Aginform intervista Ferdinando Dubla
CONVERSANDO
SU TOGLIATTI
Il bilancio critico dell’esperienza di Togliatti porterebbe a cimentarsi con una costruzione di partito comunista nel cuore delle contraddizioni capitalistiche dell’occidente.
Evitiamo
un Togliatti di
comodo, nel bene e nel male e assumiamoci le responsabilità che ci
competono.
Aginform ha posto alcune domande a Ferdinando Dubla, direttore di Lavoro Politico, nonchè storico del movimento operaio e studioso dell’Archivio Secchia, che ha prodotto una serie di pubblicazioni sulla storia del PCI (ultimi in ordine di tempo, “Da Gramsci a Secchia – Il primato dell’organizzazione nella ricostruzione del PCI del dopoguerra (1945/1951), Cesdom,2000 e “La Resistenza accusa ancora - Pietro Secchia e l’antifascismo comunista come liberazione popolare e lotta di classe (1943/45), Nuova Editrice Oriente, 2002), con l’intento di fare il punto sulla categoria controversa di ‘togliattismo’ e, più in generale, con il fine di sviluppare quel necessario bilancio critico della storia dei comunisti italiani così indispensabile per ridare slancio e vigore al progetto comunista in Italia. -
Si è manifestata e come, a partire dalla Resistenza e
dal periodo bellico, una dialettica interna al PCI e fino a tutto l’VIII
Congresso (quindi nel periodo 1943/1956), tale da poter dire che il
“togliattismo” non era l’unica strada possibile per i comunisti
italiani che uscivano dalla clandestinità? Una
dialettica di posizioni politiche, e anche molto vivace, c’è sempre
stata nel PCI, dalla sua fondazione: è inutile qui ricordare la sconfitta
della linea di Bordiga ufficializzata al Congresso di Lione del 1926 e il
prevalere dell’analisi gramsciana e della linea politica da lui ispirata
in quegli anni. Anche quando le condizioni esterne non lo permettevano e
la disciplina interna si voleva ferrea (con una ovvia corrispondenza
lineare fra entrambi i fattori), la discussione era molto serrata e lo
scontro tra personalità politiche e le loro diverse opzioni abbastanza
aperto. La storiografia del PCI e sul PCI (Spriano, Ragionieri, Ajello,
Agosti, Martinelli, ma anche molta memorialistica ecc.) si è soffermata
abbastanza sui casi più eclatanti, come quello di Bordiga, appunto o di
Terracini o di Giolitti e alcuni intellettuali dopo l’intervento
sovietico in Ungheria nel 1956 (e la posizione critica di Di Vittorio, ad
es.) e per i periodi successivi allo scontro Amendola-Ingrao (XI
Congresso) e la radiazione del gruppo de “Il Manifesto”- 1969; ma
troppo poco su dialettiche meno esplicite ma non per questo meno
importanti, anzi: quella tra Scoccimarro e Togliatti nel 1943/44 e quella
tra Secchia e Togliatti negli anni che vanno dal 1945 al 1954 (per non
parlare che nessuno o quasi si è occupato a dovere di figure emblematiche
come Teresa Noce ed Emilio Sereni). Non si può chiarire ciò che viene
chiamato “togliattismo” senza che si spieghi la sua vittoria tattica
su queste altre posizioni. Scoccimarro fu piegato subito: non accettando
in prima istanza l’abbandono della pregiudiziale antimonarchica, si negò
l’appoggio degli altri esponenti della direzione romana del PCI, come
Amendola, favorevoli alle più ampie intese. E d’altra parte, Longo e
Secchia, responsabili della direzione del PCI a Milano e impegnati in
prima linea nell’organizzazione
della lotta antifascista, avevano in profonda uggia l’ideologismo rigido
di Scoccimarro, non lo credevano personalità capace di dirigere un
partito comunista con quella necessaria flessibilità tattica che la fase
imponeva. Una flessibilità tattica, però, che non doveva e poteva
confliggere con i principi del marxismo e del leninismo, con la prospettiva
strategica del socialismo. Si può dire, schematizzando e semplificando
oltremodo, che Togliatti per far approvare la sua linea politica scava nel
cuneo di quella contraddizione. E ottiene l’approvazione della direzione
milanese, indispensabile per guidare il partito nel suo complesso e
riprenderne saldamente la guida dopo i circa vent’anni di permanenza a
Mosca. Ma la contraddizione riappare subito dopo la guerra. Togliatti
coniuga magistralmente due elementi che non necessariamente potevano
coniugarsi: la concezione della “democrazia progressiva” e quella del
“partito nuovo”. In cosa consistevano, e come li legge Secchia nella
sua analisi e nel suo concreto operare? Nella visione di Togliatti, non vi
era solo l’accettazione del terreno della democrazia parlamentare come
spazio di contesa tra forze sociali contrapposte, ma la sfera
istituzionale come prioritaria e preminente per la
mutazione dei rapporti di forza. E conseguentemente il partito doveva
organizzarsi intorno alla centralità politica della dialettica
sociale, cessando (gradualmente) la funzione d’avanguardia leninista.
