Recensione a: E.Rea-La dismissione
LA
DISMISSIONE DEL CAPITALE
L’ultimo romanzo di Ermanno Rea descrive l’inesorabile fine dell’era industrialista, come sostiene Revelli, o la verità dell’affermazione di Marx secondo cui il capitalismo entra in conflitto con lo sviluppo delle forze produttive?
Il merito di alcuni romanzi è quello di entrare con
rara efficacia, meglio di tanti e tanti saggi sociologici (o di altro
tipo), nella propria epoca storica, interpretandola in profondità
attraverso la vita degli uomini e delle donne, i loro comportamenti,
atteggiamenti, sentimenti. Romanzo particolare: la forma scelta dallo
scrittore napoletano Rea nel suo La
dismissione
(Rizzoli, 2002), che racconta la fine di una delle fabbriche-simbolo del
Sud, l’acciaieria Ilva di Bagnoli, è quella del racconto autobiografico
di uno dei protagonisti in carne e ossa, un tecnico delle “colate
continue”, Vincenzo Bonocore. Ne scriviamo in modo tutt’altro che
neutro, in quanto la similitudine tra la dismissione di Bagnoli e i
processi di deindustrializzazione che investono l’area di Taranto,
anch’essa con l’Ilva (passata però in mani private), sono
impressionanti. Se infatti un qualsiasi lettore di narrativa contemporanea
potrà forse trovare uggioso l’uso di continui termini tecnici, e la
descrizione così dettagliata dei processi di produzione (le colate, le
siviere, i laminatoi, i parchi minerali, ecc..), per tanta popolazione, di
Taranto e di Terni e ovviamente di Bagnoli, sono termini familiari,
domestici, di uso frequente, comprensibilissimi. Così come i paesaggi
descritti: i tramonti “bruciati” guardando verso il Vomero hanno lo
stesso colore dell’aria rugginosa del quartiere Tamburi (quello a
ridosso della fabbrica) della città jonica. Dunque, anche il tipo umano:
quanti Bonocore vi sono e vi sono stati che animano e che hanno animato la
fisionomia della popolazione operaia, specie qui al Sud? Anche se Bonocore
non è un operaio qualsiasi: è un tecnico, un operaio specializzato, uno
di quelli che in gergo leninista si sarebbe collocato nell’aristocrazia
operaia. Ma assurge a simbolo dell’intero homo
faber del
Novecento: in lui si incarna sia l’operaio sociale dell’epoca fordista,
sia l’operaio-massa dell’epoca dell’industrializzazione a grande
scala degli anni ’60; la sua memoria è quella e viene introdotta nella
narrazione dal ricordo delle grandi battaglie per i diritti e
l’emancipazione. Revelli, recensendo il libro di Rea (vedi Carta
nr.35/2002) ha intravisto la conferma del declino di quest’epopea (“Ferropoli”),
destinata a lasciare un cumulo di macerie e detriti, soffocanti gli
aneliti di speranza e di riscatto sociale connessi proprio a
quell’epoca. Bonocore, insomma, “dismette” se stesso e la sua
storia, e lo fa con gli strumenti suoi propri, la ricerca della perfezione
nel lavoro e della sua “scientifica” organizzazione, con la tradizione
determinata dell’operaio-artigiano, incarnata dal ricordo della figura
del padre scalpellino del legno e maestro del lavoro “a regola
d’arte”. L’uomo di
“ferro”, insomma, uccide con il proprio lavoro se stesso, perché
distrugge con certosina minuziosità e cura del dettaglio gli stessi
strumenti del proprio lavoro. Gli strumenti del proprio lavoro: già, ma
proprio qui è il punto. Dagli assunti di Revelli, che pure cita Gramsci,
scompaiono le voci rapporti di produzione e forze
produttive. La questione proprietaria, cioè,
è omessa. La dismissione di Bagnoli, e dunque tutte le dismissioni, sono
la fine di un’epoca: dunque, un destino ‘cinico e baro’ a cui non
solo non si può resistere, ma non si deve, perché collocherebbe la
resistenza fuori tempo storico. Eppure, non era stato Gramsci, le note su Americanismo
e fordismo,
a rilanciare la questione in chiave marxista, per comprendere come gli
assetti produttivi siano determinanti per la conformazione sociale, sia dal lato del
capitale, sia da quello del lavoro? L’analisi gramsciana sarebbe
incomprensibile senza questo sforzo di comprendere il tipo umano che il
capitale vuol rendere funzionale ad esso e il tipo umano che la civiltà
del lavoro liberato deve rendere consapevole della propria forza di
“società”. Non è solo questione di coscienza di classe: questa si
conquista con la lotta contro il capitale, non con le perorazioni
ideologiche; ma sono le forme dell’unità sociale che nel socialismo
costituiranno la base della definitiva emancipazione dallo sfruttamento e
dai rapporti sociali capitalistici. Se dunque si cita Gramsci, questo è
l’orizzonte. Che è lo stesso aggiornamento di Marx e dell’analisi dei
Grundrisse sulle forme antitetiche dell’unità sociale.
Insomma, Revelli non si accorge che il romanzo di Rea può essere letto
anche in un’altra chiave, e cioè la dismissione sì, ma del capitale, i
cui rapporti di produzione confliggono ad un certo stadio di sviluppo con
le forze produttive. Imbrigliandone le potenzialità espansive,
l’intelligenza e la creatività, il prodotto dell’umano ingegno e
dell’operosità laboriosa. Forze produttive e forze sociali che vengono
espropriate della decisione sul proprio destino e costringono a rendere
profitto privato anche le macerie e a destrutturare il futuro. Il nuovo
che nasce non può nascere dalla lucida disperazione di Bonocore. Il testo
narrativo di Rea ha almeno altri due splendidi antesignani: Le
mosche del capitale
di Volponi e La chiave a stella di Primo Levi. Il problema è che ognuno legge con
gli schemi che ha nella propria testa. Ma i fatti hanno la testa ancora più
dura. E così, mentre si discetta della dismissione dalla civiltà del
lavoro, il padronato della stessa città di Revelli, Torino, mette davanti
agli occhi di chi sa vedere il fallimento della in-civiltà del capitale. E Arese, come
Termini Imerese, e Taranto come Cornigliano
diventano Bagnoli, perché la parabola di Bagnoli è la parabola di
un fallimento non del moloch industrialista, ma dei rapporti di produzione
capitalistici. Che forse non sono un moloch invincibile, se solo si sa
leggere nel romanzo della vita dei lavoratori.
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