Relazione di Ferdinando Dubla al Convegno di Carrara sulla figura di Secchia
SECCHIA, IL PCI
E IL CARATTERE DELLA RESISTENZA ITALIANA
Il 25 ottobre scorso si è tenuto a Carrara un convegno organizzato da L'Ernesto toscano su "La figura di Pietro Secchia nella storia del comunismo italiano". Primo relatore, Ferdinando Dubla, la cui relazione pubblichiamo di seguito
Secchia porta nella Resistenza italiana la concezione della guerra popolare e della lotta di classe
Convegno Carrara, 25 ottobre 2002 Relazione di Ferdinando Dubla, storico del movimento
operaio e responsabile del Centro Studi “Pietro Secchia” di Taranto L’espressione “guerra
civile” è un’ espressione terribile: rimanda, nell’analisi storica,
a lotte fratricide, a conflitti intestini, a battaglie tra fazioni dello
stesso popolo e della stessa patria. La storiografia marxista che ha
interpretato la Resistenza antifascista, ha teso a negare il carattere di
“guerra civile” del periodo 25 luglio 1943/25 aprile 1945. Anzi, in
qualche modo ha legato il termine ad un uso inaccettabile,‘revisionistico’,
quasi che la categoria potesse ‘legittimare’, per dir così, l’altra
parte politica, formata da coloro i quali combatterono la resistenza
alleati dei nazisti che occupavano e terrorizzavano il nostro paese. Oggi
che il revisionismo storico è all’offensiva, nonostante la povertà
dell’analisi o la pochezza documentaria di supporto, nonché
molte volte si riveli una cialtroneria iperideologica di nessun
valore solo amplificata e riprodotta dai mass-media, la categoria ha
ripreso vigore, sebbene in un senso e con un significato tali, volti a una
finalizzazione neanche tanto scoperta: la pacificazione, la conciliazione,
la cancellazione del passato (doloroso perché fratricida) in
un’indistinta marmellata in cui torti e ragioni, ideali e tradimenti,
annegano nella notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere. C’è
però un altro possibile utilizzo della categoria, che potrebbe rivelarsi
fecondo: separata dalla sua finalizzazione ‘revisionistica’ e legata
invece agli altri due caratteri della Resistenza antifascista: il
carattere di guerra popolare (progressivamente popolare) e quello di lotta
di classe. (1)
In
una riappropriazione, quindi, nell’ambito degli studi storici e
storiografici di tendenza marxista, seguendo una linea che emerse
spontaneamente dalla memorialistica documentaria di alcuni importanti
Pietro
Secchia (1903/1973), dirigente di primo piano del PCI e poi, esautorato
delle sue dirette responsabilità politiche di partito (dal 1954), storico
attento della guerra popolare di liberazione nazionale,
ha sempre calato il suo giudizio interpretativo nella diretta
verifica degli avvenimenti e dei processi innescati dalla Resistenza, non
solo dalle sue avanguardie (alle quali apparteneva), ma anche, per così
dire, dalle forze oggettive
in movimento. Per cui la Resistenza gli apparve, e subito, già nel fuoco
della battaglia in corso, contemporaneamente
guerra civile, lotta nazionale e
lotta di classe. L'esito
finale, naturalmente, fu l'intrecciarsi di questi tre elementi e il
concorso non di contraddizioni, ma di una prassi che si era sviluppata ai
due livelli, politico e militare. Guerra progressivamente popolare
al Nord, e altrettanto progressivamente, sotto l'incalzare degli
avvenimenti, di liberazione nazionale per l'intero territorio del
nostro paese, ma con diversi condizionamenti oggettivi, in difensiva
e in controffensiva più generale ogniqualvolta l'egemonia
dell'iniziativa si sviluppava dalla
classe operaia e dalle avanguardie militari più avanzate. Fu
aspra guerra civile, come in tutti i paesi occupati dall'hitlerismo e "anzi
da noi più che altrove, poichè i nazisti trovarono in Italia l'appoggio
di non pochi fascisti". (2) In ogni regione, in ogni provincia, in ogni villaggio,
finanche all'interno delle stesse famiglie, drammaticamente, italiani
combatterono contro italiani. Non
erano stati i carri armati tedeschi a portare il fascismo in Italia:
dunque fu indubitabile il carattere di guerra civile. Ma la Resistenza non fu prevalentemente questo: essa unificò la lotta contro
l'oppressore straniero con la specificità antifascista,
lotta guidata dalla classe operaia, dal proletariato di fabbrica: "pertanto,
la guerra di liberazione fu lotta nazionale e al tempo stesso lotta di
classe."