Per Secchia, e lo si evince già dal memorandum che scrive per i sovietici
e Stalin alla fine del ’47, la nuova democrazia parlamentare – frutto
anche del ruolo progressivo avuto dalle forze popolari - era un terreno avanzato
ma assolutamente insufficiente per spostare i rapporti di forza tra
le classi, dovendosi preferire la centralità della lotta sociale
che non poteva non avere benefiche ripercussioni nella sfera del politico.
Il partito, dunque, nella sua concezione, doveva conservare la sua
funzione d’avanguardia, ma questa doveva essere riconosciuta dalle masse
con una linea di massa e un radicamento capillare di massa;
l’organizzazione non poteva essere la ferrea compartimentazione tipica
del periodo clandestino, ma la ramificazione nella società di quelle che
Gramsci aveva chiamato “trincee” e “casematte”. In questo senso,
la ricezione della lezione gramsciana si ha maggiormente nell’operato e
nella riflessione di Secchia che non in Togliatti, sebbene sia stato
quest’ultimo, che conosceva gli scritti di Gramsci molto di più di
tutti gli altri dirigenti comunisti, a fregiarsi del titolo di
“continuatore di Gramsci”. Una dialettica, comunque, che ha un punto
di vero e proprio scontro a cavallo tra il ’50 e il ’51, quando
Secchia (e Longo) fanno approvare dalla direzione del PCI l’accettazione
della richiesta sovietica di un nuovo ruolo per Togliatti come
responsabile del Cominform; il che avrebbe significato un nuovo segretario
del PCI in quegli anni. Togliatti rifiutò subdolamente l’incarico
offertogli direttamente da Stalin ed estromise definitivamente Secchia
pochi anni dopo, nel 1954, dopo avergli messo contro anche Longo e
Scoccimarro. Fu preparato, insomma, il terreno organizzativo del 1956 e
l’inaugurazione della ‹‹via italiana al socialismo››.
- Può essere fornita, in base all’analisi storico-politica, una valutazione obiettiva sulla linea di Togliatti in rapporto al ruolo dei partiti occidentali sia nella fase antifascista che nel dopoguerra? Non
una valutazione obiettiva può essere fornita, ma un’analisi sulla verifica
storico-concreta. Deve ritenersi responsabile, da questo punto di vista,
Togliatti o il “togliattismo” della degenerazione successiva del PCI,
del fatto, concretissimo, che oggi in Italia non vi sia un partito
comunista che possa dirsi erede effettivo del PCI, ad es.? Io credo che
non bisogna addossare a un singolo personaggio storico, per quanto
importante, l’intera
responsabilità di una degenerazione successiva. Questo è valido sempre
ed è valido anche per Togliatti. Certo è che gli epigoni togliattiani
hanno interpretato le linee politiche e l’analisi di Togliatti in senso
progressivamente opportunista, leggendo le fasi politiche contingenti
secondo diottrie accentuatamente revisioniste di cui portano però per
intero la responsabilità. Togliatti nel 1964 non lascia affatto delle
macerie: egli aveva comunque sviluppato una riflessione ampia e non di
corto respiro sul ruolo dei partiti comunisti nel cuore dell’occidente
capitalistico. Nella fase antifascista egli questo ruolo non lo concepisce
distaccato dalle sorti complessive dell’intero movimento operaio
internazionale. Anche se, nelle lezioni sul fascismo tenute alla scuola di
Mosca nel 1935, avvia una metodologia di ricerca che possiamo denotare
come analisi differenziata. E’
convinto, cioè, che bisogna ricercare le specificità nazionali e
studiare le peculiarità storiche di un paese (nel suo caso l’Italia e
il regime fascista come ‹‹regime reazionario di massa››) per
sviluppare adeguatamente tattiche politiche e delineare obiettivi e
strategie efficaci per la rivoluzione socialista. Ma il punto è proprio
questo: se nel ’35 il problema è ancora la “transizione al
socialismo”, dal ‘43/’44 diventa la transizione ad una “democrazia
più avanzata” (con i caratteri di cui s’è già detto) e dal ’56,
sotto la copertura di una via italiana, il
problema cruciale per i comunisti, la transizione e la presa del potere
