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nr.2 - nuova serie - marzo 2001

Ferdinando Dubla

IL COMPLEMENTO OGGETTO DELLA RIFONDAZIONE


Occupazione dello spazio politico e agnosticismo per il comunismo storico: il PRC e la crisi della politica. E’ necessario il rilancio del processo di rifondazione del partito comunista


Il popolo della sinistra è senza partito comunista, inteso nel senso classico consegnatoci dalla tradizione del ‘900; tutti coloro che sono impegnati in un modo o nell’altro nella rifondazione del partito comunista in Italia, rischiano seriamente di restare senza una prospettiva popolare. Intendiamo per popolare la radice di massa, senza la quale si può facilmente cadere nel velleitarismo o, nei casi peggiori, nella provocazione avventurista. Le ragioni per le quali il luogo prioritario per la ricostruzione di questo partito comunista per il popolo di sinistra è e resta il Partito della Rifondazione Comunista sono principalmente (non esclusivamente) due; esso è

 

-         il portato storico diretto di un evento (lo scioglimento del Pci nel 1991)

-         la rappresentazione di massa dell’antagonismo anticapitalistico nel complessivo agone politico

 

Sono due elementi di uno spessore profondo, che non si possono oltrepassare dando priorità alla questione ideologica: è Marx che ha insegnato l’indispensabile coniugazione dialettica nella prassi, di teoria e pratica.

Il PRC non è nato dal nulla: è la conseguenza di un fatto storico rilevantissimo, quale la mutazione genetico-identitaria del Partito Comunista di Gramsci e di Togliatti. Dunque, non è un tentativo ex-novo di fondazione, ma il deliberato proposito di ri-fondazione di una formazione politica altrimenti destinata all’irreversibile estinzione. Il fatto poi che nel periodo 1989-91, siano state interrotte le esperienze di transizione dei paesi del cosiddetto ‘socialismo reale’, ha reso più urgente e non peregrino questo compito storico.

Questo primo elemento di analisi si raccorda dappresso al secondo: proprio in quanto risultato storico, il processo della rifondazione ha avuto un impatto sulla rappresentazione di massa delle formazioni politiche italiane. Nel senso, altrettanto indubitabilmente profondo e di spessore, che il PRC è stato percepito immediatamente, a torto o a ragione, come un raggruppamento di irriducibili esponenti “orfani nostalgici del Pci” (da destra) e/o come “coloro che innalzano la bandiera rossa da altri abbandonata”.

Solo una lettura ideologizzata può negare questi due aspetti dirimenti e concentrare la sua analisi sulle insufficienze e i limiti del PRC rispetto non solo alla tradizione comunista italiana, ma a quella dell’intero movimento operaio internazionale.

Ma è lo stesso gruppo dirigente del PRC che dovrà sempre fare i conti con quegli aspetti: e non solo dunque chi si occupa di evidenziarne le insufficienze.

Chi infatti volesse intervenire sulla sua natura genetico-identitaria, dovrebbe stravolgerne le funzioni storiche: lasciando così aperto uno spazio politico destinato ad essere occupato da altri. Qualunque gruppo dirigente, anche il più sciagurato, come noi consideriamo quello dell’allora Pci-Pds del trapasso nel periodo 89-91 (ricordiamo lo stemma antico sotto la nuova quercia, ad es.) è portato a valutare questa conseguenza, se non altro per la sua autoconservazione.

 

Per questo ordine di motivi, i pregi del PRC sono oggettivi e storici e ancora superano le carenze soggettive:

- l’occupazione di uno spazio politico di rappresentanza sociale antagonista al sistema capitalista;

- la preservazione di una memoria storica contro l’offensiva revisionista.

 

Questi due pilastri su cui si fonda l’esistenza stessa del PRC, però, devono essere riempiti di contenuti: cioè da una tattica legata ad una più complessiva finalità strategica; ad un progetto sociale ampio che sostanzi gli obiettivi immediati e intermedi; da un’analisi storica e un bilancio critico dell’esperienza del ‘900 del movimento comunista internazionale.

Senza contenuti chiari, i due pilastri sono destinati storicamente a scricchiolare: sono cioè insufficienti a garantire lo sviluppo di una formazione politica che si vuole rivoluzionaria e finanche radicale-riformista (i due elementi nel PRC convivono e, in questa fase storica, possono convivere). Possono cioè garantire per un periodo più o meno lungo una tenuta, una soglia di sopravvivenza, ma sono fragili per sostanziare un progetto connaturato all’identità fondata storicamente: la ri-fondazione del Partito Comunista Italiano, non solo di quadri e di avanguardie, ma di massa; nello stesso tempo  popolare e con qualità d’avanguardia.

