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La contestazione e la sistematica distruzione del leninismo e del concetto di imperialismo sembra essere l’obiettivo delle principali proposte di rinnovamento della sinistra “critica”
----- Stefano G. Azzarà -----
1. La favola della globalizzazione e il suo pubblico
In pochi luoghi ideologici è possibile misurare la portata della
grave crisi di egemonia ed autonomia del marxismo come nel trionfo incontrastato
della categoria di “globalizzazione” e nella pervasività con cui
essa domina oggi il dibattito pubblico. Non sorprende certo l’uso compiaciuto
che di questa immagine di un ordine economico internazionale pacificato
- capace di liberare gli individui dal giogo della tutela statale e di
realizzare persino l’antico sogno dell’unità del genere umano -
viene profuso nel campo del liberalismo trionfante, né l’entusiasmo
con cui essa è stata accolta da quella parte della sinistra che
ha tagliato i ponti con il movimento comunista. E’ estremamente negativo,
invece, che anche chi si richiama al marxismo e alla storia della lotta
delle classi subalterne faccia costantemente uso di tale categoria, senza
riflettere su cosa essa significhi già sul piano terminologico e
su quali conseguenze comporti nella lettura dei fenomeni storici. Si tratta
di un inconsapevole errore teorico, che mostra però l’entità
di una subordinazione ideologica ad interessi eteronomi dalla quale è
necessario liberare prima di tutto noi stessi, se ancora pensiamo di potere
e dover costituire una parte politicamente autonoma e unitaria.
La scelta dei concetti impiegati nella designazione dei problemi, come
è evidente, non è mai innocente, e la sfera linguistica e
del significato è senz’altro la prima ed elementare dimensione dell’egemonia.
Se parlare, ad esempio, delle grandi scoperte geografiche dell’età
moderna da parte dell’Occidente significa di fatto rilegittimare la tragica
realtà di un processo di conquista che si è intrecciato
al genocidio, lo stesso finisce per accadere con l’uso acritico della categoria
di “globalizzazione”: esso è indice di un grave stato di subordinazione
e inconsapevolezza, che è il lascito più nocivo della mancata
riflessione del movimento comunista sulla sconfitta politica e di sistema
subita nel conflitto con l’avversario nell’ultima fase del Novecento. Quest’uso,
come vedremo, contribuisce a rimuovere interamente le dinamiche politiche
che soggiacciono a tali fenomeni. La categoria di globalizzazione, pertanto,
andrebbe non certo espunta dal lessico della teoria marxista, ma utilizzata
esclusivamente in senso critico. In quanto concetto descrittivo, però,
essa andrebbe invece sostituita in modo sistematico con quella categoria
oggi negletta che del movimento delle classi subalterne di tutto il mondo
è stata, nel Novecento, la più potente arma teorica e politica,
e cioè con il ritorno consapevole ed argomentato alla categoria
leniniana di imperialismo.
2. Imperialismo, “globalizzazione” e questione nazionale
L’imperialismo fase suprema del capitalismo, scritto da Lenin
nel 1916, segna un salto di qualità nella consapevolezza critica
del movimento comunista, perché è il testo che più
di ogni altro ha consentito di comprendere la dimensione internazionale
e integralmente storico-politica delle contraddizioni che animano il modo
di produzione capitalistico, mostrando come la catena dei rapporti di subordinazione
e dominio tra gli Stati, nell’ambito della spartizione geopolitica dei
grandi spazi di influenza e di dominio nel mondo, contenga necessariamente
in sé le radici della guerra.
Nato anch’esso in ambito borghese (cfr. Hobson, 1974), il concetto
di imperialismo trova però con Lenin la più compiuta sistemazione
e un nuovo significato, a partire dal quale si tramuterà in una
macchina conoscitiva così potente che gli stessi intellettuali liberali
non potranno fare a meno di ricorrervi, per una comprensione realistica
dei processi storico-politici iniziati alla fine del secolo scorso e protrattisi
per tutto il Novecento. Esso, per fare solo qualche nome, è utilizzato
a piene mani da Hannah Arendt, che nel ricostruire la genealogia dell’orrore
del nostro secolo non può non fare riferimento a quella «competizione
fra giganteschi complessi economici» che, generando le forme di massa
del razzismo, avrebbe condotto ai «fenomeni totalitari del XX secolo»
(Arendt, 1984, pp. 192 e 171). Ma persino lo Ernst Nolte del 1963 definisce
fascismo e nazismo come forme di «dispotismo imperialistico»
rivolte alla «colonizzazione» di superficie (Nolte, 1994, pp.
