F.Sorini-G.Pegolo-C. Grassi-A.Burgio
Le quattro tesi emendative e alternative al documento di maggioranza per il V° congresso del prc dell'area leninista-gramsciana
La
Tesi è complessivamente sostitutiva delle tesi 14 e 15 del testo varato
dal Cpn, intitolate : “Il superamento della nozione classica di
imperialismo” (tesi 14) e “I nuovi assetti del mondo” (tesi 15). TESI 14 -
GLOBALIZZAZIONE
IMPERIALISTA, Siamo per lo scioglimento della Nato, strumento di guerra e
di espansione imperialista, di condizionamento dell’autonomia
dell’Italia e dell’Europa da parte degli Stati Uniti. Siamo per
l’allontanamento di tutte le basi militari straniere, di tutte le armi
nucleari dislocate in Italia. Siamo per la ratifica degli accordi di Kyoto
sull’ambiente, per la difesa del trattato Abm del 1972 che vieta ogni
ipotesi di scudo spaziale. Siamo per trattati vincolanti e verificabili
contro la militarizzazione del cosmo, che vietino nuovi test nucleari e
mettano al bando tutte le armi di sterminio: atomiche, chimiche e
batteriologiche, che pesano come un incubo sul futuro dell’umanità. In nome della “lotta al terrorismo internazionale”, gli
Usa - che non per caso si oppongono ai trattati sul disarmo - stanno
attuando una linea di supremazia e proiezione militare globale per vincere
la competizione per l’egemonia mondiale nel 21° secolo. I teatri di
guerra dell’ultimo decennio (Iraq, nel cuore del Medio oriente; Balcani
e Afghanistan, nel cuore dell’Eurasia) investono regioni in cui si
trovano le più grandi riserve energetiche del pianeta (petrolio e gas
naturale) e gli oleodotti e i gasdotti che le trasportano. Il loro
controllo assicura posizioni dominanti nell’economia mondiale. Nel 1945 gli Usa esprimevano il 50% dell’economia
mondiale (Pil), oggi sono il 25%, pari all’Unione europea. Il Giappone
è all’11%. Secondo studi recenti dell’Ocse, tra un ventennio le tre
maggiori entità del mondo capitalistico - e segnatamente gli Usa -
vedrebbero dimezzate le rispettive quote, a vantaggio di nuove potenze
regionali emergenti (Brasile, Indonesia, Russia, Cina, India, mondo arabo
…). La prospettiva di un mondo sempre più multipolare induce la
parte più aggressiva dell’amministrazione Usa a contrastare la
possibile perdita del primato economico con il rafforzamento di una
schiacciante superiorità militare sul resto del mondo, se necessario con
la guerra. Sono in primo luogo gli Usa che hanno voluto la guerra in Iraq,
in Yugoslavia, in Afghanistan. Gli altri paesi della Nato (e il Giappone),
quando vi hanno preso parte anche militarmente, lo hanno fatto per
subalternità e per non rimanere esclusi dalla spartizione delle zone di
influenza che ogni guerra comporta. Come dimostrano anche i contrasti
connessi alla formazione del nuovo governo di Kabul, non esiste alcuna
“coalizione internazionale” con basi strategiche e durature tra Stati
Uniti, Europa, Giappone, Russia, Cina, India, Pakistan, paesi arabi (realtà
tra loro troppo diverse per struttura sociale, profilo politico e
interessi geo-strategici). Vi sono invece calcoli (spesso cinici) di
real-politik, fondati su convenienze reciproche e congiunturali, che non
prefigurano alcun nuovo “direttorio mondiale” unificato. Non esiste, come vorrebbero le più recenti teorizzazioni
di Toni Negri, né un mondo né un “capitalismo globale” compatto e
omogeneo, privo di contraddizioni tra i grandi capitalismi e imperialismi
nazionali o regionali, e tra i rispettivi Stati nazionali o raggruppamenti
di Stati (Unione europea) che ne supportano gli interessi nella
competizione globale. I capitali di comando delle prime 200 società
multinazionali che condizionano l’economia e la finanza mondiale, pur
avendo filiali in tutti i continenti, sono in buona parte riconducibili a
questo o quel gruppo nazionale, solidamente intrecciate col potere
politico del proprio Stato (come è il caso della Fiat in Italia, della
Toyota in Giappone, della General Motors negli Usa, della Volkswagen in
Germania). Come spiegare altrimenti la competizione tra dollaro, marco e
yen; o i forti contrasti che continuamente si ripropongono ai vertici del
Wto, che hanno fatto fallire quello di Seattle e messo in crisi l’ultimo
a Doha; o i ricorrenti contrasti Usa-Ue (e nell’Unione europea), sulla
difesa militare, su Echelon, sul profilo politico-istituzionale
dell’Unione e sul suo allargamento ad Est, sui rapporti con Israele, col
mondo arabo, coi Balcani o con l’Africa australe, dove le guerre per
procura hanno causati negli ultimi anni tre milioni di morti solo in
Congo? Globalizzazione
capitalistica, imperialismo e competizione globale sono facce di
un’unica medaglia, non categorie interpretative tra loro incompatibili.
