lunghi. E noi? Manterremo la
linea, sempre riaffermata, del ritiro immediato (entrando in collisione col
resto della coalizione), o ci allineeremo?
E ancora. È ben nota l’entità della voragine che il governo Berlusconi lascerà
dietro di sé nei conti pubblici. Il debito (già superiore al 105% del Pil) è
tornato a crescere. Il deficit si avvia a raggiungere quota 3,6% quest’anno, e
supererà il 4,6% l’anno prossimo. L’Europa chiederà al prossimo esecutivo
misure draconiane per rientrare nei parametri del Patto di Stabilità. E
sappiamo bene quanti guardiani di Maastricht militino nelle file dei Ds e della
Margherita. Chiediamoci: è difficile prevedere che, pur di «risanare», il
presidente Prodi elaborerà finanziarie «lacrime e sangue», fatte di tagli alla
spesa e di nuovi «sacrifici», imposti come sempre al lavoro dipendente, ai
giovani, ai pensionati? Non è affatto difficile: difficile è capire come
Rifondazione Comunista potrebbe tenere insieme la capra della disciplina di
governo con i cavoli della coerenza politica rispetto agli impegni da sempre
assunti con la propria gente, già tartassata in vent’anni di neoliberismo
trionfante.
L’unità contro Berlusconi
Si tratta di fatti, pesanti come macigni. Con i quali si può non fare i conti
quando, dal palco di un Congresso nazionale, si vuole a tutti i costi ribadire
il proprio punto di vista. E allora magari ci si lascia andare all’irrisione
nei confronti di chi chiede precisi impegni programmatici. Ma i fatti hanno la
testa dura, non si lasciano persuadere facilmente, nemmeno da chi alza i toni
dello scontro. Noi diciamo con molta chiarezza che sulla esigenza fondamentale
del Paese – cacciare Berlusconi – non ci può essere alcuna incertezza. L’unità
tra tutte le forze democratiche in vista di questo obiettivo è fuori
discussione. Anzi, sosteniamo che le forze di opposizione dovrebbero assumere
forti iniziative al fine di accelerare la caduta del governo e la fine della
legislatura. Siamo molto critici nei confronti del basso profilo assunto
dall’Unione e dal nostro stesso partito all’indomani del voto regionale. Perché
lasciare che un governo precipitato al 42% dei consensi su base nazionale resti
alla guida del Paese, minacciando di devastare ulteriormente l’economia e il
bilancio pubblico, e di condurre in porto le più dirompenti «riforme» del suo
programma? Dunque la partecipazione del Prc alla battaglia elettorale delle
opposizioni contro le destre è fuori discussione, e lo è sempre stata. Ma questo
non significa che sia lecito ingannare il «popolo della sinistra»,
prospettargli scenari confusi, nei quali sono sistematicamente eluse le
divergenze tra i partiti sulle questioni della pace, del lavoro, del welfare,
del salario e delle pensioni.
C’è ancora una lezione che dobbiamo saper trarre dal terremoto del 3-4 aprile.
Perché tanti compagni erano così certi che Rifondazione Comunista avrebbe
ottenuto un grande successo elettorale? Un successo talmente sicuro e cospicuo
da giustificare – secondo queste previsioni – la linea decisa dal compagno
Bertinotti: non porre al centrosinistra alcuna condizione preliminare per
giocare poi «in corso d’opera», gettando sul confronto con l’Unione il peso di
una crescita di consensi che si dava, appunto, per scontata? La risposta è
molto semplice: perché questi compagni sono partiti da una analisi della fase
politica e sociale in larga misura sbagliata. Lo abbiamo detto con forza
durante i mesi che ci hanno condotto al Congresso. Lo abbiamo ribadito durante
le giornate di Venezia. Abbiamo cercato di fornire un contributo costruttivo al
dibattito interno, convinti come siamo che l’errore di analisi compiuto dalla
maggioranza del Partito rischia di farci deragliare, con conseguenze assai
gravi. Non siamo stati ascoltati. Non ci resta, dunque, che ripeterci, nella
speranza di contribuire a un ripensamento.