54 e 494). Anche chi poi, come Hans Kohn, rivendicava, a celebrazione del
ruolo civilizzatore dell’imperialismo, la «forza limitatrice della
validità riconosciuta di criteri etici universali, al di sopra della
classe o della razza», era costretto a confrontarsi apertamente con
la forza di questo concetto nel mettere sotto accusa il frutto più
estremo della tradizione liberale (Kohn, 1964, pp. 161-2).
Oggi, tutt’al contrario, non c’è più traccia di ciò,
e alla categoria di imperialismo viene negata dagli autori liberali qualsiasi
dignità e legittimità, mentre anche in ambito marxista essa
trova sempre meno l’adeguato riconoscimento. Proprio nel momento del trionfo
generalizzato della teoria del totalitarismo, diventa allora più
urgente che mai rivendicare la persistente validità del ragionamento
di Lenin, affermando oltretutto il suo statuto integralmente scientifico.
La sua capacità, cioè, di andare oltre la superficie che
gli eventi storico-politici ci mostrano, per rivelarne la più riposta
e celata essenza, dissolvendo la loro immediatezza per scoprirne la genesi
dialettica nella concretezza dei rapporti di subordinazione tra le classi,
le nazioni e le aree geopolitiche imperiali.
Non c’è dubbio che gli studi di Lenin - che nei loro particolari
riflettono la situazione di una fase storicamente determinata - vadano
adeguati alla specifica realtà del capitalismo contemporaneo, e
che alcune sue prese di posizione vadano seriamente criticate. Pensiamo
solo, ad esempio, all’idea di una natura puramente stagnante del capitale
finanziario monopolistico, o all’impossibilità di Lenin di studiare
le strategie intensive di sviluppo del capitalismo novecentesco
entro i mercati nazionali (servizi, industria del divertimento…). Ma, tenuto
conto dei suoi limiti storici, esiste oggi una categoria capace di comprendere
meglio il significato politico generale della realtà in cui viviamo
di quella che ci consente di vedere come «il capitalismo si è
trasformato in un sistema mondiale di oppressione e di iugulamento finanziario
della schiacciante maggioranza della popolazione del mondo da parte di
un pugno di paesi “progrediti”» (Lenin, 1994, passim), e che «la
spartizione del “bottino” ha luogo fra due o tre predoni… di potenza mondiale,
armati da capo a piedi, che coinvolgono nella loro guerra, per la spartizione
del loro bottino, il mondo intero»? Abissale è «il distacco
tra i quattro paesi capitalistici più ricchi» e «gli
altri paesi», denunciava Lenin nel 1916. I paesi «più
ricchi di colonie» e quelli «più progrediti in rapporto
alla rapidità di sviluppo e all’ampiezza di diffusione del monopolio
capitalistico di produzione» detengono «circa l’80 % del capitale
finanziario internazionale», per cui «quasi tutto il resto
del mondo, in questa o quella forma, fa la parte del debitore o tributario
di questi Stati». Una volta aggiornate le forme, ritoccate le cifre
e compreso il nuovo meccanismo di riproduzione del dominio, è necessario
aggiungere molto a questo quadro?
Il concetto di imperialismo è dunque la verità
della globalizzazione: esso fa saltare impietosamente la copertura idealistica
e la legittimazione morale con cui questa “grande narrazione” borghese
cerca di convincere il suo pubblico della natura pacifica, armoniosa e
spontanea di questo processo dell’economia e della stessa civiltà
occidentale, rivelando invece nei dettagli i conflitti di interesse che
lo animano e l’origine politica, frutto di concrete decisioni nell’ambito
di una precisa lotta, che ne guida le direzioni. Mostrando poi, da un lato,
tutta l’entità delle feroci contraddizioni che tale processo suscita
all’interno dell’élite privilegiata delle potenze che agiscono da
soggetti nella spartizione del mondo, la sempre più aspra conflittualità
inter-imperialistica. E dando parola, dall’altro, alle ancor più
drammatiche contraddizioni che esso genera entrando in collisione con la
sovranità nazionale degli Stati investiti dalla sua avanzata.
