Ferdinando Dubla
IL COMPLEMENTO OGGETTO DELLA RIFONDAZIONE
Il
popolo della sinistra è senza partito comunista, inteso nel senso classico
consegnatoci dalla tradizione del ‘900; tutti coloro che sono impegnati in un
modo o nell’altro nella rifondazione del partito comunista in Italia,
rischiano seriamente di restare senza una prospettiva popolare.
Intendiamo per popolare la radice di massa, senza la quale si può
facilmente cadere nel velleitarismo o, nei casi peggiori, nella provocazione
avventurista. Le ragioni per le quali il luogo prioritario per la ricostruzione
di questo partito comunista per il popolo di sinistra è e resta il Partito
della Rifondazione Comunista sono principalmente (non esclusivamente) due; esso
è
-
il
portato storico diretto di un evento
(lo scioglimento del Pci nel 1991)
-
la
rappresentazione di massa dell’antagonismo anticapitalistico nel complessivo
agone politico
Sono
due elementi di uno spessore profondo, che non si possono oltrepassare dando
priorità alla questione ideologica: è Marx che ha insegnato
l’indispensabile coniugazione dialettica nella prassi, di teoria e
pratica.
Il
PRC non è nato dal nulla: è la conseguenza di un fatto storico rilevantissimo,
quale la mutazione genetico-identitaria del Partito Comunista di Gramsci e di
Togliatti. Dunque, non è un tentativo ex-novo di fondazione, ma il
deliberato proposito di ri-fondazione di una formazione politica
altrimenti destinata all’irreversibile estinzione. Il fatto poi che nel
periodo 1989-91, siano state interrotte le esperienze di transizione dei paesi
del cosiddetto ‘socialismo reale’, ha reso più urgente e non peregrino
questo compito storico.
Questo
primo elemento di analisi si raccorda dappresso al secondo: proprio in quanto risultato
storico, il processo della rifondazione ha avuto un impatto sulla rappresentazione
di massa delle formazioni politiche italiane. Nel senso, altrettanto
indubitabilmente profondo e di spessore, che il PRC è stato percepito
immediatamente, a torto o a ragione, come un raggruppamento di irriducibili
esponenti “orfani nostalgici del Pci” (da destra) e/o come “coloro che
innalzano la bandiera rossa da altri abbandonata”.
Solo
una lettura ideologizzata può negare questi due aspetti dirimenti e
concentrare la sua analisi sulle insufficienze e i limiti del PRC rispetto non
solo alla tradizione comunista italiana, ma a quella dell’intero movimento
operaio internazionale.
Ma
è lo stesso gruppo dirigente del PRC che dovrà sempre fare i conti con quegli
aspetti: e non solo dunque chi si occupa di evidenziarne le insufficienze.
Chi
infatti volesse intervenire sulla sua natura genetico-identitaria, dovrebbe
stravolgerne le funzioni storiche: lasciando così aperto uno spazio
politico destinato ad essere occupato da altri. Qualunque gruppo dirigente,
anche il più sciagurato, come noi consideriamo quello dell’allora Pci-Pds del
trapasso nel periodo 89-91 (ricordiamo lo stemma antico sotto la nuova quercia,
ad es.) è portato a valutare questa conseguenza, se non altro per la sua
autoconservazione.
Per
questo ordine di motivi, i pregi del PRC sono oggettivi e storici
e ancora superano le carenze soggettive:
-
l’occupazione di uno spazio politico di rappresentanza sociale antagonista al
sistema capitalista;
-
la preservazione di una memoria storica contro l’offensiva revisionista.
Questi
due pilastri su cui si fonda l’esistenza stessa del PRC, però, devono essere
riempiti di contenuti: cioè da una tattica legata ad una più
complessiva finalità strategica; ad un progetto sociale ampio che
sostanzi gli obiettivi immediati e intermedi; da un’analisi storica e
un bilancio critico dell’esperienza del ‘900 del movimento comunista
internazionale.
Senza
contenuti chiari, i due pilastri sono destinati storicamente a scricchiolare:
sono cioè insufficienti a garantire lo sviluppo di una formazione politica che
si vuole rivoluzionaria e finanche radicale-riformista (i due elementi nel PRC
convivono e, in questa fase storica, possono convivere). Possono cioè
garantire per un periodo più o meno lungo una tenuta, una soglia di
sopravvivenza, ma sono fragili per sostanziare un progetto connaturato
all’identità fondata storicamente: la ri-fondazione del Partito Comunista
Italiano, non solo di quadri e di avanguardie, ma di massa; nello stesso tempo
popolare e con qualità d’avanguardia.
Alcuni
esempi:
·
la deriva
a destra degli attuali DS, allarga lo spazio politico per il PRC; ma può
portarlo anche a snaturarsi per occupare uno spazio non originariamente proprio.