Il compagno Bertinotti ripete da tempo che ci troviamo in una fase di grande
fibrillazione sociale, accompagnata e amplificata dallo spostamento del
centrosinistra su posizioni più avanzate. Lo schema rappresenta i movimenti in
funzione di apripista di una stagione di conflitti vincenti, e le
organizzazioni sindacali e politiche in una attitudine finalmente dinamica,
pronti a recepire gli stimoli provenienti dal basso e a valorizzarli sul
terreno delle lotte e della battaglia politica. Si comprende bene che, sullo
sfondo di una simile rappresentazione, ci si attendesse un’impetuosa crescita
di Rifondazione Comunista e anche un ridimensionamento delle componenti moderate
dell’Unione. Ma le cose stanno davvero in questi termini? No. I movimenti –
soprattutto il movimento no-global – attraversano una fase di difficoltà. Hanno
avuto luogo iniziative anche molto importanti (le manifestazioni di Bruxelles
contro la Bolkestein e di Roma contro la guerra, il 19 marzo; lo sciopero dei
meccanici il 15 aprile). Ma si è trattato di momenti alti ed eccezionali in una
fase prevalentemente statica, nella quale elementi dominanti sono la
recrudescenza del bellicismo statunitense (simboleggiata dalla nomina di
Condoleezza Rice al Dipartimento di Stato e dalle candidature di John Bolton e
Paul Wolfowitz, rispettivamente all’Onu e al Fmi) e dell’aggressività di
Israele (dove l’occupazione dei Territori e la costruzione del Muro continuano,
nonostante la moderazione di Abu Mazen). Sul terreno dei conflitti di lavoro,
il ricatto delle delocalizzazioni continua a determinare peggioramenti
nell’orario e nelle condizioni salariali (a fronte di una vera esplosione delle
retribuzioni per i manager, i cui stipendi oscillano tra i 2 e i 15 milioni di
euro, tra i 4 e i 30 miliardi di vecchie lire). I sindacati confederali, a loro
volta, danno segni di un tendenziale recupero di logiche concertative. E quanto
ai partiti del centrosinistra, i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita
hanno semmai radicalizzato le proprie propensioni moderate.
L’analisi della fase su cui è stata costruita la linea del Partito (e una
strategia di lotta interna che mette a dura prova le relazioni politiche tra le
sue diverse componenti) si è rivelata priva di fondamento nel Paese e nella
realtà internazionale. Hanno dunque buon gioco ora i veri vincitori delle
elezioni a dare la propria interpretazione della situazione, e a incassarne i
dividendi. Rutelli ha detto a chiare lettere: «l’espressione Prodinotti è
archiviata. L’asse riformista del centrosinistra esce molto rafforzato dalle
elezioni». Fassino gli ha fatto eco: «nei mesi scorsi si era ipotizzato che la
nascita della Federazione dell’Ulivo aprisse grandi spazi alla sinistra
radicale. Il voto dimostra il contrario. Evapora definitivamente il
Prodinotti». Potremmo continuare con le citazioni, ma servirebbe a poco. La
verità è che purtroppo questi commenti colgono nel segno. Fornendo l’ennesima
riprova del fatto che le scelte compiute dalla maggioranza del Partito da un
anno e mezzo a questa parte – e soprattutto nel VI Congresso Nazionale – hanno
sortito il solo effetto di accrescere via via le nostre difficoltà, esasperate,
da ultimo, dal cattivo esito elettorale.
Il VI Congresso
Visto che ci è accaduto di menzionare il nostro VI Congresso, soffermiamoci
qualche istante ancora su quest’argomento. I compagni conoscono le nostre
critiche nei confronti della formula prescelta dal Segretario nazionale: un
Congresso a mozioni contrapposte, che certo non aiuta il Partito ad esprimere
tutte le sue potenzialità, e che comporta invece il grave difetto di esasperare
le divisioni interne. Queste erano le nostre preoccupazioni della vigilia, e
non ci pare affatto che quanto è accaduto a Venezia e dopo Venezia (si pensi,
per fare un esempio, alle gravi forzature introdotte nello Statuto del Partito)
possa indurci a ridimensionarle. Ma ora, a bocce ferme, si tratta innanzi tutto
di valutare i risultati del Congresso, sui quali la stampa nazionale ha fornito
resoconti molto diversi e non di rado imprecisi.
Qualche dato, per cominciare. La mozione 1 (presentata dal compagno Bertinotti)
ha ottenuto il 59,1%; il Segretario è stato rieletto con il 60% dei voti
(contro l’88% ottenuto nel V Congresso). Le quattro mozioni di minoranza hanno
raccolto il 40,9% dei consensi, e ciò nonostante un cospicuo rigonfiamento del
tesseramento (avvenuto nel corso degli ultimi dieci giorni utili ai fini
congressuali) e un regolamento che consentiva di votare per alcune ore dopo la
chiusura del dibattito. Per fare un esempio, a me è capitato di prendere parte,
a Reggio Calabria, al Congresso di un Circolo con 340 iscritti, nel quale il
dibattito si è svolto in una stanza che conteneva una ventina di sedie. Il
dibattito ha visto la partecipazione di una dozzina di compagni. Ma nel tempo
destinato alle votazioni, il Circolo è stato meta di un assiduo pellegrinaggio:
circa duecento persone si sono presentate alle urne, chiedendo di «votare per
Bertinotti».