E’ giusta l’esigenza di un aggiornamento dell’analisi
dell’imperialismo dei giorni nostri, che tenga conto delle modifiche dei
processi di accumulazione. Ma non convince
l’abbandono di questa categoria interpretativa, che resta parte
essenziale del patrimonio teorico delle forze comuniste e rivoluzionarie
del mondo intero (da Cuba alle Farc colombiane, dai comunisti del
Sudafrica a quelli indiani e palestinesi, che la realtà
dell’imperialismo la vivono quotidianamente e brutalmente sulla loro
pelle). Anche il capitalismo dei tempi di Marx era molto diverso da quello
attuale, ma continuiamo a definirlo così perché ne conserva le
fondamenta “sistemiche”, a partire dal conflitto irriducibile tra
capitale e lavoro. Lenin sintetizzava così “i cinque principali
contrassegni” dell’imperialismo : la concentrazione della produzione e
del capitale in grandi monopoli, oggi cresciuta in enormi colossi
multinazionali; la fusione del capitale bancario col capitale industriale
- il capitale finanziario - e la formazione di un’oligarchia della
grande finanza (le cui caratteristiche odierne, accentuatesi, sono ben
descritte nella Tesi 5, così come la crescente importanza
dell’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci); il
sorgere di associazioni internazionali di capitalisti, che si ripartiscono
il mondo e la conseguente ripartizione del pianeta tra le più grandi
potenze capitalistiche (che è oggi sotto gli occhi di tutti). La competizione inter-capitalistica - che non sempre e non
necessariamente produce guerre mondiali – ha i suoi momenti di
concertazione e di coordinamento (Fmi, Banca mondiale, Wto, G7 - dai cui
vertici economici la Russia rimane esclusa), volti a preservare gli
interessi complessivi del sistema, a mediare i suoi contrasti interni
cercando di impedirne una rovinosa precipitazione. Ma questi organismi
sono dominati dai maggiori Stati capitalistici del mondo, non già da un
anonimo “capitale globale”. E quando scoppiano le guerre, sono questi
Stati a condurle, da soli o in coalizione con altri. Il punto è che non
tutti gli Stati sono uguali : mentre le maggiori potenze imperialistiche,
a partire dagli Usa, vedono un rafforzamento della loro funzione politica
e militare nella competizione mondiale, la grande maggioranza degli Stati
nazionali piccoli e medi soffre una crisi profonda, vede una crescente
riduzione di ruolo e di effettiva sovranità in un mondo sempre più
dominato dall’imperialismo. Il pericolo di una guerra globale nel 21° secolo(evocato
anche dal Papa), della cui possibilità parlano apertamente alcuni dei
dirigenti più oltranzisti dell’amministrazione Bush, e di un
allargamento della guerra in corso ben oltre i confini dell’Afghanistan,
ripropone l’imperativo non più rinviabile della costruzione di un nuovo
movimento mondiale per la pace, che comprenda forze politiche e sociali,
sindacali e religiose, popoli e governi di ogni continente. Un movimento
di cui sia forza propulsiva anche il nuovo movimento “no global”, che
assuma la lotta contro la guerra come asse portante della propria identità
e unità e rafforzi il suo legame col movimento operaio. Capace di
integrare e connettere le aspirazioni convergenti dei “popoli di
Seattle” e di Porto Alegre con quelle dei “popoli di Durban”. Vi
è qui un compito primario per i comunisti, per tutte le forze
rivoluzionarie, antagoniste e antimperialiste del mondo, che - nel
rispetto delle diversità e dell’autonomia di ognuno - debbono
rafforzare solidarietà e impegno comune, superando chiusure
nazionali e tentativi artificiosi di divisione, di fronte a gravi minacce
alla pace e a fondamentali libertà democratiche. Esse non debbono
rinunciare a portare dentro il movimento le proprie analisi sul
capitalismo, sull’imperialismo, sul ruolo della Nato, né le proprie
convinzioni e aspirazioni di classe, da cui anzi il movimento della pace
può trarre maggiore forza e consapevolezza. Sapendo però che la lotta
contro la guerra impone la costruzione di uno schieramento mondiale il più
largo possibile, che sappia concentrare le forze contro i settori più
aggressivi dell’imperialismo, soprattutto americano, che puntano al
peggio. Quando vediamo che, in nome della lotta al terrorismo,
