1)
Lo scenario politico determinatosi a seguito dell’attentato di New York
dello scorso 11 settembre richiede - se non proprio un radicale mutamento
- quanto meno un immediato aggiornamento dell’analisi di fase e
un’urgente ridislocazione delle priorità della nostra iniziativa. In
questo preciso senso quel drammatico episodio può essere considerato uno
spartiacque. Non sarebbe tuttavia lecito assumere l’atteggiamento di chi
sia passato all’improvviso dal sogno all’incubo, non si può cioè
sostenere che il carattere della tragicità non fosse già ampiamente
presente nella storia dell’ultimo decennio del pianeta. Da tempo - e
direi sin dall’inizio - avevamo capito che il mondo del dopo ’89 era
ben diverso da quello che l’agiografia di regime andava dipingendo: un
mondo pacificato e votato alle “magnifiche sorti e progressive” del
capitalismo trionfante.
Del cosiddetto “equilibrio del terrore” dei tempi della guerra fredda
è scomparso l’equilibrio (a tutto vantaggio della potenza a stelle e
strisce) ed è rimasto il terrore. Come altro dovremmo chiamare la
disperazione di quella vasta parte della popolazione mondiale che vive con
meno di un dollaro al giorno, che non ha acqua potabile, che non conosce
l’elettricità o il telefono (per non parlare di Internet!) e che vede
ogni giorno aumentare la distanza che la separa dal cosiddetto mondo
ricco. E come dovremmo chiamare la catastrofe umana ed ambientale
cinicamente prodotta dalle ricorrenti incursioni belliche
“umanitarie”, dagli embarghi che hanno continuato a mietere vittime -
a decine di migliaia - tra popolazioni civili inermi. In verità, siamo
stati sempre di più accerchiati, cinti d’assedio dal terrore (della
fame e della sete, dello sfruttamento di uomini e risorse, della guerra):
non può sorprendere più di tanto che, in un mondo siffatto, la
cittadella dell’Occidente capitalistico non abbia potuto conservare il
privilegio dell’invulnerabilità. Bisogna fare i conti con i fatti,
anche se si tratta di fatti spiacevoli. Il terrore ci aveva sfiorato (noi
italiani abbiamo la Jugoslavia a qualche centinaio di chilometri dalle
nostre coste), ma non aveva colpito al cuore dell’immaginario
collettivo: e, volenti o nolenti, New York rappresenta oggi il cuore del
mondo occidentale, dell’organizzazione economica e sociale in cui siamo
immersi. Qualcosa si è rotto nell’usuale percezione quotidiana di
americani ed europei: questa, certamente, è una consistente novità.
2) E’ essenziale fare chiarezza sulla natura, sulle responsabilità,
sugli effetti di quegli attentati. Sulla loro natura non possono esservi
incertezze: si tratta di terrorismo, di strategia del terrore, non dunque
di un atto di guerra: le dimensioni enormi del fatto non cambiano il
giudizio. Gli esecutori agiscono nell’ombra, con la precisione mirata di
organizzazioni potenti e ramificate, piuttosto che con la forza d’urto
di armate regolari; non vi sono rivendicazioni, dichiarazioni di guerra,
esplicito coinvolgimento di stati. Qualunque ricorso al terrorismo va
fermamente condannato in sé, per le vittime innocenti che causa, perché
nulla di buono può derivare da una pratica di sterminio.
Proprio la peculiarità delle caratteristiche anzidette dovrebbe indurre a
ragionare sull’attribuzione delle responsabilità senza semplificazioni
e con grandi cautele, vagliando attentamente i dati disponibili e
affidandosi a solide deduzioni. L’ establishment Usa e il suo presidente
hanno preferito enfatizzare l’emozione popolare, esprimendosi
immediatamente in termini di “rappresaglia” e di “guerra
duratura”. Si tratta di una reazione irresponsabile: l’individuazione
degli autori di un attentato e l’adozione contestuale di misure atte ad
evitarne di nuovi non possono equivalere allo scatenamento di un
conflitto, di cui sarebbe oggi impossibile definire le dimensioni e i
confini. Ciò servirebbe solo ad innestare una spirale di ritorsioni
(belliche e terroristiche) e ad alimentare la base di consenso del
terrorismo stesso: non era forse questo già nei piani di chi ha
architettato l’attentato? Con una rapidità che sorprendentemente è
mancata nell’azione di prevenzione e contrasto, il dito è stato puntato
sull’Afghanistan dei Talebani e in particolare su Bin Laden, rampollo
della borghesia saudita, capo di un vero e proprio impero finanziario e
punto di riferimento di un’efficientissima rete terroristica
antioccidentale: non tuttavia un fungo nato all’improvviso, se è vero
che questo personaggio, oggi caduto in disgrazia, è stato per anni
protetto e finanziato dalla Cia.