Ciò nonostante la mozione Essere comunisti ha conseguito un risultato molto
significativo. Siamo cresciuti rispetto allo scorso Congresso, sia in termini
percentuali (rappresentiamo oggi il 26,5% del Partito), che in voti assoluti
(circa 13.500). Siamo primi in 22 Federazioni (in altre otto superiamo il 40%)
e in 4 regioni, mentre in 10 regioni su 20 la maggioranza non supera il 51%. A
Torino vinciamo, ottenendo la rielezione del nostro Segretario, che era stato
sostituito nello scorso Congresso in quanto sostenitore degli emendamenti alle
tesi della maggioranza. In Calabria passiamo dal 42 al 57%, dando così la
risposta più univoca alla decisione, presa dalla maggioranza all’inizio del
percorso congressuale, di commissariare la segreteria regionale per «punire» il
Segretario, anch’egli firmatario degli emendamenti.
Ce n’è abbastanza per dire che la sintesi giornalistica propagandata da
giornali e televisioni – la tesi secondo la quale la mozione 1 avrebbe «vinto
il Congresso» – è totalmente fallace. La verità è che mai, nella storia di
Rifondazione Comunista, il gruppo dirigente, la maggioranza che governa il
Partito, aveva conseguito un consenso così modesto. Ciò rende ancor più
incomprensibile la decisione di modificare lo Statuto (un po’ la nostra Costituzione)
a colpi di maggioranza, e di concepire gli organismi politici più importanti
(la Segreteria e l’Esecutivo) anch’essi, di fatto, come espressioni della sola
maggioranza del Partito.
Soprattutto, alla luce di questo quadro, appare in tutta la sua gravità l’atto
conclusivo di questo VI Congresso: le conclusioni sprezzanti con cui il
compagno Bertinotti ha ritenuto di suggellare le giornate di Venezia. Con uno
stile che ci ha ricordato alcuni momenti tra i più tristi della nostra storia
quando si usava ridurre in caricatura le posizioni degli avversarsi per
sconfiggerle senza confrontarsi seriamente con esse.
Le prospettive del nostro lavoro
Chi ha alimentato questo clima di contrapposizione si è assunto, crediamo,
gravi responsabilità, anche perché l’acuirsi delle divisioni interne rischia di
indebolire seriamente l’iniziativa complessiva del Partito. Quanto a noi,
condurremo la nostra iniziativa di opposizione tenendo ben fermi due obiettivi
fondamentali: contribuire alla costruzione di una linea del Partito che sia, a
nostro parere, più efficace, e rafforzare, così facendo, le nostre posizioni,
nell’interesse comune della rifondazione comunista. Vorrei, in chiusura,
delineare brevemente i tre temi politici intorno ai quali questa nostra iniziativa
potrebbe convenientemente svilupparsi.
In primo luogo occorre approfondire la critica della svolta governista
praticata dal compagno Bertinotti, ponendo in evidenza che essa determina la
subalternità del Prc al centrosinistra e un consolidamento del meccanismo
dell’alternanza. È nostra convinzione che, poiché permangono divergenze
strategiche rispetto al centrosinistra (le forze della Fed considerano il
capitalismo un orizzonte non trascendibile; noi comunisti pensiamo invece che
superare il capitalismo sia indispensabile per risolvere i principali problemi
che fronteggiano l’umanità), si possano stringere intese, non alleanze
organiche. E che vada attentamente salvaguardata l’autonomia di Rifondazione
Comunista, quale unica forza che in Italia si colloca fuori dal bipolarismo e
dalla logica dell’alternanza. Non è in discussione – lo ribadiamo ancora una
volta – la nostra propensione unitaria (che in un passato ancora recente ci
veniva imputata come «frontismo»), ma l’interpretazione governista di questa
giusta linea.
