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nr.3 - nuova serie - ottobre 2001

K.S. Karol

LA PALUDE DI KABUL

La Cia ha armato contro l'Urss la bomba del fondamentalismo islamico senza prevedere che un giorno essa sarebbe potuta esplodere dappertutto, in Bosnia, nel Kashmir, in Albania, in Cecenia e perfino a New York


Vladimir Putin ha suscitato un grande applauso dal Bundestag pronunciando in tedesco il suo discorso in omaggio alla ritrovata grandezza della Germania, ma ha registrato un successo ancora più grande convincendo il cancelliere Schröder a cambiare atteggiamento nei confronti della Cecenia. Il presidente russo ha saputo servirsi dell'emozione suscitata dagli attentati terroristici negli Stati Uniti, per insistere sul fatto che anch'egli si batte contro la stessa internazionale islamica e non già contro la libertà di un piccolo popolo ribelle.
Non conosciamo il testo delle conversazioni, ma Gerhard Schröder vi è stato sensibile. Pochi giorni dopo, l'ambasciatore americano a Mosca prometteva, in un'intervista a un giornale russo, che gli Stati Uniti avrebbero ormai fatto il necessario per metter fine al finanziamento illegale dei wakhabiti ceceni. Per coloro che conoscono la storia della guerra sovietica in Afganistan, un'alleanza russo-americana contro gli islamisti sembra davvero una svolta storica.
Il mondo non dava molta attenzione all'Afghanistan, grosso paese asiatico, più grande della Francia, retto da una monarchia e sul quale l'Unione Sovietica, sua vicina settentrionale, godeva sempre di una certa influenza: è l'Urss che ha costruito l'aereoporto di Kabul e il tunnel di Salang verso il nord. Ma nel 1973, quella monarchia cadeva sotto il peso della sua corruzione e subentrava al suo posto il principe Mohammed Daud, che proclamava la repubblica. Cinque anni dopo, nell'aprile 1978, vinceva le elezioni il Partito democratico del popolo afgano (Pdpa) di tendenza filosovietica. Benché diviso in due fronti difficili da mettere d'accordo, il Pdpa aveva una base sociale abbastanza solida nell'esercito, fra gli ufficiali nazionalisti, presso gli intellettuali e in una piccola borghesia emergente che pareva sensibile alle sue parole d'ordine sulla riforma agraria e sull'alfabetizzazione di tutti i giovani, incluse le ragazze. Certo già allora, i principali movimenti islamici accusavano il governo di essere "comunista e antireligioso", ma il nuovo presidente Nur Mohammed Taraki non si sentiva in pericolo. Nel settembre 1979 faceva anzi un largo viaggio che lo portava fino a L'Avana e poi a Mosca, dove Leonid Breznev lo riceveva in gran pompa. Senonché appena tornato a Kabul il 16 settembre 1979, il suo primo ministro Hazfizullah Amin lo abbatteva e si dichiarava capo di stato. Per i sovietici fu una pillola difficile da ingoiare ma all'inizio fecero buon viso a cattiva sorte e dichiararono il loro appoggio al regime di Amin. Tre mesi dopo però, il 27 dicembre 1979, mandavano un contingente limitato dell'esercito a Kabul, e il distaccamento speciale Alpha, che occupava il palazzo presidenziale, giustiziava Amin e installava al suo posto Babrak Karmal, di origine aristocratica e già vice primo ministro.
Nel mondo l'indignazione salì al colmo. Era una nuova Cecoslovacchia, e si denunciò dovunque l'abitudine di Leonid Breznev di invadere i paesi adiacenti. Diciannove anni dopo, Zbignew Brzezinski, allora Segretario del consiglio di sicurezza del presidente Jimmy Carter, avrebbe affermato che la Cia "era entrata in Afghanistan prima dei russi" e che aveva informato il presidente: "abbiamo adesso l'occasione di dare all'Unione Sovietica la sua guerra nel Vietnam"(1). Tuttavia questa confessione sembra piuttosto una vanteria, perché nessun gruppo sostenuto dagli americani aveva allora la possibilità di prendere il potere a Kabul.

Quel che è vero, tuttavia, è che l'Urss faticò grandemente a colpire il nemico e persino a trovarlo, perché dopo aver teso imboscate mortali, esso scompariva. "Quaranta missili contro un villaggio facevano molti morti e un numero ancora maggiore di rifugiati, ma non bastava a creare una linea del fronte", si ricorda un generale russo nel film di Evgueni Kisselev del 1999, nel decimo anniversario della guerra perduta in Afghanistan. I militari e i diplomatici si ricordano che i marescialli moscoviti, veterani della seconda guerra mondiale, non riuscivano a capire la specificità di quel conflitto e moltiplicavano l'ordine di nuove offensive. Nel complesso 620.000 soldati e ufficiali sovietici avrebbero attraversato i paesaggi aridi delle terre afgane, il contingente oscillando da 35.000 a 104.000 persone, secondo i periodi. Nei dieci anni che durò la guerra l'esercito sovietico avrebbe perduto circa 14.000 uomini. "Il nostro più grande errore - sostiene il generale Valentin Varennikov, già comandante dei paracadutisti - è stato di non metterci cento o mille uomini di più e chiudere la frontiera con il Pakistan".
Intanto a Kabul, Babrak Karmal presentava la nuova bandiera del paese: nera, rossa, verde, la stessa di prima della "rivoluzione" e moltiplicava gli appelli ai mullahs perché si schierassero col suo regime. Metteva in gran mostra quella parte dei contadini che aveva beneficiato della sua riforma agraria e cantava le lodi del suo regime, mentre dalla parte opposta denunciava i mujahiddin, "selvaggi" che bruciavano gli edifici scolastici. Gli ufficiali russi non avevano stima per Karmal, colto ma pigro, che non rinunciava alla siesta neanche nelle situazioni più difficili: Karmal eseguiva i loro ordini senza nessuna obiezione ma non prendeva alcuna iniziativa militare, come se quella fosse una guerra dei russi, non la sua.