E’ così che negli anni il PRC ha ristretto il suo profilo ex-Pci (su cui si
è pateticamente e in modo grossolanamente strumentale fiondato il Pdci di
Cossutta e Diliberto, risultato invece di un’operazione meramente
opportunistica) e ha rafforzato il suo radicalismo neokeynesiano, che in quanto
radicalismo è tutto interno al sistema politico della borghesia e in quanto
neokeynesiano è di impatto rivendicativo immediato, ma rinunciatario della
prospettiva e dunque senza radici di classe e di massa.
Ciò rischia di piegare il PRC, senza un adeguato respiro strategico,
verso il vizio dell’economicismo, un difetto che deve essere estraneo
ad un partito comunista, come insegnò Lenin che non a caso si spese molto in
questa battaglia. (1)
Si
comprende in questo modo un’oscillazione che non è affatto inspiegabile: la
rivendicazione di un aumento delle retribuzioni, dei salari e delle pensioni, è
affidata ad una formazione politica considerata inefficace (o
relativamente tale) dalle larghe masse, cioè che non è né sindacato (che può
mobilitare con l’organizzazione della lotta sociale) né forza di governo che
può decretare e decidere in materia.
·
L’accettazione
acritica di categorie di interpretazione storico-politica come quella dello
“stalinismo”, reso sinonimo di “metodo dispotico di direzione” o
“totalitarismo egualitario”, tipici dell’apologetica borghese o di
frazioni della tradizione del movimento operaio, rende più debole la resistenza
e la controffensiva al revisionismo storico che tenta di liquidare nel senso
comune l’intero patrimonio dell’esperienza comunista. Rispetto ai nodi della
tradizione, Rifondazione sceglie l’agnosticismo, affidandosi ad analisi
differenziate di esponenti del suo gruppo dirigente. Questo lascia però un
campo desolatamente vuoto alla base e tra i militanti. (2)
La
scarsa attenzione per la formazione dei quadri, per intessere quel
reticolo fitto di materiali, riviste, seminari, strumenti, case editrici, ecc..,
che solo può motivare oggi all’agire politico in una formazione
comunista, è uno dei limiti più gravi del PRC. E’ così che si spiega
l’impressionante turn-over nel tesseramento: e non solo. E’ così che si
spiega l’inattività passiva in molti circoli. I giovani vengono affascinati
dall’ideale comunista: possono allontanarsi dall’impegno politico quando non
capiscono più il nesso fra il quotidiano, il contingente e i valori, le idee
della prospettiva socialista.
E
ugualmente avviene tra i movimenti: il “popolo di Seattle” è mosso da un
istinto anticapitalista e da una resistenza fisiologica ai processi della
globalizzazione liberista. Ma il movimento non ha e non avrà sbocchi senza la
guida della classe operaia, del proletariato vecchio e nuovo e del partito
comunista che deve rappresentarne gli interessi di potere e non solo di
rivendicazione. Come ha recentemente dichiarato lo storico Enzo Santarelli il
partito “è il tramite organizzativo col quale il proletariato si libera
dal ‘destino’ predeterminato ed incide consapevolmente sui processi storici.
(..) Non è, chiaramente, dal principio dell’organizzazione che possono essere
dipese le involuzioni burocratiche e, infine, sul piano strategico, moderate di
alcuni partiti comunisti. Una delle molteplici cause potrebbe essere piuttosto
rappresentata dall’abbandono stesso della concezione leninista-gramsciana del
partito comunista costruito essenzialmente nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro
e del conflitto capitale/lavoro.” (3) E’ appunto Antonio Gramsci che,
mutuando in pieno la lezione leninista, individua nel Partito Comunista, nella
sua autonomia progettuale, il soggetto in grado di rompere con il determinismo,
di aprire contraddizioni rivoluzionarie, di rovesciare i rapporti di forza e
tendere all’egemonia.
Discutere
di partito e di quale partito; discutere di socialismo e di quale socialismo non
è mera esercitazione retorica nelle sezioni: lo sarebbe se si parlasse solo
di socialismo come in un’accademia neoplatonica, senza muovere foglia in
ambito sociale, del proprio territorio, tra le masse. Altrimenti, non solo non
si parla di socialismo e di princìpi del marxismo e del leninismo, del
comunismo del ‘900, della lezione di Mao e della rivoluzione cinese, ma non si
intraprende nessuna azione che sia visibile nella società. Come appunto accade
in tante, troppe sezioni e circoli. E con la completa quasi assenza delle
cellule sul luogo di lavoro, la discussione sul rivendicazionismo economico
rischia di apparire solo una perorazione astratta: priva di efficacia, quindi.
In
conclusione, occupare uno spazio politico non è sufficiente per dare impulso
espansivo al progetto rifondativo; lo è purtroppo solo per l’autoreferenzialità
del ceto politico professionalizzatosi nelle istituzioni. Questo, ad esempio, è
garantito anche al Pdci di Cossutta, che, asfissiato dalla mancanza di spazio,
è alla coda della coalizione dell’Ulivo per poter sopravvivere solo come ceto
in funzione anti-PRC.