cominciano a operare negli Stati Uniti tribunali speciali (militari e
segreti), non vincolati al rispetto della Costituzione, dove si comincia a
distinguere tra i diritti dei cittadini americani e quelli degli immigrati
(per lo più di colore), una riflessione si impone sull’intreccio
perverso di autoritarismo politico, razzismo e spinta alla guerra, che
questa nuova fase dello sviluppo imperialistico può portare in grembo nel
21° secolo che ci attende. TESI 39 bis
(integrativa della tesi 39) CENTRALITA’ DEL
MOVIMENTO OPERAIO E DEL CONFLITTO SOCIALE La ripresa del conflitto operaio (e più in generale dell’iniziativa di lotta dei lavoratori) costituisce l’altra grande novità, insieme alla nascita del movimento pacifista e no global, della fase che si è aperta. Di ciò sono testimonianza lo sciopero e le grandi manifestazioni dei metalmeccanici del 6 luglio e del 16 novembre, quelli della scuola e del pubblico impiego, la compatta sospensione del lavoro con i cortei interni alla Fiat e più in generale le mobilitazioni che si stanno producendo in difesa dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, contro la destrutturazione delle regole del mercato del lavoro e dello stato sociale. A nessuno può sfuggire l’importanza che tale ripresa del conflitto assume dopo anni di pace sociale, caratterizzata da una asfissiante pratica concertativa Il conflitto non torna soltanto ad investire realtà in cui le capacità di lotta si erano affievolite, ma coinvolge una giovane generazione di lavoratori che per la prima volta si affaccia sulla scena politica, e vede partecipi fasce rilevanti di precariato che dimostrano la propria disponibilità a lottare pur in presenza dei ricatti derivanti da un rapporto di lavoro frammentato in misura sempre maggiore. Infine, risulta evidente che tale conflitto trascende l’immediatezza della condizione di lavoro assumendo un carattere più generale. Non solo. La ripresa di un conflitto di classe nel nostro Paese crea le premesse per la costruzione di uno schieramento sociale ampio. Da questo punto di vista, un obiettivo fondamentale è rappresentato dalla saldatura fra mondo del lavoro e movimento no global. Tale saldatura fino ad oggi si è verificata, ancora troppo saltuariamente, a partire da Genova, con il concorso determinante della FIOM oltre che del sindacato extraconfederale. Non vi è dubbio, tuttavia che nella prospettiva della costruzione di uno schieramento sociale in grado di sostenere una piattaforma di opposizione, molto resta da fare. E non solo perché va coinvolto in modo più esteso lo stesso mondo del lavoro, ma perché occorre che emergano proposte programmatiche unificanti e occorre che tale unificazione si esprima compiutamente sul terreno della lotta e della mobilitazione comune. A livello generale, queste dinamiche dimostrano che nell’attuale fase della globalizzazione capitalistica permane ed anzi si potenzia, in tutta la sua obiettiva e visibile dirompenza, la contraddizione capitale-lavoro: dalle grandi imprese essa si estende alle realtà produttive minori toccando le fasce di lavoro frammentato, delocalizzato, precarizzato dai nuovi modelli dell’organizzazione produttiva, creando le premesse per un processo di ricomposizione attorno a comuni interessi di classe. Le diverse soggettività, i diversi luoghi del lavoro subordinato: qui troviamo ancora il principale motore del conflitto. La complessità delle articolazioni sociali, unificate dal comune interesse di battere lo sfruttamento di cui sono vittime, non fa svanire ma al contrario conferma il carattere dominante delle contraddizioni di classe. Non corrisponde al vero, quindi, la tesi secondo cui il “post-fordismo” avrebbe fatto scomparire il lavoro salariato e gli stessi luoghi fisici nei quali esso si svolge, dissolvendoli in mille rivoli inafferrabili. Restano peraltro numerosi, anche nel nostro paese, i grandi insediamenti lavorativi, con una presenza di centinaia e in qualche caso di migliaia di lavoratrici e lavoratori. L’assunzione
della centralità della classe operaia e della contraddizione
capitale-lavoro non comporta la sottovalutazione dei profondi mutamenti
della società, dei processi produttivi e della composizione di classe.
