K.S. Karol
LA PALUDE DI KABUL
La Cia ha armato contro l'Urss la bomba del fondamentalismo islamico senza prevedere che un giorno essa sarebbe potuta esplodere dappertutto, in Bosnia, nel Kashmir, in Albania, in Cecenia e perfino a New York
Vladimir Putin ha
suscitato un grande applauso dal Bundestag pronunciando in tedesco il suo
discorso in omaggio alla ritrovata grandezza della Germania, ma ha registrato un
successo ancora più grande convincendo il cancelliere Schröder a cambiare
atteggiamento nei confronti della Cecenia. Il presidente russo ha saputo
servirsi dell'emozione suscitata dagli attentati terroristici negli Stati Uniti,
per insistere sul fatto che anch'egli si batte contro la stessa internazionale
islamica e non già contro la libertà di un piccolo popolo ribelle.
Non conosciamo il testo delle conversazioni, ma Gerhard Schröder vi è stato
sensibile. Pochi giorni dopo, l'ambasciatore americano a Mosca prometteva, in
un'intervista a un giornale russo, che gli Stati Uniti avrebbero ormai fatto il
necessario per metter fine al finanziamento illegale dei wakhabiti ceceni.
Per coloro che conoscono la storia della guerra sovietica in Afganistan,
un'alleanza russo-americana contro gli islamisti sembra davvero una svolta
storica.
Il mondo non dava molta attenzione all'Afghanistan, grosso paese asiatico, più
grande della Francia, retto da una monarchia e sul quale l'Unione Sovietica, sua
vicina settentrionale, godeva sempre di una certa influenza: è l'Urss che ha
costruito l'aereoporto di Kabul e il tunnel di Salang verso il nord. Ma nel
1973, quella monarchia cadeva sotto il peso della sua corruzione e subentrava al
suo posto il principe Mohammed Daud, che proclamava la repubblica. Cinque anni
dopo, nell'aprile 1978, vinceva le elezioni il Partito democratico del popolo
afgano (Pdpa) di tendenza filosovietica. Benché diviso in due fronti difficili
da mettere d'accordo, il Pdpa aveva una base sociale abbastanza solida
nell'esercito, fra gli ufficiali nazionalisti, presso gli intellettuali e in una
piccola borghesia emergente che pareva sensibile alle sue parole d'ordine sulla
riforma agraria e sull'alfabetizzazione di tutti i giovani, incluse le ragazze.
Certo già allora, i principali movimenti islamici accusavano il governo di
essere "comunista e antireligioso", ma il nuovo presidente Nur
Mohammed Taraki non si sentiva in pericolo. Nel settembre 1979 faceva anzi un
largo viaggio che lo portava fino a L'Avana e poi a Mosca, dove Leonid Breznev
lo riceveva in gran pompa. Senonché appena tornato a Kabul il 16 settembre
1979, il suo primo ministro Hazfizullah Amin lo abbatteva e si dichiarava capo
di stato. Per i sovietici fu una pillola difficile da ingoiare ma all'inizio
fecero buon viso a cattiva sorte e dichiararono il loro appoggio al regime di
Amin. Tre mesi dopo però, il 27 dicembre 1979, mandavano un contingente
limitato dell'esercito a Kabul, e il distaccamento speciale Alpha, che occupava
il palazzo presidenziale, giustiziava Amin e installava al suo posto Babrak
Karmal, di origine aristocratica e già vice primo ministro.
Nel mondo l'indignazione salì al colmo. Era una nuova Cecoslovacchia, e si
denunciò dovunque l'abitudine di Leonid Breznev di invadere i paesi adiacenti.