Poco a poco i comandanti regionali finirono col concludere delle tregue con i mujaiddin, compreso Massud, più meno o rispettati, e lasciarono al paese di vivere la sua vita, ragione per cui diventò abbastanza facile per i giornalisti occidentali viaggiare in Afghanistan e riportarne le loro impressioni. Denunciavano la brutalità dell'attacco iniziale russo, che avrebbe spinto milioni di afgani a cercare rifugio in Pakistan e nell'Iran, ma deploravano l'incapacità dei mujaiddin a unificarsi e darsi una qualsiasi rappresentanza politica. Fin dal 1982 alcuni reportage riferivano con allarme della presenza dei pachistani in Afghanistan e del sorgere di un fondamentalismo alla bin Laden. Come segnala ora Robert Fisck, giornalista di The Independent, l'ordine era chiamare tutti i guerriglieri afgani "combattenti della libertà". Ma poco a poco diverse ong, come Medici senza frontiere, ai quali era vietato di curare le donne, decidevano di ritirarsi dal paese.

Il successore di Leonid Breznev, Yuri Andropov, andò a Kabul per rendersi conto della situazione, cosa per cui gli si rende ancora oggi un grande omaggio perché nessun alto dirigente dell'Urss, né prima né dopo di lui, s'era degnato di fare quel viaggio. Sotto i suoi auspici cominciarono al Palazzo delle Nazioni di Ginevra i colloqui indiretti afgano-pachistani che non approdarono però a niente. Poi, dopo il breve intermezzo di Constantin Cernienko, salì al Cremlino Mikhail Gorbaciov e il dossier afgano ricominciò a muoversi. Babrak Karmal fu licenziato e al suo posto arrivò Mahomed Najibullah, soprannominato "la levatrice" perché sarebbe stato, da giovane, studente in medicina.
Di quell'uomo corpulento i russi si lodavano molto: aveva proclamato l'amnistia per i prigionieri mujaiddin, riservato un terzo dei ministeri per i mullah moderati e un altro terzo per i rifugiati afgani in Europa. Le cose parevano mettersi bene. "Noi non eravamo in grado di controllare che il 20 per cento del territorio, mentre Najibullah è riuscito a controllarne l'80 per cento" - racconta un veterano russo della guerra in Afghanistan.
Infine, dopo averlo incontrato a Taskent, Mickail Gorbaciov decise di ritirare le truppe sovietiche per tappe, dopo aver firmato un accordo con gli americani sulla non assistenza ai ribelli afgani. Nel 1988 questo ritiro delle truppe è cominciato.
Quanto sarebbe sopravvissuto il regime di Najibullah senza l'appoggio del potente vicino del nord? A Kabul gli si davano da due ore a un massimo di cinque giorni. Ma Najibullah ha tenuto più di tre anni ed è stato rovesciato soltanto nell'aprile 1992. Di più, la sua caduta è dovuta al rifiuto di Boris Eltsin, nuovo presidente della Russia, di vendergli (neppure di dargli gratis) i carburanti necessari al regime afgano per difendersi. "E' stato un delitto", dicono i veterani della guerra in Afghanistan.
Dopo quattro anni di guerra civile, nel 1996 furono i talebani a prendere il potere a Kabul e quasi tutto il paese. Impiccarono subito Najibullah senza alcuna procedura giudiziaria. Era la vittoria di Bin Laden e dei centomila "pazzi d'Allah" che era riuscito ad attirare per la guerra santa. Ma era davvero una sorpresa? Mi limiterò a ricordare soltanto l'articolo di Pierre Blanché, reporter del Nouvel Observateur, che sarebbe poi caduto in Bosnia, scritto il 30 marzo 1989: "Sauditi, kuwaitiani, sudanesi, qualche palestinese, sono in molte centinaia a partecipare alla Jihad dalle parti di Jalalabad. Più integralisti degli integralisti, si fanno chiamare 'fratello' dagli afgani e dicono che fra poco avremo il governo islamico del mondo intero. Sono temuti, odiati, ma tollerati dagli afgani che si sentono obbligati verso di loro".
La Cia aveva armato contro l'Urss la bomba del fondamentalismo islamico senza prevedere che un giorno essa sarebbe potuta esplodere dappertutto, in Bosnia, nel Kashmir, in Albania, in Cecenia e perfino a New York.


(1) Cfr. Nouvel Observateur, 15/1/1998

K.S. Karol

da Il Manifesto del 2 ottobre 2001


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