Obiettivo prioritario del movimento operaio e dei comunisti resta ancor
oggi la ricomposizione e l’organizzazione in termini di soggettività
politica delle diverse articolazioni del proletariato messo al lavoro (dal
salariato classico al post-salariato, dal lavoro dipendente tradizionale
al lavoro autonomo “eterodiretto”, dal precariato alle aree del lavoro
“atipico” e sommerso), in quanto soggiacciono a una comune condizione
di subalternità. Il partito è chiamato ad un impegno forte a sostegno delle istanze espresse dal mondo del lavoro. Occorre pazientemente riprendere i fili che abbiamo cominciato a tessere a Treviso, aggiornando gli assi di fondo che hanno guidato i lavori di quella conferenza, a cominciare dall’inderogabile esigenza di ridare compiutamente voce ai lavoratori attraverso l’approvazione di una legge che finalmente sancisca criteri democratici di rappresentanza sui luoghi di lavoro. E’ necessario appoggiare, dentro e fuori le istituzioni, le vertenze a difesa dei posti di lavoro oggi sotto attacco; rilanciare le nostre proposte per il riallineamento periodico e automatico delle retribuzioni e delle pensioni all’inflazione reale; favorire l’incontro di lavoratori ‘tipici’ e ‘atipici’, reclamando nuove “rigidità” nei rapporti di lavoro e l’estensione dei diritti garantiti dallo Statuto dei lavoratori ai precari e alle aziende sotto i 15 dipendenti; porre ancora all’ordine del giorno l’acquisizione di livelli normativi e contrattuali certi e valorizzare il ruolo delle Rappresentanze Sindacali Unitarie in ogni luogo di lavoro, investendovi risorse umane ed economiche. In questa prospettiva, poi, la riproposizione forte della questione salariale e della riduzione d’orario a parità di salario rappresentano terreni oggettivamente unificanti. L’impegno per la crescita del movimento dei lavoratori, per la realizzazione di uno schieramento sociale più ampio, per la convergenza all’interno di una comune piattaforma sociale costituiscono obiettivi fondamentali dell’iniziativa del partito. Senza questo orizzonte il suo stesso ruolo come soggetto politico sarebbe inadeguato rispetto alla complessità della fase. Peraltro, solo in questa prospettiva è possibile seriamente porsi il problema dell’opposizione al governo delle destre. La natura dell’attacco che infatti viene condotto dal governo, investendo elementi essenziali della vita sociale, dall’aggressione allo stato sociale all’attacco ai diritti del mondo del lavoro impone infatti una risposta di massa che si generalizzi e duri nel tempo passando per la convocazione dello sciopero generale Nel contempo, l’apertura di un processo in controtendenza nella sinistra moderata e nel sindacato possono determinarsi solo se si intreccia con una forte mobilitazione sociale. Non vi è dubbio, infatti, che la dialettica apertasi nei Ds e la loro crisi di consenso (che investe milioni di persone, in gran parte lavoratori) possono evolvere e non regredire solo se viene dalla società una forte istanza di cambiamento. Analogamente, la crescita di una sinistra sindacale e orientamenti di classe nella Cgil, che ha trovato nel congresso un riscontro importante, e l’affermazione di posizioni di classe nei sindacati extra-confederali hanno bisogno di trovare riscontro nel rilancio di un movimento ampio e articolato capace di configurare una prospettiva di cambiamento. TESI 55 bis (integrativa
della tesi 55) PARTIRE DALLE FONDAMENTA: POTENZIARE IL PARTITO Compito dei comunisti è organizzare i soggetti sociali che, per la loro collocazione oggettiva nella produzione capitalistica e nelle diverse forme oppressive e alienanti in cui essa si esprime, sono potenzialmente portatori di un progetto di società alternativa al capitalismo: in primo luogo la classe operaia, i lavoratori dipendenti (anche nelle forme “atipiche” del lavoro formalmente autonomo), i lavoratori precari e i disoccupati, i movimenti femministi, pacifisti e ambientalisti. Il nostro partito si pone l’obiettivo di lunga lena di organizzare un blocco sociale e politico che rappresenti la maggioranza delle classi lavoratrici e degli oppressi. A tal fine è indispensabile perseverare nel lavoro di costruzione di un partito comunista con basi di massa, radicato nel