Diciannove anni dopo, Zbignew Brzezinski, allora Segretario del consiglio di
sicurezza del presidente Jimmy Carter, avrebbe affermato che la Cia "era
entrata in Afghanistan prima dei russi" e che aveva informato il
presidente: "abbiamo adesso l'occasione di dare all'Unione Sovietica la sua
guerra nel Vietnam"(1). Tuttavia questa confessione sembra piuttosto una
vanteria, perché nessun gruppo sostenuto dagli americani aveva allora la
possibilità di prendere il potere a Kabul.
Nemico inafferrabile
Intanto a Kabul, Babrak Karmal presentava la nuova bandiera del paese: nera,
rossa, verde, la stessa di prima della "rivoluzione" e moltiplicava
gli appelli ai mullahs perché si schierassero col suo regime. Metteva in gran
mostra quella parte dei contadini che aveva beneficiato della sua riforma
agraria e cantava le lodi del suo regime, mentre dalla parte opposta denunciava
i mujahiddin, "selvaggi" che bruciavano gli edifici scolastici. Gli
ufficiali russi non avevano stima per Karmal, colto ma pigro, che non rinunciava
alla siesta neanche nelle situazioni più difficili: Karmal eseguiva i loro
ordini senza nessuna obiezione ma non prendeva alcuna iniziativa militare, come
se quella fosse una guerra dei russi, non la sua.
Sovietici impantanati
Disimpegno russo
Di quell'uomo corpulento i russi si lodavano molto: aveva proclamato l'amnistia
per i prigionieri mujaiddin, riservato un terzo dei ministeri per i mullah
moderati e un altro terzo per i rifugiati afgani in Europa. Le cose parevano
mettersi bene. "Noi non eravamo in grado di controllare che il 20 per cento
del territorio, mentre Najibullah è riuscito a controllarne l'80 per
cento" - racconta un veterano russo della guerra in Afghanistan.
Infine, dopo averlo incontrato a Taskent, Mickail Gorbaciov decise di ritirare
le truppe sovietiche per tappe, dopo aver firmato un accordo con gli americani
sulla non assistenza ai ribelli afgani. Nel 1988 questo ritiro delle truppe è
cominciato.
Quanto sarebbe sopravvissuto il regime di Najibullah senza l'appoggio del
potente vicino del nord? A Kabul gli si davano da due ore a un massimo di cinque
giorni. Ma Najibullah ha tenuto più di tre anni ed è stato rovesciato soltanto
nell'aprile 1992. Di più, la sua caduta è dovuta al rifiuto di Boris Eltsin,
nuovo presidente della Russia, di vendergli (neppure di dargli gratis) i
carburanti necessari al regime afgano per difendersi. "E' stato un
delitto", dicono i veterani della guerra in Afghanistan.
Dopo quattro anni di guerra civile, nel 1996 furono i talebani a prendere il
potere a Kabul e quasi tutto il paese. Impiccarono subito Najibullah senza
alcuna procedura giudiziaria. Era la vittoria di Bin Laden e dei centomila
"pazzi d'Allah" che era riuscito ad attirare per la guerra santa. Ma
era davvero una sorpresa? Mi limiterò a ricordare soltanto l'articolo di Pierre
Blanché, reporter del Nouvel Observateur, che sarebbe poi caduto in
Bosnia, scritto il 30 marzo 1989: "Sauditi, kuwaitiani, sudanesi, qualche
palestinese, sono in molte centinaia a partecipare alla Jihad dalle parti di
Jalalabad. Più integralisti degli integralisti, si fanno chiamare 'fratello'
dagli afgani e dicono che fra poco avremo il governo islamico del mondo intero.
Sono temuti, odiati, ma tollerati dagli afgani che si sentono obbligati verso di
loro".
La Cia aveva armato contro l'Urss la bomba del fondamentalismo islamico senza
prevedere che un giorno essa sarebbe potuta esplodere dappertutto, in Bosnia,
nel Kashmir, in Albania, in Cecenia e perfino a New York.
(1) Cfr. Nouvel Observateur, 15/1/1998
K.S. Karol
da Il Manifesto del 2 ottobre 2001
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