In proposito, conviene fare un paio di considerazioni. In primo luogo, vi
sono buone ragioni - osserva ad esempio Giulietto Chiesa - per escludere
il coinvolgimento di interi stati ed altrettante buone ragioni per
ipotizzare una complessa e vasta articolazione organizzativa: pezzi di
servizi segreti, singoli gruppi strutturati, persone singole più o meno
facoltose – tutti quanti mossi da interessi antiamericani, ma non certo
anticapitalistici: la torta è ricca ed è per pochi, ma nuovi commensali
cercano un posto a tavola. In secondo luogo, va ribadito – come
recentemente ha fatto con forza Rossana Rossanda – che Bin Laden non è
l’Islam, né tanto meno le masse arabe: c’è differenza tra un
“dannato della terra” mediorientale (che sia profugo afgano,
disoccupato palestinese o bambino iracheno) e un plurimiliardario arabo.
Anche per questo noi comunisti (in sintonia con la Costituzione italiana)
ripudiamo la guerra.
3) Considerando poi gli effetti a breve e media scadenza di questa
vicenda, entriamo direttamente nel vivo dei nostri compiti politici. La
“chiamata alle armi” di Bush costituisce un’accelerazione di un
imponente processo di riarmo (convenzionale e non convenzionale) già in
atto. L’attuale amministrazione americana sin dal suo insediamento aveva
già dato inequivocabili e gravi segnali in questa direzione. Ma ciò è
in sintonia con la strategia Usa inaugurata all’indomani della caduta
del muro di Berlino. Basta andare a rivedere la direttiva National
Security Strategy of the United States del ’91 (pubblicata pochi mesi
dopo la guerra del Golfo) e il documento strategico Defense Planning
Guidance del 1992, nei quali è formulato a chiare lettere l’obiettivo
prioritario da perseguire all’alba del nuovo millennio: il mantenimento
della propria leadership mondiale e la destabilizzazione di qualsiasi
potenziale concorrente. Come è ovvio, tale orientamento riguarda
principalmente l’ambito in cui gli Usa hanno conseguito – e intendono
conservare - una schiacciante supremazia: quello militare. Russia e Cina,
ma anche Germania e Giappone, sono dunque da tempo avvertiti. Tutto ciò
spiega il progressivo posizionamento della potenza militare americana
attorno al continente eurasiatico: dalla Turchia ai Balcani - e, domani,
fino all’Afghanistan - è andato formandosi il cordone “sanitario” a
difesa degli interessi, della sicurezza, del tenore di vita statunitense
nel mondo: le incursioni belliche nascondono, dietro il paravento dell’
“etica”, la logica imperialista della grande potenza. Ecco perché
oggi – a maggior ragione davanti agli ultimi tragici eventi e al levarsi
dei venti di guerra da essi indotto – va posta con urgenza all’ordine
del giorno la parola d’ordine della pace.
I preparativi di guerra, la loro enfatizzazione mediatica, il clima di
diffusa apprensione che ad essi si accompagna (e, ovviamente, il
terrorismo) condensano drammaticamente tutta la gamma di componenti
regressive già presenti nelle politiche istituzionali e socio-economiche
dei principali stati occidentali. La storia ci dice che, in simili
frangenti, le maglie del controllo sociale e della repressione si fanno più
serrate, restringendo gli spazi di democrazia e inibendo le aspirazioni di
libertà e giustizia sociale delle giovani generazioni, le battaglie delle
grandi masse per i diritti, per il lavoro, per più degni livelli di vita.
Da questo punto di vista, è del tutto evidente che gli attentati di New
York e Washington tendono a favorire un clima di generale restaurazione, a
indurre nell’opinione pubblica un riflesso d’ordine: forzano cioè gli
eventi ad andare in una direzione opposta a quella intrapresa con il
ritorno delle mobilitazioni operaie ed antiglobalizzazione. Non dobbiamo
permettere che tale reazione abbia successo: per questo è necessario che
attorno all’obiettivo della pace si raccolga il più ampio fronte di
lotta. In Italia, le risorse sprigionate dalla manifestazione di Genova (e
da quelle dei giorni immediatamente successivi) nonchè la ritrovata
capacità di mobilitazione delle nuove generazioni di lavoratori
metalmeccanici possono costituire il motore di una più generale
iniziativa di massa contro ogni disegno bellico.
A questo il nostro partito deve lavorare con grande determinazione,
favorendo dall’interno del movimento il massimo di aggregazione
possibile, cercando di valorizzare il momento della partecipazione,
contribuendo a costruire i fili che connettono generazioni diverse,
settori sociali diversi, ispirazioni politiche diverse. Ciascuno con la
sua diversità, uniti contro la guerra.
|
|