(3) Fu
proprio l'aspetto sociale della lotta operaia che pose alla testa della
guerra partigiana il Partito Comunista, la forza politica che aveva resistito
maggiormente con la sua organizzazione prima del 25 luglio ‘43 e che
per i suoi obiettivi avanzati e la rappresentatività politica attiva,
conquistò la leadership militare (in quantità e qualità), non più in
mera posizione di 'resistenza', termine
in voga in Francia ed entrato nell'uso corrente solo nel dopoguerra, ma in
quella di massima controffensiva possibile, spostando i rapporti politici
su terreni più avanzati. Partigiani,
membri 'di una parte', banda, distaccamento, brigata d'assalto, ecc.., non
semplici 'resistenti'. L'esperienza storica nazionale e internazionale,
entrava nell'esperienza vissuta sul campo: "Nell'organizzare
la lotta partigiana noi comunisti traemmo insegnamento dai classici del
marxismo, dagli scritti di Marx, di Engels, di Lenin e di Stalin, dalle
gloriose tradizioni del Risorgimento; specialmente le ardite imprese
garibaldine furono lievito e stimolo per la nostra guerra di liberazione;
tuttavia gli insegnamenti scaturiti da quelle imprese leggendarie, per
quanto preziosi, erano patrimonio di pochi; l'opera degli eroi popolari
del Risorgimento, le azioni audaci e geniali di Garibaldi, di Mazzini, di
Pisacane, dei Bandiera, la letteratura della lotta per bande e dei
classici del marxismo erano pressoché sconosciute alle larghe
masse." (4)
Connaturata
alla prospettiva del socialismo che si costruisce nel processo
rivoluzionario, concependo la democrazia non come insieme di regole
formali, ma nell'intima sostanza di autogestione popolare, come nella
vicina Jugoslavia, il potere del popolo doveva sgorgare dalle modalità
stesse della liberazione dei territori occupati, nel rafforzamento
progressivo e continuo delle 'zone libere': "L'esempio della
creazione delle "zone libere" ci venne dai partigiani jugoslavi,
che sin dal primo anno di guerra si erano organizzati in vista di uno
sviluppo continuo, passando alla liberazione di larghi territori che
andarono via via ampliandosi, collegandosi, rafforzandosi, diventando basi
politiche e militari per la creazione del nuovo potere popolare, di un
esercito regolare, di un nuovo stato nel corso della guerra stessa." (5) E'
così che militarmente si passava dalla difesa all'attacco, è così che
politicamente si costruivano 'fortezze' e 'casematte' nella società
civile, istituti della democrazia sociale, cuore
della società socialista che diviene. Proprio perchè consapevoli
dell'importanza dell'autogestione popolare nelle zone liberate
autonomamente e 'manu militari' dalle brigate partigiane, le forze
conservatrici frapporranno ostacoli di non poco conto alla realizzazione
conseguente di forme istituzionali schiettamente democratiche. Si prenda
l'esempio, caro a Secchia e naturalmente a Cino Moscatelli, della
liberazione della Valdossola nella tarda estate del '44: "I
garibaldini operarono attivamente perchè venissero designati dai CLN
locali, nei diversi comuni, i sindaci al posto dei commissari prefettizi,
perchè avessero luogo comizi, assemblee sindacali e le elezioni delle
commissioni interne nelle fabbriche. Sciolti i sindacati fascisti, venne
ricostituita a Domodossola la Camera del Lavoro. Si riorganizzarono i
partiti (specialmente comunista, democristiano e socialista) e le
associazioni di massa. Il Fronte della Gioventù costituì delle sezioni a
Villadossola, Domodossola e a Varzo. Notevole attività venne sviluppata
dai Gruppi di difesa della donna. In ogni comune si andavano costituendo
dei consigli comunali popolari". (6) Ricostruendo la
partecipazione popolare intorno ai nuovi istituti di democrazia diretta, i
comunisti ritenevano di rafforzare la loro prospettiva, stavano edificando
il partito 'nuovo' radicato nelle masse popolari, non più forza di mera
agitazione e propaganda. Ma nel caso della Valdossola il coraggioso
tentativo durò trentaquattro giorni, esperimento politico parabola
dell'intero slancio resistenziale non solo in chiave difensiva, ma in
controffensiva di classe e popolare, politica e militare: battuta dai
condizionamenti oggettivi, dalla reazione violenta del nemico, a causa
dello scarso aiuto alleato e dell'innegabile debolezza interna della
stessa repubblica. Fu allora un errore militare, una sopravvalutazione incosciente, come allora qualcuno sostenne? Secchia non ha dubbi, e al riguardo, scrive anche una grande pagina di guida alla guerra partigiana, da lui mai concepita in termine di passiva resistenza e attesismo: "Non
è possibile separare l'azione politica dall'azione militare. Se si
riconosce che politicamente la liberazione dell'Ossola portò un grande
impulso alla guerra di liberazione nazionale, entusiasmò le popolazioni,
accentuò la demoralizzazione nelle fila fasciste, dimostrò che si poteva
insorgere e liberare intere zone, se tutto questo è
vero, è evidente che non si trattò di un errore nemmeno dal punto di
vista militare." (7) Se
le battaglie partigiane, dunque, non devono avere mai un carattere
avventurista, dosando sapientemente uomini e mezzi, la tattica della
guerriglia deve prevedere anche la liberazione, seppure temporanea, dei
territori in mano al nemico. Altre le debolezze, altre le insufficienze,
altri i condizionamenti oggettivi: "Quel che è certo, è che non
vi fu allora una visione
del tutto chiara degli obiettivi
e delle possibilità,
nè un impegno sufficiente di
tutti i movimenti patriottici per realizzare un'effettiva profonda unità
delle forze in lotta, per dare impulso alla vita democratica, per
promuovere un più largo movimento di massa nella zona libera, per
valorizzare internazionalmente la lotta del popolo italiano." (8) La
dialettica resistenziale può essere compresa tutta nella liberazione,
formazione della Repubblica e nuova perdita del territorio della
Valdossola. E nell’analisi dello scontro
concreto, le categorie degli storici ritrovano la loro fecondità solo per
meglio esprimere un processo non lineare e immediato, non privo di
contraddizioni, come tutti gli eventi umani, specie perché filtrato dalla
passione, dai sentimenti, dalla coscienza dell’intero popolo italiano.
Guerra civile, lotta nazionale,liberazione popolare e lotta di
classe; qui, appunto, si scopre la fecondità della marxiana dialettica
materialista nell’analisi e nell’interpretazione storica: sempre la
realtà è più complessa delle rappresentazioni descrittive con cui ci si
sforza di comprenderla. Unità
delle forze popolari, di tutti i democratici e gli antifascisti per
sconfiggere il comune nemico, il nazismo e il tardo-fascismo suo ascaro:
questa la linea che Togliatti espone al suo ritorno in Italia, nel marzo
1944 e che si collegherà strettamente ad una visione strategica che avrà
come caposaldi la democrazia
progressiva
e il partito
nuovo.