Questo
è alla base di un’eccessiva litigiosità nei e tra i gruppi
dirigenti, di base, intermedi e di vertice, che molte e troppe volte assumono
forme pre-politiche e/o individualistiche e di carriera.
Deve
sciogliersi il nodo di fondo e lo scriviamo con voluta nettezza: è necessario
rifondare il Partito Comunista, non il comunismo. Chi ne ha avuto la pretesa,
nella nostra recente storia, ha abbandonato poi per sempre gli stessi ideali
comunisti.
Solo
un partito comunista di quadri e di massa può contrastare l’americanizzazione
senza fordismo della società italiana ed europea, la spettacolarizzazione della
politica, quella egemone delle immagini effimere costruite dai media e lontana
dai contenuti sociali, alla base della crisi della politica come partecipazione
di massa ai livelli decisionali e di potere. Fenomeni non casuali, ma iscritti
nel disegno di fondo delle classi dominanti italiane, che sposano la logica
cosiddetta “bipartisan” per un’effettiva riduzione al pensiero unico,
quello capitalista e imperialista. E che con la destra al potere, tenderà
sempre più alla criminalizzazione dell’antagonismo sociale, salvo poi a
ricorrere anche alla vera criminalità mafiosa per garantirsi il coatto consenso
popolare, secondo leggi elettorali che, come negli USA, garantiscono ad una
minoranza di ottenere la maggioranza nelle istituzioni parlamentari, irradiando
controvalori come la spinta mercificazione e competitività mercantile
falsamente “libera”, alla base anche della progressiva devastazione
ambientale.
E’
il complemento oggetto della rifondazione il vero nodo da sciogliere: il
partito, non l’architrave complessiva del paradigma scientifico del
socialismo marxista e leninista. Se questo nodo non viene chiarito, se il PRC
non cura tra i compiti prioritari la formazione dei quadri e il patrimonio
storico della memoria e del costante bilancio critico di essa nell’analisi
di fase, quei due pilastri che ce lo consegnano quale preziosissimo bene
della nostra vicenda di comunisti italiani, potranno reggere, non a questa o
quella competizione elettorale, ma alla prova più dura, quella della storia?
NOTE
(1)
Nel 1898 si riunì il I Congresso del POSDR, primo tentativo, peraltro
sterile, di unificare le organizzazioni socialdemocratiche marxiste in un
partito, programma che si pose Lenin e a cui cercò di contribuire anche con la
fondazione del giornale Iskra agli inizi del 1900. La corrente “economicista”,
infatti, si era dotata di due organi di stampa abbastanza diffusi: la Rabociaia
Mysl [“Il pensiero operaio”] in Russia e il Raboceie Dielo [“La
causa operaia”] all’estero. Gli “economicisti” erano contrari
all’autonomia organizzativa in un solo partito di classe e Lenin era
fermamente convinto che per creare un partito politico unico del proletariato
bisognava innanzi tutto battere questa corrente in seno al movimento operaio,
perché, tra l’altro, essi affermavano che gli operai dovevano lottare solo
sul terreno economico, mentre alla lotta politica doveva pensarci la borghesia
liberale.
(2)
Ha scritto
Michele Martelli: ”L’illusione e l’immodestia di volere ricominciare da
zero, nella pretesa di poter adeguare soggettivisticamente la realtà tremenda
alla propria astratta ‘purezza morale o concettuale’, di voler ‘mettere le
brache al mondo’, come Gramsci diceva di Croce, si infrange purtroppo sempre
contro la dura prova dei fatti. L’URSS ha col marxismo originario, ammesso che
ce ne sia uno, un difficile rapporto di continuità e discontinuità, sviluppi e
arretramenti, fedeltà e innovazioni che sono storicamente motivabili, e che
richiedono un bilancio critico paziente, sfaccettato, aperto e, per così dire,
a più voci. Hic
Rhodus, hic salta! Dalla
storia non si esce. Nemmeno con l'immaginazione utopica. (..) il rifiuto della
propria storia è il rifiuto della propria identità.",
cfr. URSS: quale bilancio?, in L'Ernesto, a.IX, nr.2, marzo/aprile
2001, pag.95.
(3)
1921-2001.
Per gli ottant’anni dei comunisti in Italia e in Europa,
intervista a Enzo Santarelli a cura di Fosco Giannini, sta in L’Ernesto
nr.2, cit., pag. 11. Sul concetto di ‘organizzazione’, da liberare
dalle secche del sociologismo borghese e da riconsegnare alla tradizione
leninista e gramsciana, nonché sulla necessità di ripensare il modello
organizzativo del Partito Comunista Italiano dal dopoguerra alla prima metà
degli anni ’50 con la centralità della figura di Pietro Secchia, cfr. F.Dubla:
Da Gramsci a Secchia – Il primato dell’organizzazione nella costruzione
del Pci del dopoguerra (19451951), Quaderni dell’Archivio Secchia, 2001.
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