territorio, presente nei luoghi di lavoro e di studio e nei quartieri. Dell’importanza di questo lavoro parla con chiarezza tutta la storia di Rifondazione comunista. Senza un partito organizzato su tutto il territorio nazionale, strutturato in comitati regionali, federazioni, circoli (che sono il baricentro vitale della nostra organizzazione) non saremmo riusciti a superare le prove durissime che ci siamo trovati di fronte in questi primi dieci anni di vita. Se le ripetute e rovinose scissioni, provocate dalla maggioranza dei gruppi parlamentari e da larghi settori del gruppo dirigente centrale, non ci hanno distrutto, ciò si deve soprattutto alla capacità di tenuta delle nostre organizzazioni di base, a cui va la riconoscenza di tutto il partito. Il radicamento capillare di Rifondazione comunista sul territorio e nei luoghi del conflitto sociale è dunque decisivo se si vuole rafforzare il nostro progetto politico. Non è inutile ribadirlo poiché si è molto teorizzato in questi anni, anche in ambienti di «sinistra», sui partiti come strumenti inutili e superati. Nulla sarebbe più falso. Tutta la storia del movimento operaio, compresa quella della dissoluzione del Pci, insegna che gli strumenti più importanti di cui esso dispone nella lotta sono l’organizzazione politica e quella sindacale, senza le quali il suo potere contrattuale si riduce a zero. Non a caso le classi dominanti possono contare su mezzi potenti in ogni campo e, in particolare, su partiti fortemente strutturati nel territorio quali Forza Italia e Alleanza nazionale. Ciò non ci induce ad alcun continuismo o conservatorismo organizzativo: al contrario, proprio la necessità di rafforzare il partito pone l’esigenza di profonde innovazioni e scelte di autoriforma, nel quadro di una riflessione politica e teorica aperta su quali possano e debbano essere – nel contesto storico attuale e nella realtà di un paese capitalistico come l’Italia – le caratteristiche di un partito comunista con basi e influenza di massa, con caratteri nuovi anche rispetto alle esperienze più avanzate del passato. Imprescindibile dev’essere l’impegno di tutto il gruppo dirigente su problemi essenziali come la costruzione del partito nel territorio, il tesseramento (che, se correttamente inteso, è l’opposto di un rituale burocratico, ma occasione di intense relazioni politiche e umane), l’autofinanziamento, il radicamento nei luoghi di lavoro, la formazione dei quadri. Il calo degli iscritti, che è un dato costante da quattro anni, e il turnover, che resta elevatissimo, costituiscono un fatto politico di primaria importanza: alla base di tali fenomeni vi è l'estrema debolezza di molti circoli, cioè proprio di quelle istanze che restano fondamentali per un partito che voglia essere fortemente radicato nella società. Da qui l'esigenza, da parte di tutto il partito, della massima cura e valorizzazione dei gruppi dirigenti dei circoli stessi e l'impegno prioritario di coinvolgere maggiormente gli organismi di base nell'elaborazione delle decisioni politiche. Di tutto ciò bisogna discutere con rigore, anche con sedute specifiche del Comitato politico nazionale e della Direzione: non averlo fatto in questi anni denota una grave sottovalutazione di tali problemi. Questa tendenza va invertita e, a tal fine, è necessario introdurre alcuni cambiamenti rispetto alla situazione attuale: B) Mentre va evitato il cumulo di incarichi e ruoli dirigenti politici e istituzionali, una parte significativa dell’apparato centrale e del gruppo dirigente nazionale va riportata «sul campo», in periferia; anche la collocazione dei dipartimenti nazionali va ripensata e collocata non solo a Roma, ma anche in altre realtà metropolitane. A loro volta, le Federazioni, partendo dal territorio, dai luoghi di lavoro e di studio, potrebbero decentrare il lavoro politico, aggregando i circoli territoriali e di lavoro in coordinamenti zonali sulla base di progetti di iniziativa sociale. Si tratta di una scelta che ha forti implicazioni democratiche. Essa rafforza il rapporto continuo tra centro e periferia; potenzia il lavoro di radicamento sociale del partito; contribuisce a snellire e a sburocratizzare le funzioni dell’apparato centrale (oltre a renderle meno costose); trasferisce