Proprio dalla persistenza e dall’attuale rafforzamento dei caratteri
imperialistici del sistema capitalistico mondializzato, discende allora
il ruolo della questione nazionale come questione politica centrale di
questa fase storica, nella quale, sia pure nelle forme più aggiornate,
«si acuisce l’oppressione delle nazionalità e la tendenza
alle annessioni, cioè alla soppressione della indipendenza nazionale».
E’ una conseguenza impossibile da rimuovere già sul piano logico,
ma che trova ogni giorno conferma sullo scacchiere politico mondiale. Si
capisce allora che una politica che si vuole di sinistra ma che non riflette
sulla questione nazionale e non ne comprende la posizione cruciale, cercando
di coniugarla con un programma socialista, si lasci sfuggire la contraddizione
fondamentale del XX e del XXI secolo, perché rinuncia di fatto alla
categoria di imperialismo, condannandosi così all’arretratezza teorica
e alla perpetua ineffettualità politica.
3. “Globalizzazione” e dichiarazione di morte della forma-partito
In effetti, proprio la contestazione e la sistematica distruzione del
leninismo e del concetto di imperialismo sembra essere l’obiettivo delle
principali proposte di rinnovamento della sinistra “critica”. Ad avviso
dei suoi più importanti portavoce intellettuali, infatti, proprio
la novità della globalizzazione capitalistica renderebbe inutilizzabili
le analisi leniniane, imponendo il loro rigetto e un sostanziale cambio
di paradigma politico nella ricostruzione della sinistra “antagonista”
del XXI secolo.
«Qualcosa di grosso» sta accadendo, sostiene Revelli, «nell’assetto
produttivo e sociale mondiale», enormi «processi profondi di
ristrutturazione e di trasformazione sociale e produttiva» (Revelli,
1998, p. 5), che mutano drasticamente le condizioni del conflitto di classe.
In primo luogo, la trasformazione in chiave “post-fordista” del modo di
produzione capitalistico fa venir meno la centralità della fabbrica
e la solidarietà interna alla classe operaia, minando alle fondamenta
quel compromesso capitale-lavoro che ha costituito il terreno su cui sono
stati edificati i sistemi sociali delle civiltà capitalistiche occidentali
e le democrazie di massa. Inoltre, la massiccia finanziarizzazione del
capitale e la sua transnazionalizzazione – la “globalizzazione” – hanno
svuotato di ogni capacità di intervento le istituzioni dello Stato
nazionale moderno, rendendole pressoché insignificanti dal punto
di vista politico. Ostaggio degli incontrollabili flussi finanziari del
capitale globale, lo Stato «perde la propria sovranità sul
governo della ricchezza nazionale e perde la propria autonomia politica
nazionale» (13).
Qual è la conseguenza di questi rivolgimenti impetuosi? Ne deriva
che «in questo modello saltano tutti i riferimenti strategici della
politica del Novecento» (15-16), e cioè crolla l’intero asse
fabbrica-sindacato-partito-Stato, su cui si sono orientate nel corso di
questo secolo sia la riflessione teorica del marxismo egemone sia l’azione
pratica del movimento operaio organizzato su base nazionale ad opera dei
diversi partiti comunisti: «non solo il ruolo dello Stato, che non
deve essere più un mito di intangibilità, ma anche il ruolo
delle vecchie identità politiche e delle vecchie formule organizzative
vanno in frantumi».
E’ desolante il panorama di queste macerie: «salta la centralità
della fabbrica, salta il ruolo del partito e salta il ruolo dello Stato»,
rendendo non più riproponibile il modello organizzativo e politico
che è stato condiviso dall’intera sinistra novecentesca e rivelando
la segreta consustanzialità tra il leninismo e la socialdemocrazia.
Il salto di paradigma del modo di produzione capitalistico comporta infatti
per Revelli una confutazione degli stessi presupposti marxiani secondo
cui «il capitale nel suo sviluppo» produce «in maniera
in qualche modo meccanica il soggetto destinato a superarlo» (32).
Adesso, al contrario, esso «non solo non produce il soggetto che
lo affosserà, ma rischia di produrre una frammentazione integrale
del soggetto». Nonostante tutto faccia pensare il contrario, si dà
però una possibilità di fuoriuscita dal capitalismo, a partire
da un rivolgimento totale dei modelli di intervento politico della sinistra.