Compito dei dirigenti comunisti della Resistenza sarà quello di
coniugare, nell'azione concreta, la linea politica del partito (la tattica
contingente, come l'abbandono della pregiudiziale antimonarchica e la
disponibilità ad entrare nel governo di Badoglio) e la necessità di
preparare l'insurrezione, contro la cui evenienza si scateneranno le
resistenze dei reazionari e moderati presenti nei CLN (in molte regioni
senza avere alcuna parte sul piano militare) e-ma, soprattutto, degli
Alleati anglo-americani. Chi
valuta l'esito della Resistenza non deve mai dimenticare questi due
pesantissimi condizionamenti: la
differenziazione Nord/Sud e l'intervento alleato. Chi operava al Nord,
come Secchia e Longo, non avrà quasi nessuna difficoltà ad accettare
quella che poi passerà alla storia come 'la svolta di Salerno', in quanto
piegherà la linea politica all'esigenza dell'azione concreta e
dell'insurrezione; diversa la situazione del centro di direzione di Roma,
guidato da Scoccimarro, il più fiero 'resistente'
(almeno inizialmente) di quella che sembrava una tattica fin troppo
arrendevole nei confronti dei conservatori e dei complici dei fascisti, e
cioè le forze monarchiche. Paradossalmente, sembra a noi, che la lettura data da
Scoccimarro alla linea togliattiana fosse più propriamente politica, in
quanto prefigurava una possibile involuzione del partito sul piano dei
princìpi e un cedimento grave alla prospettiva strategica, la lotta per
il socialismo. Per cui
Scoccimarro si vide 'scavalcato' da una leadership, quella togliattiana,
che era maturata comunque
fuori dalle lotte nel paese, anche se aveva ora l'imprimatur, l'assenso o
la concordanza preventiva con Mosca. E l'assenso del centro di direzione
di Milano fu prevalentemente dettato, oltre dall'elemento-azione
(l'unità all'interno
del CLNAI era necessaria e indispensabile per raccogliere il massimo delle
forze e stendere al massimo il vigore dell'organizzazione combattente),
anche dalla considerazione di Longo sull'inattendibilità per la guida al
più alto livello del partito da
parte
di Scoccimarro e dal dissapore con quest'ultimo sulla questione del
centro unico di direzione (che Scoccimarro voleva fortemente a Roma).
Secchia è d'accordo con Longo e per tutte e tre le ragioni che abbiamo
riportato. Ma ciò non significa una pedissequa sua accettazione delle
direttive di Togliatti sulle prospettive strategiche: le considera in quel
momento secondarie rispetto all'azione concreta da svolgere e le giudica
in rapporto alle necessità dell'insurrezione, che può aver successo solo
con il massimo dell'unità delle forze dell'opposizione antifascista e
antinazista, superando le resistenze che si manifestano con l'attendismo e
nella volontà di restaurazione delle forze conservatrici, spalleggiate
dagli Alleati, e perciò sovrarappresentate e considerate rispetto al loro
apporto concreto alla Resistenza. Secchia naturalmente rifletterà poi a
lungo su questo momento cruciale della vita e della storia del PCI: da
quel momento, infatti, egli sarà costretto ad entrare nella linea
politica del segretario, per spingerla il più avanti possibile
nell'interpretazione strategica, che per lui non cambierà mai:
l'instaurazione di una società socialista. -
Qual'era la situazione concreta che si presentava al partito nel 1944 e
prefigurava i suoi nuovi compiti durante e dopo la Liberazione?
Certamente, non era possibile un radicamento del partito se questo avesse
mantenuto i connotati del partito di propaganda e agitazione che lo
avevano caratterizzato fino all'organizzazione della Resistenza:
non bisognava disconoscere che
quel partito aveva avuto grandi meriti storici, ma bisognava
mutarne la fisionomia come forza politica di massa. La linea politica,
allora, non poteva non avere il respiro unitario che Togliatti le dava,
tanto più che questo agevolava il compito dei comunisti all'interno degli
organismi del CLN e faceva venir fuori con evidenza le sedimentazioni
reazionarie dei raggruppamenti
moderati, i liberali e i democristiani in primis. Ciò che non poteva
venire a mancare era l'obiettivo di prospettiva: ma di prospettiva appunto
bisognava parlare, non essendoci le condizioni oggettive per trasformare
l'insurrezione in rivoluzione popolare per il comunismo,
dovendosi lavorare ancora innanzi tutto per la stessa insurrezione,
con il concorso di quelle stesse forze che pur le remavano contro. Nella
lettura di Secchia, l'unità delle opposizioni era funzionale alla
democrazia progressiva, terreno più favorevole per la prospettiva
strategica, che avrebbe permesso il radicamento popolare del 'partito
nuovo',
senza che questo
mutasse le caratteristiche di partito di classe: nel senso di non smarrire
mai anche la funzione di avanguardia da parte dei quadri e la ricerca
della direzione (egemonia) della classe operaia sull'intero movimento
delle masse.