 

Alcuni esempi:

·        la deriva a destra degli attuali DS, allarga lo spazio politico per il PRC; ma può portarlo anche a snaturarsi per occupare uno spazio non originariamente proprio. E’ così che negli anni il PRC ha ristretto il suo profilo ex-Pci (su cui si è pateticamente e in modo grossolanamente strumentale fiondato il Pdci di Cossutta e Diliberto, risultato invece di un’operazione meramente opportunistica) e ha rafforzato il suo radicalismo neokeynesiano, che in quanto radicalismo è tutto interno al sistema politico della borghesia e in quanto neokeynesiano è di impatto rivendicativo immediato, ma rinunciatario della prospettiva e dunque senza radici di classe e di massa.  Ciò rischia di piegare il PRC, senza un adeguato respiro strategico, verso il vizio dell’economicismo, un difetto che deve essere estraneo ad un partito comunista, come insegnò Lenin che non a caso si spese molto in questa battaglia. (1)

 

Si comprende in questo modo un’oscillazione che non è affatto inspiegabile: la rivendicazione di un aumento delle retribuzioni, dei salari e delle pensioni, è affidata ad una formazione politica considerata inefficace (o relativamente tale) dalle larghe masse, cioè che non è né sindacato (che può mobilitare con l’organizzazione della lotta sociale) né forza di governo che può decretare e decidere in materia.

·        L’accettazione acritica di categorie di interpretazione storico-politica come quella dello “stalinismo”, reso sinonimo di “metodo dispotico di direzione” o “totalitarismo egualitario”, tipici dell’apologetica borghese o di frazioni della tradizione del movimento operaio, rende più debole la resistenza e la controffensiva al revisionismo storico che tenta di liquidare nel senso comune l’intero patrimonio dell’esperienza comunista. Rispetto ai nodi della tradizione, Rifondazione sceglie l’agnosticismo, affidandosi ad analisi differenziate di esponenti del suo gruppo dirigente. Questo lascia però un campo desolatamente vuoto alla base e tra i militanti. (2)

La scarsa attenzione per la formazione dei quadri, per intessere quel reticolo fitto di materiali, riviste, seminari, strumenti, case editrici, ecc..,  che solo può motivare oggi all’agire politico in una formazione comunista, è uno dei limiti più gravi del PRC. E’ così che si spiega l’impressionante turn-over nel tesseramento: e non solo. E’ così che si spiega l’inattività passiva in molti circoli. I giovani vengono affascinati dall’ideale comunista: possono allontanarsi dall’impegno politico quando non capiscono più il nesso fra il quotidiano, il contingente e i valori, le idee della prospettiva socialista.

E ugualmente avviene tra i movimenti: il “popolo di Seattle” è mosso da un istinto anticapitalista e da una resistenza fisiologica ai processi della globalizzazione liberista. Ma il movimento non ha e non avrà sbocchi senza la guida della classe operaia, del proletariato vecchio e nuovo e del partito comunista che deve rappresentarne gli interessi di potere e non solo di rivendicazione. Come ha recentemente dichiarato lo storico Enzo Santarelli il partito “è il tramite organizzativo col quale il proletariato si libera dal ‘destino’ predeterminato ed incide consapevolmente sui processi storici. (..) Non è, chiaramente, dal principio dell’organizzazione che possono essere dipese le involuzioni burocratiche e, infine, sul piano strategico, moderate di alcuni partiti comunisti. Una delle molteplici cause potrebbe essere piuttosto rappresentata dall’abbandono stesso della concezione leninista-gramsciana del partito comunista costruito essenzialmente nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro e del conflitto capitale/lavoro.” (3) E’ appunto Antonio Gramsci che, mutuando in pieno la lezione leninista, individua nel Partito Comunista, nella sua autonomia progettuale, il soggetto in grado di rompere con il determinismo, di aprire contraddizioni rivoluzionarie, di rovesciare i rapporti di forza e tendere all’egemonia.

Discutere di partito e di quale partito; discutere di socialismo e di quale socialismo non è mera esercitazione retorica nelle sezioni: lo sarebbe se si parlasse solo di socialismo come in un’accademia neoplatonica, senza muovere foglia in ambito sociale, del proprio territorio, tra le masse. Altrimenti, non solo non si parla di socialismo e di princìpi del marxismo e del leninismo, del comunismo del ‘900, della lezione di Mao e della rivoluzione cinese, ma non si intraprende nessuna azione che sia visibile nella società. Come appunto accade in tante, troppe sezioni e circoli. E con la completa quasi assenza delle cellule sul luogo di lavoro, la discussione sul rivendicazionismo economico rischia di apparire solo una perorazione astratta: priva di efficacia, quindi.

 

In conclusione, occupare uno spazio politico non è sufficiente per dare impulso espansivo al progetto rifondativo; lo è purtroppo solo per l’autoreferenzialità del ceto politico professionalizzatosi nelle istituzioni. Questo, ad esempio, è garantito anche al Pdci di Cossutta, che, asfissiato dalla mancanza di spazio, è alla coda della coalizione dell’Ulivo per poter sopravvivere solo come ceto in funzione anti-PRC.

