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nr.4 - nuova serie - gennaio 2002

Alberto Burgio

SULLE TESI L'OMBRA DI TONI NEGRI

Intervento sulla Tribuna congressuale del PRC

 

L’argomento esposto nella tesi 14 è a dir poco ambiguo: il titolo parla di «superamento della nozione classica di imperialismo» ma il corpo della tesi propugna l’archiviazione del concetto, non il suo aggiornamento. I suoi sostenitori motivano tale posizione affermando che «oggi le condizioni sono radicalmente mutate» rispetto alla «prima parte del secolo scorso». E’ un ragionamento bizzarro: la realtà è sempre in movimento; i processi analizzati attraverso l’idea di imperialismo sono molteplici; la discussione nella quale sono via via intervenuti Kautsky, Lenin, Luxemburg, Hilferding e, nel secondo dopoguerra, Leontev, Dobb, Sweezy e Kemp registra un ampio spettro di posizioni. D’altra parte, è sorprendente che la rinuncia alla categoria di imperialismo venga auspicata proprio nel momento in cui – a giudizio di sempre più numerosi analisti – il mix tra organizzazione regionalistica dell’economia mondiale e competizione internazionale per l’egemonia economica e politica rende «necessario riprendere la categoria di imperialismo per ritagliare, all’interno del mondo uniformato propostoci dagli apologeti della globalizzazione, la presenza differenziata di forze propulsive, dinamiche spesso portatrici di instabilità economica e politica» (Tiberi).
La coincidenza autorizza il sospetto che la cancellazione dell’idea di imperialismo sia per gli estensori delle tesi un valore in sé, non il risultato di un’analisi spregiudicata. Da una parte, difatti, essa consente di relegare Lenin nella galleria degli antenati. Dall’altra, permette di inscrivere le tesi congressuali entro uno schema teorico fondato, per l’appunto, sull’assunto dell’esaurimento dei conflitti interimperialistici conseguente, a sua volta, al presunto superamento della dimensione statuale del comando politico. Come diversi osservatori vengono da più parti sottolineando, «l’intero armamentario concettuale delle tesi» (Cavallaro) appare infatti fedelmente mutuato dalle posizioni di Toni Negri, posizioni molto discutibili proprio per tali loro assunti fondamentali, se è vero che la guerra in Afghanistan, il conflitto israelo-palestinese e quello tra India e Pakistan, lo stesso scontro politico in atto nell’Unione Europea – per limitarsi a pochi esempi – dimostrano la durevole vitalità degli Stati come protagonisti della scena politica mondiale.
Le tesi congressuali ricalcano le posizioni di Negri anche sui temi del lavoro e del «nuovo capitalismo». Di qui l’accento sul cosiddetto «lavoro immateriale» e l’idea della «diretta sussunzione» della vita al capitale (tesi 5). Ne conseguono due seri limiti: una scarsa attenzione al conflitto tra capitale e lavoro dipendente (nelle sue forme tradizionali e atipiche) e quindi al tema della ricomposizione delle aree sociali sottoposte allo sfruttamento; una grave incertezza nella individuazione dei referenti sociali dell’intervento politico del partito in vista della elaborazione di soggettività di classe.
Derivano da qui conseguenze negative anche sulla parte più solida del documento congressuale, quella dedicata al «movimento dei movimenti». L’ispirazione spontaneistica tipica dell’approccio operaista induce una tendenziale sottovalutazione di questioni cruciali: il rapporto tra il partito e le organizzazioni sindacali; il rapporto con le realtà sociali prive di rappresentanza per effetto della crisi di credibilità della sinistra moderata; il rapporto con i soggetti politici alternativi alle destre, senza i quali nessuna ipotesi di rovesciamento degli attuali equilibri politici nel paese potrebbe acquisire concretezza; il rapporto con gli stessi movimenti, che – “indeboliti dall’offensiva reazionaria dei governi seguita all’11 settembre”(Zolo) – necessitano della relazione con soggetti saldamente strutturati e in particolare con un forte partito comunista, capace di costituire un serio interlocutore politico e un efficace sostegno organizzativo.
Quanto sia indispensabile un grande partito comunista come centro di direzione politica è del resto evidente nell’attuale situazione del paese, caratterizzata dalla passività delle masse al cospetto di un governo impegnato in una sistematica opera di demolizione delle garanzie democratiche fondamentali. Anche in considerazione di ciò appare tutt’altro che casuale che, nel quadro della storia del movimento operaio, sia tipico delle componenti più moderate (a cominciare dalla socialdemocrazia classica) un atteggiamento tiepido, quando non ostile, nei confronti della forma-partito come struttura organizzata e come luogo di elaborazione della strategia politica, cioè nei confronti della concezione classica del movimento comunista.
Quest’ultimo accenno alla nostra storia permette di richiamare le lacune che le tesi congressuali presentano anche su questo terreno. Vi sono omissioni, come riguardo a Lenin (pochi accenni valgono una rimozione) e alla storia del Pci, evocata solo per svalutare la figura di Togliatti (e non è superfluo rilevare che si tratta di scelte coerenti con le decisioni assunte sul Prologo dello Statuto). E vi sono errori, primo fra tutti quello di ridurre la storia a pochi punti alti (il 1917, il 1968) e a poche figure sublimi (il solo Marx, poiché Gramsci è ridotto a una caricatura) rendendola, con ciò, incomprensibile e inquietante: in qualche modo somigliante a quella periodicamente aggiornata dal Ministero della Verità di orwelliana memoria.

 

 Alberto Burgio,
Comitato politico nazionale, 16 gennaio 2002


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