strumenti e risorse sul territorio; limita i rischi – sempre presenti nella storia del movimento operaio – di irrigidimento autoritario dei gruppi dirigenti e di formazione di un ceto politico-istituzionale privilegiato e separato dal corpo del partito, riduce i margini per carrierismi e personalismi oggi largamente diffusi; contribuisce ad una selezione dei quadri che tenga conto in misura adeguata, oltre che delle competenze e delle capacità intellettuali, anche delle esperienze di lotta e di organizzazione sul campo. In questo quadro va promossa la crescita delle compagne con funzioni di direzione complessiva del partito a tutti i livelli, tenendo conto delle tante difficoltà che esse incontrano nella vita di partito e impegnandosi per il superamento delle effettive condizioni di disuguaglianza. C) Va proseguita la politica di acquisizione delle sedi di proprietà del partito praticata in questi anni, con l’obiettivo di dotare di una sede in proprietà almeno le nostre federazioni provinciali. In questo modo le nostre sedi possono favorire – più di quanto non facciano già – una pratica di apertura e interlocuzione con altre soggettività di massa, divenendo centri di aggregazione sociale e culturale. D) Il quotidiano «Liberazione» ha svolto e svolge un ruolo insostituibile. Dopo anni di duro lavoro e di difficili interventi organizzativi, grazie all’impegno di una direzione autorevole di indiscusso prestigio professionale e al contributo di tutto il corpo redazionale e poligrafico, esso si trova oggi in una condizione di sostanziale pareggio economico. Bisogna consolidare questi risultati e migliorarli. Non è più tollerabile l’assenza di un impegno sistematico, da parte dei gruppi dirigenti a tutti i livelli, per un incremento della diffusione del quotidiano del partito. Al tempo stesso, «Liberazione» - con una direzione politica collegiale espressione di tutto il partito - deve svolgere un ruolo equilibrato affinché il partito sia informato correttamente, fuori da ogni personalizzazione, del dibattito che si svolge nei suoi gruppi dirigenti e perché il dibattito interno al corpo del partito possa esprimersi liberamente, evitando unilateralità e forzature che ne ostacolerebbero il pieno sviluppo. Sarebbe utile anche una maggiore informazione su quello che fanno e pensano i comunisti e le forze di sinistra nel mondo: una “globalizzazione” dell’informazione e delle riflessioni sui temi di comune interesse. E) Le Feste di «Liberazione» – oltre 700 ogni anno – sono tra gli appuntamenti politici più rilevanti del partito. Attraverso le Feste parliamo a milioni di persone; tra queste, molte non sono iscritte e non ci votano. Si tratta dunque di eventi che non possono più essere abbandonati a se stessi (da anni non esiste un responsabile nazionale del settore): va costruito un lavoro che ci consenta di veicolare messaggi comuni, di razionalizzare l’uso delle strutture di nostra proprietà, di fare conoscere e valorizzare i risultati più rilevanti colti dal partito sul terreno politico ed economico. Senza mai dimenticare che un autofinanziamento del partito non troppo dipendente dal finanziamento pubblico e dalla nostra presenza nelle istituzioni, è condizione vitale della nostra autonomia. F) Va potenziato il lavoro di formazione. Non si tratta di allestire corsi di «indottrinamento», ma di considerare la crescita culturale e politica dei quadri un fattore decisivo per la capacità stessa dei circoli di fare politica in modo intelligente e adeguato ai tempi. Una conoscenza non dogmatica delle opere dei dirigenti più importanti del movimento comunista e socialista, una riflessione approfondita sulla storia del movimento operaio, nonché un'adeguata preparazione al fare politica nella società e nelle istituzioni possono contribuire a formare criticamente i compagni e le compagne, a superare approcci pragmatici ed elettoralistici ancora troppo diffusi. La crescita culturale dei militanti – specie di quelli più giovani – è per il partito un patrimonio di primaria importanza, senza il quale sarebbe velleitario quell’investimento sul futuro che informa e giustifica il nostro impegno comune. L’innalzamento del livello teorico-politico di tutto il partito può inoltre contribuire, assai più delle esortazioni, a potenziare la sua democrazia interna (“l’informazione è potere”); e a superare logiche interne di appartenenza, legate spesso più a vecchie esperienze e collocazioni che non a un confronto di merito sulle problematiche del presente, che ha bisogno invece di una dialettica libera e non cristallizzata. TESI