Si tratta di pensare non a «una concezione idraulica della rivoluzione
per cui il capitale produce dall’interno il soggetto che crescendo ne fa
saltare il reticolo dei rapporti di produzione», bensì alla
«necessità che attraverso uno sforzo culturale, di produzione
soggettiva di socialità altra, si costruisca il nostro mondo fuori
e contro il capitale».
Cosa significa questo discorso? Disattivato ogni potere reale dello
Stato-nazione, non ha più alcun senso da parte delle classi subalterne
organizzarsi nella forma di un partito politico che punti a conquistare
il potere e la direzione delle istituzioni, per instaurare il proprio dominio
e tentare da qui di costruire rapporti sociali egualitari e edificare una
forma di produzione post-capitalistica. L’orizzonte politico dell’organizzazione
del partito comunista e della conquista dello Stato deve essere espunto
dai progetti di ricostruzione della “nuova sinistra”, non solo perché
partito e Stato sono divenuti ineffettuali, ma perché lo stesso
soggetto antagonista è mutato e non ha più caratteristiche
di classe. Non si tratta di unificare la classe ma di «organizzare
chi non si identifica col modello capitalistico» (17), così
come non si tratta più di sviluppare la lotta di classe fino alla
sconfitta dell’avversario e alla conquista del potere, ma di programmare
una consapevole «secessione dal capitale» (33), un gigantesco
«esodo dal capitale».
A tal fine, l’azione “politica” deve concentrarsi non su campi di intervento
ormai obsoleti, ma piuttosto deve «fare società, riprodurre
un rapporto sociale» (29) – «Una alternativa di società»,
è il motto della mozione approvata all’ultimo congresso di Rifondazione
comunista (cfr. Bertinotti, 1999) -, e cioè costruire “isole” di
autonomia e auto-organizzazione sottratte al circuito mercantile, per poi
collegarle tra loro. Per fare un esempio, non bisogna cercare di estendere
lo Statuto dei lavoratori alle nuove forme di lavoro “flessibile” e “autonomo”
parasubordinato: bisogna bensì garantire tale autonomia attraverso
la rivendicazione di diritti minimi e, a partire da ciò, «costruire
soggettività fuori e contro i soggetti capitalistici» (Revelli,
1998, p. 33). Cioè, in altre parole, convincere queste persone a
non scambiare il loro autosfruttamento per vile denaro, integrandosi nel
funzionamento del mercato capitalistico, ma piuttosto a connettersi in
una sorta di rete di realtà auto-organizzate che, ad un certo punto,
acquistata massa critica, decidano di dare l’addio al capitale e di operare
una forma di inusitata secessione sociale.
Come questo sia possibile non è dato saperlo. Con quale moneta
sonante sia possibile convincere le realtà autogestite e il cosiddetto
“terzo settore” a non cedere all’assorbimento nel mercato reale e alla
trasformazione in una redditizia impresa capitalistica, sfruttatrice di
lavoro nero e divoratrice di Welfare – come avviene tutti i giorni
(cfr. Burgio, 1999) –, per dedicarsi alla “secessione dei poveri” e alla
costruzione di una «dimensione comunitaria… all’altezza delle dimensioni
spaziali di oggi» (Revelli, 1998, p. 33), non viene detto. Perché
mai il «settore dell’autorganizzazione… non potrebbe non avere carattere
antagonistico» neppure (27). E’ chiaro però quali siano i
modelli concreti cui riferirsi: accanto a «qualche forma di sindacalismo
rivoluzionario» e al «movimento consigliare» (16), l’unica
esperienza «alternativa» al pauroso mostro socialdemocratico-leninista
sembra essere la forma associativa del Centro sociale. Quest’ultima è
esplicitamente eletta a modello-guida di organizzazione: si tratta di «una
formula organizzativa e politica particolarmente adeguata alla nuova dimensione
del conflitto, alla trasformazione della composizione di classe e alle
nuove forme dell’antagonismo» (5).
da Per la critica dell'ideologia borghese
Collana di Interventi diretta da Domenico Losurdo
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Pino Tripodi, 1998
Dalla biopolitica alla bioeconomia, in M. Revelli
e P. Tripodi, Lo stato della mondializzazione, Leoncavallo, Milano
scrivete a linearossa@virgilio.it
ritorna al sommario del nr.16
(luglio-agosto
2000)