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nr.6 - nuova serie - novembre 2002

Recensione a: E.Rea-La dismissione

 LA DISMISSIONE DEL CAPITALE

  L’ultimo romanzo di Ermanno Rea descrive l’inesorabile fine dell’era industrialista, come sostiene Revelli, o la verità dell’affermazione di Marx secondo cui il capitalismo entra in conflitto con lo sviluppo delle forze produttive?

  Il merito di alcuni romanzi è quello di entrare con rara efficacia, meglio di tanti e tanti saggi sociologici (o di altro tipo), nella propria epoca storica, interpretandola in profondità attraverso la vita degli uomini e delle donne, i loro comportamenti, atteggiamenti, sentimenti. Romanzo particolare: la forma scelta dallo scrittore napoletano Rea nel suo La dismissione (Rizzoli, 2002), che racconta la fine di una delle fabbriche-simbolo del Sud, l’acciaieria Ilva di Bagnoli, è quella del racconto autobiografico di uno dei protagonisti in carne e ossa, un tecnico delle “colate continue”, Vincenzo Bonocore. Ne scriviamo in modo tutt’altro che neutro, in quanto la similitudine tra la dismissione di Bagnoli e i processi di deindustrializzazione che investono l’area di Taranto, anch’essa con l’Ilva (passata però in mani private), sono impressionanti. Se infatti un qualsiasi lettore di narrativa contemporanea potrà forse trovare uggioso l’uso di continui termini tecnici, e la descrizione così dettagliata dei processi di produzione (le colate, le siviere, i laminatoi, i parchi minerali, ecc..), per tanta popolazione, di Taranto e di Terni e ovviamente di Bagnoli, sono termini familiari, domestici, di uso frequente, comprensibilissimi. Così come i paesaggi descritti: i tramonti “bruciati” guardando verso il Vomero hanno lo stesso colore dell’aria rugginosa del quartiere Tamburi (quello a ridosso della fabbrica) della città jonica. Dunque, anche il tipo umano: quanti Bonocore vi sono e vi sono stati che animano e che hanno animato la fisionomia della popolazione operaia, specie qui al Sud? Anche se Bonocore non è un operaio qualsiasi: è un tecnico, un operaio specializzato, uno di quelli che in gergo leninista si sarebbe collocato nell’aristocrazia operaia. Ma assurge a simbolo dell’intero homo faber del Novecento: in lui si incarna sia l’operaio sociale dell’epoca fordista, sia l’operaio-massa dell’epoca dell’industrializzazione a grande scala degli anni ’60; la sua memoria è quella e viene introdotta nella narrazione dal ricordo delle grandi battaglie per i diritti e l’emancipazione.

Revelli, recensendo il libro di Rea (vedi Carta nr.35/2002) ha intravisto la conferma del declino di quest’epopea (“Ferropoli”), destinata a lasciare un cumulo di macerie e detriti, soffocanti gli aneliti di speranza e di riscatto sociale connessi proprio a quell’epoca. Bonocore, insomma, “dismette” se stesso e la sua storia, e lo fa con gli strumenti suoi propri, la ricerca della perfezione nel lavoro e della sua “scientifica” organizzazione, con la tradizione determinata dell’operaio-artigiano, incarnata dal ricordo della figura del padre scalpellino del legno e maestro del lavoro “a regola d’arte”.  L’uomo di “ferro”, insomma, uccide con il proprio lavoro se stesso, perché distrugge con certosina minuziosità e cura del dettaglio gli stessi strumenti del proprio lavoro. Gli strumenti del proprio lavoro: già, ma proprio qui è il punto. Dagli assunti di Revelli, che pure cita Gramsci, scompaiono le voci rapporti di produzione e forze produttive. La questione proprietaria, cioè, è omessa. La dismissione di Bagnoli, e dunque tutte le dismissioni, sono la fine di un’epoca: dunque, un destino ‘cinico e baro’ a cui non solo non si può resistere, ma non si deve, perché collocherebbe la resistenza fuori tempo storico. Eppure, non era stato Gramsci, le note su Americanismo e fordismo, a rilanciare la questione in chiave marxista, per comprendere come gli assetti produttivi siano determinanti per la conformazione sociale, sia dal lato del capitale, sia da quello del lavoro? L’analisi gramsciana sarebbe incomprensibile senza questo sforzo di comprendere il tipo umano che il capitale vuol rendere funzionale ad esso e il tipo umano che la civiltà del lavoro liberato deve rendere consapevole della propria forza di “società”. Non è solo questione di coscienza di classe: questa si conquista con la lotta contro il capitale, non con le perorazioni ideologiche; ma sono le forme dell’unità sociale che nel socialismo costituiranno la base della definitiva emancipazione dallo sfruttamento e dai rapporti sociali capitalistici. Se dunque si cita Gramsci, questo è l’orizzonte. Che è lo stesso aggiornamento di Marx e dell’analisi dei Grundrisse sulle forme antitetiche dell’unità sociale. Insomma, Revelli non si accorge che il romanzo di Rea può essere letto anche in un’altra chiave, e cioè la dismissione sì, ma del capitale, i cui rapporti di produzione confliggono ad un certo stadio di sviluppo con le forze produttive. Imbrigliandone le potenzialità espansive, l’intelligenza e la creatività, il prodotto dell’umano ingegno e dell’operosità laboriosa. Forze produttive e forze sociali che vengono espropriate della decisione sul proprio destino e costringono a rendere profitto privato anche le macerie e a destrutturare il futuro. Il nuovo che nasce non può nascere dalla lucida disperazione di Bonocore. Il testo narrativo di Rea ha almeno altri due splendidi antesignani: Le mosche del capitale di Volponi e La chiave a stella di Primo Levi. Il problema è che ognuno legge con gli schemi che ha nella propria testa. Ma i fatti hanno la testa ancora più dura. E così, mentre si discetta della dismissione dalla civiltà del lavoro, il padronato della stessa città di Revelli, Torino, mette davanti agli occhi di chi sa vedere il fallimento della in-civiltà del capitale. E Arese, come Termini Imerese, e Taranto come Cornigliano  diventano Bagnoli, perché la parabola di Bagnoli è la parabola di un fallimento non del moloch industrialista, ma dei rapporti di produzione capitalistici. Che forse non sono un moloch invincibile, se solo si sa leggere nel romanzo della vita dei lavoratori.

  Ó Ferdinando Dubla


 


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