Secchia era infatti ben
consapevole delle insufficienze e limiti del partito cospirativo, specie
per quanto riguardava l'organizzazione e il rapporto con le masse durante
gli anni del regime mussoliniano: "L'errore
fu di non aver portato rapidamente il centro di gravità di tutto il
lavoro di massa nelle file stesse del nemico, di non aver portato nelle
forme opportune la nostra azione politica in seno alle organizzazioni di
massa create o controllate dal fascismo (sindacati fascisti, dopolavoro,
mutue, associazioni sportive, culturali, cooperative) utilizzando
largamente per lo sviluppo della nostra azione ogni più piccola
possibilità legale. Il partito doveva sì rispondere come aveva risposto
all'offensiva reazionaria fascista, ma mentre si poneva alla testa delle
avanguardie più coscienti e combattive doveva proporsi con nuovi metodi
di lavoro di non perdere, anzi di allargare il contatto con tutti quegli
strati popolari che il fascismo si sforzava in mille modi di 'conquistare'
e influenzare." (9) La
'svolta di Salerno', dunque, fu
letta in questa chiave da Secchia e l'interpretazione fu rafforzata dalla
convinzione che la linea politica fosse stata, se non concordata
preventivamente, sicuramente condivisa da Mosca: ciò non poteva non
rafforzare il convincimento che l'azione combattente in quella fase
potesse trarre giovamento dalla tattica del partito, sebbene potesse (e
così fu) interpretarsi in diversi modi ('una linea politica è costituita
da diversi punti' scriverà in seguito) la più complessiva dimensione
strategica della democrazia progressiva, che doveva accelerare,
secondo la sua lettura e non ritardare il processo rivoluzionario
necessario in occidente. Questi
principi entrano, sebbene naturalmente non nella forma di compiuta
riflessione che si avrà solo posteriormente, nella risoluzione del 17
aprile 1944 della direzione del Nord del PCI, in appoggio all'iniziativa
di Togliatti, opera soprattutto di Longo e
Secchia: "La
direzione del partito per l'Italia occupata approva all'unanimità
l'iniziativa presa dal compagno Ercoli (P.Togliatti) tendente alla
costituzione immediata di un governo nazionale democratico non escludente
la collaborazione governativa con Badoglio, e la linea politica che ne
risulta, fissata e illustrata dalle dichiarazioni e dal messaggio dello
stesso compagno Ercoli. (..)Il Partito comunista italiano pone la necessità
della creazione di un esercito italiano potente e grande che combatta e
vinca, pone l'esigenza di epurare definitivamente la vita nazionale dal
fascismo, come condizione elementare per la condotta della guerra e
condizione primordiale per la rinascita nazionale. (..)
Si deve lavorare per mobilitare tutto il partito alla realizzazione
dell'unità di tutte le forze nazionali, per portarle alla lotta di
liberazione nazionale e alla vittoria e trovare così nel lavoro, nella
lotta e nell'elaborazione delle comuni esperienze la via per realizzare
l'unità organizzativa, politica e ideologica di tutto il partito, per
fondere in un solo blocco tutti i compagni, i nuovi reclutati come i
vecchi militanti."
Unità
del partito, dunque, e il riferimento è implicitamente rivolto ad
Amendola, Negarville e Novella, che avevano utilizzato 'la svolta' per
aggravare, 'appesantire' le loro critiche alla leadership di Mauro
Scoccimarro, a sua volta però in polemica nei confronti della direzione
del Nord; il gruppo dirigente milanese, si collocò a mezza strada tra le
posizioni sostenute da 'Scocci' (con cui si aveva una polemica personale e
una critica che potremmo definire di natura 'attendista' o comunque un
giudizio sul ruolo del partito non all'altezza dei compiti che gli
derivavano dall'essere in una situazione di 'guerra') e quelle di altri
autorevoli membri del centro romano (Novella, Negarville, Amendola), che
interpretarono sempre di più 'la svolta' in chiave strategica e non
tattica, piano che non poteva trovare consenzienti, almeno in quel periodo
e per quella fase, nè Longo nè Secchia, nè altri compagni dirigenti
impegnati a guidare il movimento partigiano. I 'milanesi sono preoccupati
che tutto ciò porti non ad un rafforzamento delle capacità organizzative
e di mobilitazione
dei comunisti, ma, proprio mentre si richiedono dibattiti e dibattiti,
prese di posizione e ragionamenti
articolati
sulla fase, ecc..,
ci
si sclerotizzi in un immobilismo, questo sì burocratico e incapace di
articolare l'azione all'esterno, che deve invece diventare il proposito
principale. Anche se il caso-Venegoni dimostra dell'insofferenza di ampi
strati del partito ad una linea politica i cui tratti sono decisi troppo
dall'alto e quindi suscettibili di troppo ampia manovra tattica, a seconda
delle convenienze del momento dei gruppi dirigenti. Ne è esempio la
pregiudiziale anti-monarchica, che diventa più fievole solo dopo il
congresso di Bari dei CLN il 28 e il 29 gennaio del '44 "quando
divenne sempre più evidente"
- annota Secchia - "l'incapacità
della giunta esecutiva dei CLN (essa avrebbe dovuto rappresentare
l'anti-governo) di uscire e fare uscire le forze antifasciste dal vicolo
cieco in cui si trovavano."
(11) E' vero che già
vi erano le premesse di un mutamento di linea politica, ma quando il 9
gennaio i dirigenti di Napoli, Velio Spano e Eugenio Reale, si erano
incontrati con i componenti del Consiglio consultivo alleato in Italia e
avevano ribadito la necessità della formazione, in tempi ravvicinati, di un altro governo, guidato da una personalità non
compromessa con la monarchia, non potendosi accettare, per questo motivo,
le profferte di Badoglio di un ingresso dei comunisti nel suo governo,
unanimemente si crede così di interpretare correttamente e le
deliberazioni della Conferenza di Mosca e le opportunità politiche legate
al rapporto tattica/strategia. L'iniziativa
di Togliatti si situa in questo contesto, solleva reazioni, approvazioni,
riprovazioni, intrecciandosi con la situazione del momento e con quella
del passato, e non solo recente, come abbiamo cercato di evidenziare;
comunque "scoppiò
come una bomba suscitando negli altri partiti della giunta e del CLN
vivaci discussioni, ma i più non potevano disconoscerne il realismo, ne
accettarono l'impostazione e comunque ne subirono l'influenza."