della classe operaia e dei ceti subalterni, viene circoscritto nel limbo
di un’indistinta prospettiva, perché la vera e reale prospettiva
diventa il peso specifico e contrattuale
della forza politica nell’agone istituzionale, con l’inevitabile
conseguenza della professionalizzazione del ceto politico. Ben altro, cioè,
che i “professionisti della rivoluzione”! Qui in occidente Togliatti
non costruisce un percorso rivoluzionario per obiettivi rivoluzionari con
un partito rivoluzionario, ma un percorso che nei fatti rinuncia alla
prospettiva del potere politico (o di modifica strutturale dello stesso
potere, ad es. non prendendo atto sino in fondo della degenerazione della
democrazia rappresentativa ad egemonia clericale rispetto alla Carta
Costituente e rinunciando a ipotizzare altre forme concrete di istituti
democratici) in cambio di un equilibrio contrattuale che mira a
rivendicare spazi di conquista dei diritti per le masse lavoratrici come
terreno più avanzato nella dialettica sociale. Il concreto riformismo
abiurato a parole, è la prassi effettiva del PCI dal 1956 in avanti. Con
salti e contraddizioni, s’intende, e con un partito ancorato nella sua
base di massa ai principi del marxismo-leninismo. In sintesi e
schematicamente: mentre Gramsci aveva rintracciato nella categoria di
“guerra di posizione” il perno
della transizione per la conquista del potere politico del proletariato (l’egemonia,
da conquistarsi con il consenso prima di divenire classe dominante),
Togliatti considera la strutturazione di trincee avanzate nella società
civile e casematte come equilibrio da spostare in avanti per la
contrattazione riformista. Allontanando la prospettiva (in un primo
momento) e poi rendendola indistinta. L’internazionalismo
degli anni di Togliatti è prima l’internazionalismo proletario, poi il
policentrismo e l’”unità nella diversità”. Egli vive la stagione
della Terza Internazionale, del suo scioglimento (nel 1943) e gli anni del
Cominform. Vive gli anni della scomunica a Tito (1948) e della diaspora
cinese (progressivamente dopo il 1956). E il rapporto tra prospettiva
interna e strategia internazionale è il rapporto essenzialmente tra il
PCI e l’Unione Sovietica. Credo che da questo dipenda lo scarto tra
riformismo concretamente praticato già dal 1945 (ad es., la lettura
politicista della caduta del governo Parri nel novembre di quell’anno,
che Secchia rimprovera aspramente) e un ancoraggio ai princìpi
formalmente intesi. Togliatti non concepisce mai la mondializzazione della
rivoluzione: non crede cioè che la rivoluzione o è mondiale o non è,
marcando una netta antitesi con il trotskismo storico. Nello stesso tempo,
però, manca di elaborare il nesso tra prospettiva interna e strategia internazionale
per
la rivoluzione socialista. Si dirà che questo limite è limite oggettivo:
la presenza dell’URSS rendeva impossibile qualsiasi via della
rivoluzione a prescindere dalla patria socialista e quindi anche dai suoi
interessi geostrategici. E io credo che non potesse non essere così, e
giustamente. Ma dopo il XX Congresso, Togliatti, pur criticando
nell’intervista a “Nuovi Argomenti”, in uno sforzo di analisi
marxista, la disamina storico-politica contenuta nel rapporto di Kruscev,
e dunque avvicinandosi oggettivamente alle stesse critiche che verranno
elaborate dal Partito Comunista Cinese, legge la fase come una ulteriore
possibilità per il rafforzamento del “riformismo” in un paese solo,
senza che la critica a Kruscev diventi critica al revisionismo dei princìpi
e dunque, per il tramite del “policentrismo”, può rimanere legato
all’URSS praticando la “via italiana”. E il ruolo internazionale
dell’URSS, anche dell’URSS in progressiva
degenerazione (si badi, progressiva
e non, come molti compagni marxisti-leninisti ritengono, repentina ed
improvvisa, tagliando così la storia a fette ideologiche) era
effettivamente enorme, se solo si pensa alla sua posizione di potente
contrappeso all’imperialismo e di sostegno alla decolonizzazione.