La seconda questione concerne la sinistra di alternativa. L’impostazione data
dal Segretario al tema del governo non ha certo aiutato il processo di
costruzione di questa vasta area politica, che costituisce per noi un
riferimento di primaria importanza. Invece di chiamare a raccolta le forze
sociali e politiche che sostennero la battaglia per l’estensione dell’art. 18,
invece di coinvolgere questi soggetti nella elaborazione di un programma
comune, si è privilegiata l’interlocuzione diretta con Romano Prodi, operando
l’ingresso nell’Unione e addirittura accettando il vincolo di maggioranza
(contro una delle nostre fondamentali parole d’ordine: «prima i programmi, poi
le alleanze»). Oltre a indebolirci nel rapporto con le altre forze dell’opposizione,
questa linea ha sin qui ostacolato la costruzione della sinistra di
alternativa, che rimane per noi, al contrario, un progetto essenziale: uno dei
compiti fondamentali del nostro lavoro politico in quest’ultimo anno di
legislatura. L’aggregazione delle forze di alternativa, l’unità – nella
rispettiva autonomia – di tutti i soggetti che a sinistra si schierano contro
il liberismo e la guerra, è, a nostro giudizio, una esigenza oggettiva in
questa fase storica. Per questo abbiamo considerato con rammarico la
conclusione dell’esperienza della rivista del manifesto, e per questo riteniamo
urgente la ricerca di nuovi strumenti di elaborazione e di intervento politico
unitario.
Battaglia delle idee e impegno politico
Il terzo terreno di lavoro concerne, infine, la nostra cultura politica.
Consideriamo indispensabile, a questo riguardo, contrastare con forza la svolta
neo-identitaria promossa dal compagno Bertinotti, assai ben accolta dal
Riformista ma per nulla gradita dai compagni che si riconoscono, pur
criticamente, nella storia del movimento operaio e comunista. La questione che
oggi si profila con grande nettezza è se auspichiamo che Rifondazione Comunista
divenga una forza radicale, «antagonistica», o se manteniamo fermo l’obiettivo
di costruire un nuovo partito comunista. Questa domanda trova una
riformulazione ben chiara sul terreno culturale, dove la domanda che dobbiamo
porci è se intendiamo rimuovere la nostra storia, quasi fosse soltanto un
pesante fardello, o approfondirla, sottoponendola a una ricerca rigorosa, a una
critica seria e costruttiva. Quest’ultimo è il nostro obiettivo, che va
perseguito guardando anche al di fuori di noi, intrecciando un confronto
serrato con le altre tesi che oggi si confrontano nell’ambito della sinistra di
alternativa.
Intendiamo rilanciare la discussione sulla questione comunista, cercando di
coinvolgere la diaspora comunista che in questi quindici anni non ha trovato
luoghi e motivazioni adeguate per impegnarsi a fondo in una ricerca quanto mai
necessaria. Vogliamo promuovere una iniziativa teorica e politica tesa a
contrastare l’offensiva anticomunista e revisionistica (si pensi, da ultimo, al
vergognoso tentativo di equiparare la svastica nazista al simbolo con la falce
e il martello). Ci proponiamo di indagare le nuove forme della centralità del
lavoro e del conflitto di classe, e le relazioni che saldano i temi economici
alle questioni dell’ambiente, al nesso tra disoccupazione e sviluppo, alla
grande questione strategica del processo di costruzione del socialismo. È
nostro preciso intento, infine, proseguire nel lavoro di documentazione critica
sul terreno internazionale, per rafforzare la nostra battaglia contro la
guerra, a sostegno dei movimenti di resistenza e di lotta anti-imperialista (a
cominciare, nel nostro Paese, dal movimento contro le basi Usa e Nato presenti
sul territorio nazionale). Occorre per questo rilanciare la riflessione sui
grandi processi geopolitici e sul ruolo degli Stati nazionali (e dell’Unione
Europea).
Attraverso l’approfondimento di questi temi (ai quali molti altri se ne
potrebbero aggiungere) intendiamo precisare sempre meglio il nostro profilo
politico e con ciò condurre innanzi, con crescente efficacia, una battaglia
che, cominciata dieci anni or sono sulle pagine di questa rivista, rafforzata
dal contributo di innumerevoli saggi e libri scritti da nostri compagni, è
proseguita con la presentazione degli emendamenti in occasione del V Congresso
del Prc e con la elaborazione della mozione Essere comunisti all’ultimo Congresso.
Ai nostri compagni rivolgiamo un caloroso ringraziamento per il sostegno che ci
hanno sempre fatto sentire. A loro, e a quanti guardano con simpatia alla
nostra battaglia, diciamo che abbiamo già ripreso il nostro cammino per la
costruzione di una prospettiva politica e programmatica che, nel tenere aperto
il confronto nel Partito e nella sinistra di alternativa, mira all’obiettivo
per noi irrinunciabile della rifondazione comunista.
16 Aprile 2005
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