(12)
La
ricezione della nuova linea togliattiana fu favorita, all'interno del PCI
(nel suo gruppo dirigente, in quanto a livello di base sarebbe una storia
da analizzare più compiutamente, sicuramente comunque e alfine assunta
per quel profondo 'senso di disciplina' politica,
caratteristica saliente del partito 'bolscevico e leninista', come
rivendicano orgogliosamente Secchia
e Longo) dalla sua interpretazione in chiave tattica dal gruppo di
direzione del Nord, che se ne giova sul contingente piano politico, perchè
bisogna confermare la leadership di Togliatti rispetto a quella di
Scoccimarro (elemento su cui concorda una parte del gruppo dirigente di
Roma, che dà però alla 'svolta' un respiro strategico e non meramente
tattico, che pretende profonda 'autocritica' rispetto alla linea politica
perseguita fino a quel momento) perchè, ma non ultimo,
questa è evidentemente la linea concordata con Mosca e che quindi
risponde ad una più larga visione che
guarda ai rapporti di forza internazionali.
Ed
in effetti, il 14 marzo il governo sovietico stabilisce rapporti
diplomatici con il governo Badoglio, andando oltre i protocolli
dell'armistizio e della Conferenza di Mosca. E il 30 marzo (lo stesso
giorno della Conferenza nazionale del PCI a Napoli)
l'Isvestia
pubblica un lungo articolo sulla situazione italiana in cui
"Si precisa che l'attuale scopo degli sforzi dell' Unione Sovietica
è di far sì che tutte le
forze
antifasciste italiane si riuniscano intorno al governo Badoglio per la
lotta contro la Germania hitleriana."
(13) Togliatti
delinea tre condizioni per la formazione di un governo di unità
nazionale, condensabili in 1) unità delle forze democratiche; 2) parola
d'ordine dell'Assemblea Costituente; 3) coerente programma di guerra. "Rivoluzionario", ammonisce, ben consapevole evidentemente
della breccia che poteva aprirsi così a sinistra, " non è colui che grida e si agita di più, ma colui che
concretamente si adopera per risolvere i compiti che la storia pone ai
popoli e alle classi, e che essi devono assolvere se vogliono aprire il
cammino allo sviluppo della civiltà umana."
(14) Sono queste le
basi su cui il massimo dirigente del PCI innesterà poco dopo la strategia
della 'democrazia progressiva' e dei caratteri del 'partito nuovo'. Nel
luglio 1944 la 'svolta' è già completa: "Democrazia
progressiva è quella che guarda non verso il passato, ma verso
l'avvenire. Democrazia progressiva è quella che non dà tregua al
fascismo, ma distrugge ogni possibilità di un suo ritorno. Democrazia
progressiva sarà in Italia quella che distruggerà tutti i residui
feudali e risolverà il problema agrario dando la terra a chi la lavora;
quella che toglierà ai gruppi plutocratici ogni possibilità di tornare
ancora una volta, concentrate nelle loro mani tutte le risorse del paese,
a prenderne nelle mani il governo, a distruggere le libertà popolari e a
gettarci in un seguito di tragiche avventure brigantesche. Democrazia
progressiva è quella che liquiderà l'arretratezza economica e politica
del Mezzogiorno, spazzando i gruppi reazionari che di essa sono
l'espressione e vivono di essa; è quella che riconoscerà i diritti della
Sicilia e della Sardegna a un reggimento autonomo in una Italia unita e
indipendente. Democrazia progressiva è quella
che organizzerà un governo del popolo e per il popolo, e nella
quale tutte le forze sane del paese avranno il loro posto, potranno
affermarsi ed avanzare verso il soddisfacimento di tutte le loro
aspirazioni.". Per
l'applicazione di questa linea politica era necessario un partito
comunista rinnovato, un 'partito nuovo': "(..)
un partito nuovo, un partito il quale, animato da un nuovo spirito, sia
quello che noi non siamo mai stati in Italia, cioè un grande partito di
massa e di popolo, solidamente fondato sulla classe operaia, ma capace di
inquadrare tutte le energie progressive che vengono a noi da tutte le
parti, gli intellettuali, i giovani, le donne."
(15) 'Democrazia
progressiva' e 'partito nuovo' sono elementi caratterizzanti della svolta
richiesta al PCI da Togliatti, certamente conseguenza della presa di
posizione nei confronti del governo Badoglio, ma non immediatamente
percepibili ancora nell'aprile del '44, se è vero che gli 'svoltisti' più
entusiasti, come Negarville, Amendola e Novella, impostano i loro interventi,
come quelli alla riunione della direzione
romana del 3 aprile e alla riunione delle due delegazioni delle
direzioni tenutasi a
Milano il 12/13 aprile, più con la testa rivolta al recente passato e
alla critica alla guida politica di Scoccimarro, che
alle implicazioni profonde che saranno rese esplicite solo di lì a
poco. Tant'è che si intreccia ancora il dissidio con i compagni milanesi.