51 (sostitutiva
delle tesi 51 e 52) I
comunisti e la loro storia La
definizione dell’identità comunista non può prescindere dalla
riflessione sull’esperienza storica del movimento operaio nel corso
degli ultimi centocinquant’anni. Le tesi congressuali di un partito
non sono la sede più appropriata per un pur sommario bilancio di
questa esperienza, tanto più che siamo ancora troppo prossimi alla fine
dell’Urss e degli altri paesi dell’est europeo e che «non
conosciamo ancora quale sarà l’effetto di lunga durata di quei regimi»
(Hobsbawm). Tuttavia, benché su tali questioni la storiografia sia
ancora lontana da risultati definitivi, è indispensabile
individuare i principali criteri ai quali la nostra riflessione storica
dovrebbe ispirarsi. Non
si tratta di ripudiare quella che è comunque la nostra storia, gloriosa o
tragica che la si consideri. Vanno evitate semplificazioni
apologetiche o liquidatorie che, sempre improprie, sarebbero
grottesche in relazione a una vicenda che segna tutta un’epoca della
storia del mondo e nella quale ha vissuto – e in parte vive tuttora –
l’anelito alla libertà di miliardi di esseri umani. Non ci appartiene
la tesi di chi traccia quadri apocalittici nei quali il Novecento vede
il trionfo di una furia distruttiva in cui il nazismo e il comunismo
si confondono approdando a una comune barbarie. Occorre
guardare in faccia, senza reticenze, anche i momenti più bui della nostra
esperienza: l’assenza di democrazia diffusa, le esasperazioni
dirigistiche, le deformazioni burocratiche denunciate già
da Lenin, gli stessi crimini che hanno macchiato la storia del «socialismo
reale». A chi ci incalza evocando le violenze commesse nel nome del
comunismo, non rispondiamo riducendone la portata né
semplicemente additando le immani devastazioni e gli stermini prodotti
dal capitalismo. Siamo consapevoli anche del peso del nostro passato e
accettiamo di assumercene la responsabilità, cercando di imparare
anche dai nostri errori. Nello
stesso tempo, ribadiamo che l’azione del movimento operaio e le
rivoluzioni vittoriose nel nome del comunismo hanno liberato dal
servaggio enormi masse di popolo, hanno impresso una formidabile
accelerazione
ai processi di liberazione del terzo mondo dal colonialismo, hanno
fornito un decisivo sostegno alle lotte operaie e antifasciste
nell’occidente capitalistico costringendo le classi dominanti a
compromessi significativi con il movimento operaio. Per sconfinate
masse di proletari la nascita dell’Urss ha significato la fine dell’asservimento e, per la prima volta, l’accesso a
condizioni di vita progredite e ad elevati livelli di istruzione e
protezione sociale. È bene altresì rammentare che difficilmente la
seconda guerra mondiale avrebbe visto la sconfitta dell’Asse
senza il sacrificio di venti milioni tra civili e militari
dell’Armata rossa. L’Ottobre
bolscevico ha rappresentato una rottura epocale che ha mostrato al
mondo la maturità della classe operaia quale soggetto in grado
di affermare la propria autonomia storico-politica. Ma contrapporre la
rivoluzione alla vicenda politica che ne è seguita – scorgere nelle
società sorte dall’Ottobre soltanto un tradimento della rivoluzione –
sarebbe un’operazione altrettanto astratta e ingenua quanto ritornare
a Marx accantonando la ricerca teorica e il dibattito politico
sviluppatisi sulla base delle sue indicazioni. Marx
ha elaborato le categorie fondamentali dell’analisi critica del
capitalismo e ha gettato le basi di una teoria rivoluzionaria che ha
messo il proletariato in condizione di affermarsi quale autonomo
soggetto politico. Ma proprio Marx ha sempre insistito sulla necessità
di sottoporre la teoria a continui aggiornamenti. Con l’analisi
leniniana del colonialismo e dell’imperialismo la teoria
rivoluzionaria si è liberata da ogni angustia eurocentrica, collocandosi
all’altezza della dimensione mondiale del dominio capitalistico.