Questo è alla base di un’eccessiva litigiosità nei e tra i gruppi dirigenti, di base, intermedi e di vertice, che molte e troppe volte assumono forme pre-politiche e/o individualistiche e di carriera.

 

Deve sciogliersi il nodo di fondo e lo scriviamo con voluta nettezza: è necessario rifondare il Partito Comunista, non il comunismo. Chi ne ha avuto la pretesa, nella nostra recente storia, ha abbandonato poi per sempre gli stessi ideali comunisti.

Solo un partito comunista di quadri e di massa può contrastare l’americanizzazione senza fordismo della società italiana ed europea, la spettacolarizzazione della politica, quella egemone delle immagini effimere costruite dai media e lontana dai contenuti sociali, alla base della crisi della politica come partecipazione di massa ai livelli decisionali e di potere. Fenomeni non casuali, ma iscritti nel disegno di fondo delle classi dominanti italiane, che sposano la logica cosiddetta “bipartisan” per un’effettiva riduzione al pensiero unico, quello capitalista e imperialista. E che con la destra al potere, tenderà sempre più alla criminalizzazione dell’antagonismo sociale, salvo poi a ricorrere anche alla vera criminalità mafiosa per garantirsi il coatto consenso popolare, secondo leggi elettorali che, come negli USA, garantiscono ad una minoranza di ottenere la maggioranza nelle istituzioni parlamentari, irradiando controvalori come la spinta mercificazione e competitività mercantile falsamente “libera”, alla base anche della progressiva devastazione ambientale. 

E’ il complemento oggetto della rifondazione il vero nodo da sciogliere: il partito, non l’architrave complessiva del paradigma scientifico del socialismo marxista e leninista. Se questo nodo non viene chiarito, se il PRC non cura tra i compiti prioritari la formazione dei quadri e il patrimonio storico della memoria e del costante bilancio critico di essa nell’analisi di fase, quei due pilastri che ce lo consegnano quale preziosissimo bene della nostra vicenda di comunisti italiani, potranno reggere, non a questa o quella competizione elettorale, ma alla prova più dura, quella della storia?

 

NOTE

 

(1)            Nel 1898 si riunì il I Congresso del POSDR, primo tentativo, peraltro sterile, di unificare le organizzazioni socialdemocratiche marxiste in un partito, programma che si pose Lenin e a cui cercò di contribuire anche con la fondazione del giornale Iskra agli inizi del 1900. La corrente “economicista”, infatti, si era dotata di due organi di stampa abbastanza diffusi: la Rabociaia Mysl [“Il pensiero operaio”] in Russia e il Raboceie Dielo [“La causa operaia”] all’estero. Gli “economicisti” erano contrari all’autonomia organizzativa in un solo partito di classe e Lenin era fermamente convinto che per creare un partito politico unico del proletariato bisognava innanzi tutto battere questa corrente in seno al movimento operaio, perché, tra l’altro, essi affermavano che gli operai dovevano lottare solo sul terreno economico, mentre alla lotta politica doveva pensarci la borghesia liberale.

(2)            Ha scritto Michele Martelli: ”L’illusione e l’immodestia di volere ricominciare da zero, nella pretesa di poter adeguare soggettivisticamente la realtà tremenda alla propria astratta ‘purezza morale o concettuale’, di voler ‘mettere le brache al mondo’, come Gramsci diceva di Croce, si infrange purtroppo sempre contro la dura prova dei fatti. L’URSS ha col marxismo originario, ammesso che ce ne sia uno, un difficile rapporto di continuità e discontinuità, sviluppi e arretramenti, fedeltà e innovazioni che sono storicamente motivabili, e che richiedono un bilancio critico paziente, sfaccettato, aperto e, per così dire, a più voci. Hic Rhodus, hic salta! Dalla storia non si esce. Nemmeno con l'immaginazione utopica. (..) il rifiuto della propria storia è il rifiuto della propria identità.", cfr. URSS: quale bilancio?, in L'Ernesto, a.IX, nr.2, marzo/aprile 2001, pag.95.

(3)            1921-2001. Per gli ottant’anni dei comunisti in Italia e in Europa, intervista a Enzo Santarelli a cura di Fosco Giannini, sta in L’Ernesto nr.2, cit., pag. 11. Sul concetto di ‘organizzazione’, da liberare dalle secche del sociologismo borghese e da riconsegnare alla tradizione leninista e gramsciana, nonché sulla necessità di ripensare il modello organizzativo del Partito Comunista Italiano dal dopoguerra alla prima metà degli anni ’50 con la centralità della figura di Pietro Secchia, cfr. F.Dubla: Da Gramsci a Secchia – Il primato dell’organizzazione nella costruzione del Pci del dopoguerra (19451951), Quaderni dell’Archivio Secchia, 2001.


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