Nella riunione del 3 "Amendola
ammette che egli stesso ha preso una posizione erronea contro Novella e,
in un primo momento, anche contro Negarville, i quali erano per non
escludere una collaborazione politica con Badoglio, ma ultimamente,
aggiunge, è stato Scoccimarro a impedirci di lavorare per una nuova
formula che permettesse l'accordo con la monarchia. Quanto ai compagni di
Milano, l'accusa di Amendola è ancora più aspra di quella che ha loro
mosso Novella: la linea dei 'milanesi' è 'una linea che tende a
realizzare l'unione della nazione direttamente attorno al PCI, ad
esclusione degli altri partiti." (16) E
Negarville, spiega Scoccimarro alla riunione del 12/13, introduce un altro
elemento, la diversa esperienza e formazione, dunque un'angolazione
politica differente, tra i compagni che hanno scontato carcere e confino e
gli altri: "Egli
pensa che vi sono nella direzione due gruppi: quello proveniente dal
carcere e confino e quello preesistente nella direzione: il primo non ha
potuto assimilare ancora l'esperienza degli ultimi anni. Questo spiega il
dissenso." (17)
Ma ciò che interessa i compagni della direzione milanese in quel momento,
non è la dimensione strategica o tattica della nuova linea, anzi,
propenderebbero per la seconda consentendo con Scoccimarro, ma
l'organizzazione dell'azione combattente e il suo miglior risvolto
politico. Lo si evince, sempre nella riunione del 12/13, dall'intervento
di 'Gallo' (Luigi Longo) e 'Vineis' (Pietro Secchia). Affermerà
quest'ultimo: "Noi
siamo favorevoli a tutto ciò che rafforza la guerra contro la Germania e
contrari a tutto ciò che la indebolisce. (..) L'unità di tutte le forze
nazionali non la si realizza allargando solo verso destra, ci sono ancora
notevoli forze di massa che non sono rappresentate nei CLN, di qui la
necessità della creazione dei CLN di massa. (..) Ritengo che l'iniziativa
presa dal compagno Ercoli non significhi affatto condanna della linea
politica seguita dal partito. La linea politica seguita dal partito è
stata fondamentalmente giusta. Affermare questo non significa rifiutarsi
di fare l'autocritica, perchè l'autocritica si può fare anche se una
politica è stata fondamentalmente giusta. (..) A Roma si è parlato di
errore di tutta la nostra politica passata (si riferisce a Novella,
Amendola, Negarville,
ndr).
Questo
giudizio non è giusto. Ma in che cosa consiste per i compagni di Roma la
politica del partito? Sono parte fondamentale di questa politica gli
scioperi che abbiamo condotto, culminati nello sciopero generale di marzo,
le azioni dei gap, l'organizzazione delle brigate Garibaldi e la condotta
della guerra partigiana." (18) La discussione
doveva prendere una piega tutt'altro che accademica, per il gruppo
dirigente milanese, che già considera tutte quelle diatribe e chiarimenti
una perdita di tempo rispetto ai compiti impellenti che urgono, i compiti
della direzione generale e del coordinamento della lotta partigiana e
delle Brigate Garibaldi. La dimensione
strategica della nuova linea togliattiana apparirà dopo e
significativo è che 'custode' di quella ne diventerà Mauro Scoccimarro,
più di Amendola, sicuramente più di 'Botte'. Il quale, in sede di
ricostruzione storica, dimostra tutta la sua distanza, coeva e posteriore,
alla ricezione che della 'svolta' ne avevano fatto gli entusiasti del
gruppo romano: "Noi
non eravamo per il ritorno alla democrazia borghese tout-court e non
potevamo rinunciare ad operare ed a batterci perchè la classe operaia e
le masse lavoratrici potessero esercitare una funzione dirigente nel corso
della resistenza e nel rinnovamento dell'Italia all'indomani della guerra.
(..) l'autocritica si esprimeva in realtà in una critica severa,
radicale, al 'gruppo di compagni provenienti dal confino' (Scoccimarro,
Longo, Secchia, Li Causi) responsabili di avere fatto deviare il
partito."
(19) Ad
ogni modo, il 17 aprile 1944, una risoluzione della direzione del PCI per
l'Italia occupata viene approvata all'unanimità, laddove si plaude all' "iniziativa
presa dal compagno Ercoli tendente alla costituzione immediata di un
governo nazionale democratico non escludente la collaborazione governativa
con Badoglio e la linea politica che ne risulta, fissata e illustrata
dalle dichiarazioni e dal messaggio dello stesso compagno Ercoli."
(20) Per Longo e Secchia la linea della democrazia progressiva non è niente differente da quella precedentemente propugnata con l'espressione 'democrazia popolare'; l'impostazione togliattiana si traduce così: "nessun irrigidimento sull'estensione di un fronte di lotta, spregiudicatezza nel fare politica unitaria e insieme costante sforzo per spostare i rapporti di forza all'interno di un movimento reale, di uno schieramento effettivo, trasformazione dall'interno di una coalizione politica e ancora più sociale e militare. Non per un machiavellico travestimento ma per allargare la base popolare, di massa, della democrazia e della guerra di liberazione." Alfine per "la creazione di un potere popolare che sia espressione diretta della volontà di lotta delle masse nelle zone che i partigiani riusciranno a liberare con l'estate". (21) Tutti gli sforzi, dunque, per l'organizzazione del partito combattente, semmai le differenze appariranno dopo: "una linea politica costituisce sì un tutto, ma non un blocco monolitico", non è "una massa d'acciaio inerte", scriverà Secchia posteriormente. Di tutte le parti di una linea politica, alcuni elementi possono essere considerati poco in un momento, molto in un altro "presentare crepe (elementi d'errore), (alcuni elementi, ndr) sono suscettibili di logorarsi prima di altri, destinati a cadere presto, ad essere superati." (22) Per Togliatti e