La riflessione di Gramsci, nella quale l’eredità teorica di Lenin
è assunta e originalmente ripensata, rappresenta un ulteriore
arricchimento, sia per quanto concerne la concezione del partito
comunista come «intellettuale collettivo», protagonista del processo
rivoluzionario e della costruzione dello Stato operaio, sia in relazione
al tema della rivoluzione in Occidente, concepita – sullo sfondo di
una idea della politica quale ambito non separato dal terreno sociale –
come processo di radicamento della classe nella società e come
progressivo consolidamento della sua capacità di direzione egemonica.
Non
si tratta di allestire un corpo di dogmi, ma di valorizzare strumenti
teorici per procedere oltre, concentrando l’attenzione su
problematiche cruciali non ancora adeguatamente indagate dalla cultura
marxista. Appaiono centrali al riguardo le questioni poste dai movimenti
femministi e ambientalisti. Da un lato è necessario ripensare a fondo
la struttura dei processi di riproduzione e i temi della soggettività,
dell’esperienza affettiva e della mercificazione delle relazioni
umane. Dall’altro si impone la necessità di assumere il concetto di «sviluppo
sostenibile», evitando di assolutizzare i valori dello sviluppo economico
e della crescita produttiva. In
una parola, non si può guardare all’esperienza del movimento comunista
come a un cumulo di macerie. La storia dell’umanità si troverebbe
oggi a uno stadio ben più arretrato se le rivoluzioni
socialiste non avessero segnato vaste aree del mondo. Un
grande contributo alla lotta per l’emancipazione del proletariato
hanno fornito anche intere generazioni di comunisti del nostro paese. La
fine, per molti versi sconcertante, del Partito comunista italiano ci
impone di cercare le radici della mutazione che ne ha decretato nel
corso degli ultimi decenni il declino e infine la dissoluzione. Le cause
di questa mutazione – che rendono improponibile ogni continuismo –
debbono essere valutate in tutta la loro portata, per trarne severe
lezioni. Ma esse non cancellano i meriti storici del Pci, come non
impediscono di riconoscere il contributo dato da migliaia di militanti
comunisti e socialisti, anche fuori delle sue file (ad esempio nei
movimenti del ‘68-69 e nella nuova sinistra), alla lotta antifascista,
per la democrazia e contro lo sfruttamento capitalistico. Queste
compagne e questi compagni hanno scritto alcune tra le pagine più intense
della guerra di Spagna e della Resistenza e hanno dato corpo alla lotta
di liberazione dal nazifascismo. Alla capacità di direzione
politica di Togliatti e del gruppo dirigente del Pci negli anni della
Resistenza e della prima fase repubblicana – come pure alle intuizioni
di Eugenio Curiel in tema di «democrazia progressiva» e all’impegno di
grandi dirigenti socialisti tra i quali Lelio Basso e Rodolfo Morandi
– gli italiani debbono una carta costituzionale avanzata. In
essa il quadro delle libertà democratiche diviene strumento di
trasformazione della società esistente e presidio possibile delle
conquiste sociali e politiche di massa; leva per l’eguaglianza effettiva
tra tutti i cittadini e per la loro partecipazione al governo della
società e dell’economia. Non si comprenderebbe l’ulteriore storia
italiana ove si prescindesse da queste premesse, in virtù delle quali
l’Italia è divenuta un laboratorio del conflitto di classe
per molti versi unico in Europa.
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