Il problema in Togliatti è che la prospettiva interna (“la via
italiana”) diventa centrale e fa velo all’elaborazione di una
strategia internazionale che non poteva sì prescindere dal
“policentrismo”, ma quello effettivo, riconoscendo prima di tutto un
nuovo ruolo alla Cina popolare di Mao. Ed è proprio questo il senso delle
divergenze che si svilupperanno tra il PCI e il PCC, con lo scambio di
accuse e gli scritti cinesi abbastanza celebri “A proposito delle
divergenze tra il compagno Togliatti e noi” a cavallo tra il 1962 e il
1963. Ne veniva investita anche la lettura della natura
dell’imperialismo, che Mao individua come “tigre di carta” per
significare che la forza di un popolo è comunque inarrestabile anche di
fronte alla minaccia atomica, e che invece, sotto lo schermo della
sopravvivenza della specie e per evitare un olocausto, altri, come
Togliatti, leggono in funzione di una necessità, quella della coesistenza
“pacifica” tra sistemi contrapposti. Una lettura, quest’ultima, che
mancava di raccordare proprio le prospettive nazionali di lotta per il
socialismo e lo sviluppo di una strategia internazionalista e
rivoluzionaria. Altro che pacifica “convivenza”! L’imperialismo
mirava a distruggere concretamente proprio tutte le resistenze derivanti
dalle lotte dei popoli del mondo. - E’ possibile un giudizio storico marxista sulla vicenda di Togliatti e del PCI “togliattiano”, senza schematismi semplificatori, ma anche senza le indulgenze tipiche di chi ne potrebbe ripercorrere, nel movimento comunista, i limiti? Credo
che sia possibile nella massima onestà politica e intellettuale. Non
addossare cioè a Togliatti colpe che di Togliatti non sono. Così come
evidenziare tutti i limiti della sua linea politica e della strategia,
specie dal dopoguerra agli anni ’60, è necessario e doveroso per non
ripercorrerne il tracciato. A Togliatti non si può imputare di non aver
costituito un gruppo settario che invece di produrre politica ed
elaborazioni si limitasse a testimoniare talmudisticamente un verbo che,
tra l’altro, dopo il ’56 non ci sarà più nei fatti concreti della
storia. Il ‘partito nuovo’ era necessario per trasformare il PCI da
partito di gruppi piccoli e compartimentati in un grande partito di massa.
Questo partito di massa, però, non è detto che dovesse progressivamente
perdere i connotati e le qualità del partito d’avanguardia, così come
la sua potente organizzazione di cellule nei luoghi di lavoro. Qui è il
punto cruciale e la sfida persa del “togliattismo”: ma non solo di
esso, se si pensa alle vicende del partito francese di Thorez e del
partito spagnolo della Ibarurri e di Josè Diaz (pur in condizioni
diverse, come la natura nazionalista del gallismo in Francia e la
clandestinità forzata dal franchismo in Spagna); segno evidente che,
mentre nel periodo bellico c’era un centro propulsore di coordinamento
strategico dei partiti comunisti come l’Internazionale, il suo
scioglimento nel 1943 farà mancare questo coordinamento strategico e
porterà al prevalere di politiche particolari, nazionali, senza il
necessario respiro internazionalista che non la fedeltà ad un’ URSS che
cambierà radicalmente pelle dopo la morte di Stalin nel 1953. Il bilancio
critico dell’esperienza di Togliatti porterebbe a cimentarsi con una
costruzione di partito comunista nel cuore delle contraddizioni
capitalistiche dell’occidente. Una radicalità nella linea politica che
miri a rovesciare il sistema capitalistico ed avviare il processo
rivoluzionario ha bisogno di principi saldi e di analisi di fase.
Coniugare l’uno e l’altro è compito dei comunisti di oggi, per non
cadere nel settarismo da “gruppo separato” che non ha né presente in
termini di radicamento né futuro, ma evitando l’eclettismo e l’universalizzazione
di categorie che pretendono il cambiamento delle fondamenta del paradigma
scientifico del marxismo (ciò che può chiamarsi il marxismo-leninismo)
quando sono funzionali (se lo sono) ad un momento storico particolare. La
flessibilità nelle tattiche e la ricerca di alleanze sociali e politiche
della classe operaia, fermo restando la sua assoluta centralità nel
conflitto capitale/lavoro, è possibile solo se si ha chiaro un progetto
strategico, un disegno di prospettiva per la verifica della coerenza di
quelle tattiche e di quelle alleanze. L’attenzione da porre alla
dimensione internazionale delle lotte è oggi più necessaria di ieri,
proprio in assenza di un centro propulsore di dimensione sopranazionale,
che comunque va costruito nel tempo. Evitiamo, dunque, un Togliatti di
comodo, nel bene e nel male. Cerchiamo di studiare da marxisti,
criticamente, la nostra vicenda storica senza ripudi e liquidazioni
opportuniste o sterili apologie, e assumiamoci le responsabilità che ci
competono. Il testo dell'intervista anche su Aginform nr.29/2002 |
vai all' index di Lavoro Politico nr.6 vai all'home Linea Rossa scrivi alla redazione webmaster