per Secchia, e allora certamente per Luigi Longo, la linea politica della
'democrazia progressiva' non viene interpretata univocamente, e di questo
s'è cercato di dar conto dei motivi. Ma anche 'Ercoli' è cosciente delle
difficoltà che un'interpretazione in chiave di modifica strategica può
presentare nella ricezione complessiva fuori, ma specialmente dentro il
partito, se nella lettera della direzione romana del 1 aprile era
contenuta la seguente affermazione: "1.preparare
con senso politico il partito alla svolta tattica senza precipitazioni:
battere il chiodo contro eventuali resistenze settarie." E se
nella risoluzione della direzione del Nord in appoggio all'iniziativa di
Togliatti, datata 17 aprile, si sottolinea che "i rilievi autocritici, che mettono in rilievo insufficienze della
nostra azione politica, non intaccano la sostanza della linea politica del
partito (..) E' da respingere pertanto ogni interpretazione della politica
attuale del partito come una sconfessione della linea politica fin qui
seguita, come tacito riconoscimento della sua sostanziale erroneità, come
l'affermazione di un conflitto ideologico e di principi." (che è
in sostanza la posizione assunta da Scoccimarro) . E se infine, sempre la
direzione del Nord per l'Italia occupata, nel documento licenziato il 25
aprile 1944, accanto ad un palese riecheggiamento delle stesse parole di
Togliatti "Il
partito comunista (..) riafferma però i suoi principi repubblicani ed il suo
proposito di rivendicare domani con la repubblica democratica un regime di
nuova democrazia progressiva, capace di realizzare un rinnovamento
radicale e profondo di tutta la vita politica economica e sociale del
nostro paese, che renda impossibile ogni ricaduta nel passato e schiuda la
via alle forze popolari verso tutte le conquiste
dell'avvenire." , rivendica subito dopo il legame della 'svolta
tattica' con l'affermazione piena e coerente dei propri principi, la
battaglia per la società socialista: "Sotto la guida del partito comunista la classe operaia, lottando oggi all'avanguardia delle forze nazionali nella guerra di liberazione e d'indipendenza, operando domani quale artefice massimo della ricostruzione nazionale, acquisterà coscienza della sua funzione di classe dirigente della nazione ed alla testa di tutti i lavoratori del braccio e del pensiero muoverà verso le più alte conquiste del socialismo." (23) La 'svolta di
Salerno' destinata ad alimentare quella che è stata definita 'la
doppiezza' del partito togliattiano? O piuttosto interpretazioni della
stessa che rendevano funzionali alla contingenza politica ora un aspetto
(quello tattico) ora un altro (quello strategico), senza un legame fisso
tra l'uno e l'altro e senza che nè l'uno nè l'altro potessero offrire
un'univoca lettura dei compiti presenti e delle prospettive? Una linea
politica, questo in realtà, come ammonirà Secchia, non è "una
massa d'acciaio inerte". Certo, Togliatti, con 'democrazia
progressiva' "intendeva indicare una prospettiva temporalmente indefinita di
radicali cambiamenti nell'ordine dei rapporti istituzioni-potere-società,
per la fondazione dell'egemonia operaia: fare intervenire nella realtà
italiana 'come elemento nuovo di direzione di tutta la nazione, la classe
operaia e attorno ad essa, serrata in un fronte unico, le grandi masse
lavoratrici del paese.' "(24), ma, riguardo alla storia
successiva, in specie al rapporto Togliatti/Secchia, non si può
concludere semplicemente definendo '"varianti interpretative di una comune linea politica da non
mettere in discussione'" (25) le diverse visioni del
rapporto tattica/strategia, lettura
della realtà sociale/principi, organizzazione/processo
rivoluzionario (26); torniamo a ripeterlo ancora, 'la linea
politica non è un cavo d'acciaio inerte' e non lo sarà neppure nel
periodo 1946/54. V'è una coerenza importante che Secchia rivendicherà
sempre riguardo gli aspetti politici della sua azione nel '43/45 e che
coinvolgerà tutti gli esponenti della generazione dei 'combattenti
proletari', coerenza che è il filo comune tra le sue posizioni di allora,
la linea di classe propugnata come responsabile dell'organizzazione fino
al '54 e la sua posteriore riflessione storica. Nel suo celebre saggio su Nuovi argomenti del marzo-giugno 1962 (La Resistenza italiana - Nord e Sud),
scrisse significativamente: "Io
concepivo e concepisco il 'partito nuovo' come un partito che non deve mai
perdere di vista i suoi obiettivi programmatici generali, ed è
altrettanto vero che ci tenevo e tengo tuttora a sottolineare il carattere
di classe e l'ideologia rivoluzionaria del partito. Nella nostra
concezione del partito non vi è posto per i dogmi e per gli schemi
fabbricati una volta per sempre (lottando per modificare una data realtà,
il partito modifica anche se stesso) ma tengono il loro posto i principi
perchè un partito senza obiettivi programmatici non sarebbe neppure un
partito e senza carattere di classe e ideologia rivoluzionaria non sarebbe
un partito comunista. Non credo che su questi concetti possa esserci
dissenso tra comunisti."
(27) NOTE
(1)
Si deve fondamentalmente alle ricerche dello storico Claudio Pavone la
ripresa della categoria di “guerra civile” nell’ambito di studi
storiografici di impronta progressista ed esenti dal ‘revisionismo’.
Già Pavone aveva contestato, in sostanza, l’espressione abusata della
Resistenza come ‘secondo Risorgimento’ (cfr. Le idee della Resistenza.
Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento,
in Passato
e Presente, 1959,
pp. 850-918). Negli studi più recenti ha rilanciato la categoria di
‘guerra civile’ (cfr. Una
guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza,
Bollati Boringhieri, 1991) e ha analizzato le varie categorie
interpretative alla luce degli sviluppi successivi della storia d’Italia
(cfr. Alle
origini della Repubblica: Scritti su fascismo, antifascismo e continuità
dello Stato,
Bollati Boringhieri, 1995). Sul carattere di lotta ‘popolare’ della
Resistenza italiana, vedi il nr. speciale del 2002 de L’Ernesto
toscano e in particolare gli articoli di B. Bracci Torsi, Riflessioni
sulla Resistenza,
che confuta con sintesi efficace le tesi defeliciane dello scontro tra due
fazioni ‘esigue e ideologizzate’, e di M.Musu, una delle protagoniste
di via Rasella, Lotta
di popolo o terrorismo?. (2)
Cfr. gli Annali dedicati
a questi anni (1943/45), scritti per la Fondazione Feltrinelli ed editi
nel 1973 (vol.XIII) con il titolo Il Partito Comunista Italiano e la
guerra di Liberazione - Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Annali
(XIII), pag.XL. Secchia riporta
anche dati significativi sulle Brigate ‘Garibaldi’: su 1673 nominativi
censiti di quadri partigiani combattenti e organizzatori della Resistenza,
168 provenivano dall'esercito o dalla vita civile, mentre ben 1505 erano
dirigenti e militanti comunisti che avevano già fatto anni di carcere o
di confino. Le formazioni partigiane nel loro complesso raggiunsero i
70/80.000 effettivi nell'estate del 1944 e toccarono i 250.000 al momento
dell'insurrezione nazionale, ivi,
pp. 1064 e sgg. (3)
Ivi,
pag.XLI (4)
Ivi,
pp.XLI/XLII (5)
Ibidem (6)
Cfr. P.Secchia/C.Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano,
Einaudi, 1958, pag.389 (7)
Ivi,
pag.399. (8)
Ibidem.
Cfr.
anche G.C.Pajetta, rapporto su L'esperienza dell'Ossola liberata,
in Movimento di Liberazione in
Italia, nn.12/13, maggio-luglio 1951. (9)
Cfr.
P.Secchia: La generazione di Porto
Longone,
saggio pubblicato su Rivista
storica del socialismo,
nn.15/16 - gennaio-agosto 1962, sta in La Resistenza accusa -1945/1973,
Mazzotta, 1973, pag. 365. (10)
Cfr. L.Longo: I
centri dirigenti del PCI nella Resistenza,
Roma, 1973, pp.413/415. L'anno di pubblicazione dell'opera è quello della
morte di P.Secchia, che non potè vederla editata, pur avendo fattivamente
collaborato alla stesura con il suo archivio. Così viene presentato il
testo in prima pagina: "Nella preparazione di questo volume, Luigi
Longo aveva strettamente associato al suo lavoro Pietro Secchia, che con
lui era stato alla direzione del partito comunista nel nord e delle
brigate Garibaldi. La morte sopravvenuta quasi improvvisa (il 7 luglio
di quell'anno n.d.r.) ha tragicamente impedito a Pietro Secchia
di seguire il lavoro fino al termine e di partecipare alla stesura
definitiva dell'introduzione; è per questo che l'editore deve rinunciare
a mettere il suo nome sulla copertina di questo volume. Si vuole però di
Pietro Secchia, della cui presenza è traccia quasi in ogni documento
della direzione del nord, ricordare qui l'azione di dirigente in quel
periodo e successivamente l'attenzione costante ai problemi della storia
del movimento operaio e della Resistenza". (11)
Cfr. P.Secchia: Annali, a.XIII,
op.cit.,pp.390/391 (12) Ivi, pag.397. (13)
Cit. in Secchia,
ivi, pag.395. (14)
Cfr. P.Togliatti, Opere, vol.5
(1944/55), Roma, 1978,
pp.22/25, da cui è ripresa la citazione precedente e successiva. (15)
Cfr. P.Togliatti, dal discorso pronunciato a Roma al teatro Brancaccio, il
9 luglio 1944, ivi, pp.76/77. (16)
Cfr. P.Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, vol.V (La
Resistenza, Togliatti e il partito nuovo), Einaudi, 1975,
pp.316/317 (17)
Cfr. P.Secchia: Annali, a.XIII, op.cit.,
pag.403. (18)
Ivi,
pp.411/412 (19)
Ivi,
pag.399 (20)
Ivi,
pp.421/422 (21)
Cfr. P.Spriano, op.cit., pag.324 (22)
Cfr. P.Secchia: Archivio
1945/1973,
Annali Feltrinelli a.XIX,
1978, pag.559 (23)
Cfr. L.Longo, op.cit., pag.423
e, per i documenti precedenti, pag. 403 e 415. (24)
Cfr.G.C. Marino: Autoritratto del PCI staliniano, 1946/1953,
Ed.Riuniti, 1991, pag.23. (25)
Ivi,
pag.88. O nella abusata chiave
di lettura della 'doppiezza' buona a tutti gli usi, ora ultrarivoluzionari
ora ultrariformistici: "La
linea togliattiana fu infatti costantemente interpretata, e seguita dai
compagni, non come una linea che allontanasse dalla prospettiva del
socialismo, bensì come la strada maestra che avrebbe inevitabilmente
condotto al grande salto rivoluzionario e alle favolose conquiste del
'paese libero e felice'", ivi, pag.208. Ma di questo, e del ruolo
di Secchia, che secondo Marino (op.cit.,
pag.211) "guidava le passioni rivoluzionarie dei 'duri'", restii e
recalcitranti ad "un ordinato e
paziente lavoro politico" (proprio Secchia, il più convinto
assertore e propugnatore, nella pratica!, di codesta tipologia
di lavoro, certo rivoluzionario) ce ne siamo occupati in Ferdinando Dubla,
Da Gramsci a Secchia-Il primato dell’organizzazione nella costruzione
del PCI del dopoguerra (1945/51), Cesdom, 2001 (26)
Fondamentale, a questo riguardo, risulta la lettura degli scritti di
Secchia dal 1947 al 1949, cfr. I quadri e le masse-Per un Partito
comunista radicato nel popolo (1947/49), con introduzione e a cura di
Ferdinando Dubla, ed.Laboratorio Politico, 1996 (27)
Cfr. P.Secchia, in La Resistenza accusa, op.cit., pag.144
Il tema è trattato nell'ultimo lavoro di Ferdinando Dubla La Resistenza accusa ancora-Pietro Secchia e l'antifascismo comunista come liberazione popolare e lotta di classe (1943/1945), Nuova Editrice Oriente, 2002 |
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