linea Rossa
(nr.16 - luglio-agosto 2000)

 

IN PRIMO PIANO



Un'analisi stringente, di rigoroso impianto leninista, per orientare gli strumenti marxisti sulla politica internazionale, sui concetti di globalizzazione e di imperialismo, sulla "questione nazionale" e sulla critica di teorie sedicenti nuove e adeguate alla realtà, ma in effetti datate ed esterne alla tradizione (e alla vera innovazione) comunista

Imperialismo, “globalizzazione” e questione nazionale

La contestazione e la sistematica distruzione del leninismo e del concetto di imperialismo sembra essere l’obiettivo delle principali proposte di rinnovamento della sinistra “critica”

----- Stefano G. Azzarà -----

1. La favola della globalizzazione e il suo pubblico

In pochi luoghi ideologici è possibile misurare la portata della grave crisi di egemonia ed autonomia del marxismo come nel trionfo incontrastato della categoria di “globalizzazione” e nella pervasività con cui essa domina oggi il dibattito pubblico. Non sorprende certo l’uso compiaciuto che di questa immagine di un ordine economico internazionale pacificato - capace di liberare gli individui dal giogo della tutela statale e di realizzare persino l’antico sogno dell’unità del genere umano - viene profuso nel campo del liberalismo trionfante, né l’entusiasmo con cui essa è stata accolta da quella parte della sinistra che ha tagliato i ponti con il movimento comunista. E’ estremamente negativo, invece, che anche chi si richiama al marxismo e alla storia della lotta delle classi subalterne faccia costantemente uso di tale categoria, senza riflettere su cosa essa significhi già sul piano terminologico e su quali conseguenze comporti nella lettura dei fenomeni storici. Si tratta di un inconsapevole errore teorico, che mostra però l’entità di una subordinazione ideologica ad interessi eteronomi dalla quale è necessario liberare prima di tutto noi stessi, se ancora pensiamo di potere e dover costituire una parte politicamente autonoma e unitaria.
La scelta dei concetti impiegati nella designazione dei problemi, come è evidente, non è mai innocente, e la sfera linguistica e del significato è senz’altro la prima ed elementare dimensione dell’egemonia. Se parlare, ad esempio, delle grandi scoperte geografiche dell’età moderna da parte dell’Occidente significa di fatto rilegittimare la tragica realtà di un processo di conquista che si è intrecciato al genocidio, lo stesso finisce per accadere con l’uso acritico della categoria di “globalizzazione”: esso è indice di un grave stato di subordinazione e inconsapevolezza, che è il lascito più nocivo della mancata riflessione del movimento comunista sulla sconfitta politica e di sistema subita nel conflitto con l’avversario nell’ultima fase del Novecento. Quest’uso, come vedremo, contribuisce a rimuovere interamente le dinamiche politiche che soggiacciono a tali fenomeni. La categoria di globalizzazione, pertanto, andrebbe non certo espunta dal lessico della teoria marxista, ma utilizzata esclusivamente in senso critico. In quanto concetto descrittivo, però, essa andrebbe invece sostituita in modo sistematico con quella categoria oggi negletta che del movimento delle classi subalterne di tutto il mondo è stata, nel Novecento, la più potente arma teorica e politica, e cioè con il ritorno consapevole ed argomentato alla categoria leniniana di imperialismo.

2. Imperialismo, “globalizzazione” e questione nazionale

L’imperialismo fase suprema del capitalismo, scritto da Lenin nel 1916, segna un salto di qualità nella consapevolezza critica del movimento comunista, perché è il testo che più di ogni altro ha consentito di comprendere la dimensione internazionale e integralmente storico-politica delle contraddizioni che animano il modo di produzione capitalistico, mostrando come la catena dei rapporti di subordinazione e dominio tra gli Stati, nell’ambito della spartizione geopolitica dei grandi spazi di influenza e di dominio nel mondo, contenga necessariamente in sé le radici della guerra.
Nato anch’esso in ambito borghese (cfr. Hobson, 1974), il concetto di imperialismo trova però con Lenin la più compiuta sistemazione e un nuovo significato, a partire dal quale si tramuterà in una macchina conoscitiva così potente che gli stessi intellettuali liberali non potranno fare a meno di ricorrervi, per una comprensione realistica dei processi storico-politici iniziati alla fine del secolo scorso e protrattisi per tutto il Novecento. Esso, per fare solo qualche nome, è utilizzato a piene mani da Hannah Arendt, che nel ricostruire la genealogia dell’orrore del nostro secolo non può non fare riferimento a quella «competizione fra giganteschi complessi economici» che, generando le forme di massa del razzismo, avrebbe condotto ai «fenomeni totalitari del XX secolo» (Arendt, 1984, pp. 192 e 171). Ma persino lo Ernst Nolte del 1963 definisce fascismo e nazismo come forme di «dispotismo imperialistico» rivolte alla «colonizzazione» di superficie (Nolte, 1994, pp. 54 e 494). Anche chi poi, come Hans Kohn, rivendicava, a celebrazione del ruolo civilizzatore dell’imperialismo, la «forza limitatrice della validità riconosciuta di criteri etici universali, al di sopra della classe o della razza», era costretto a confrontarsi apertamente con la forza di questo concetto nel mettere sotto accusa il frutto più estremo della tradizione liberale (Kohn, 1964, pp. 161-2).
Oggi, tutt’al contrario, non c’è più traccia di ciò, e alla categoria di imperialismo viene negata dagli autori liberali qualsiasi dignità e legittimità, mentre anche in ambito marxista essa trova sempre meno l’adeguato riconoscimento. Proprio nel momento del trionfo generalizzato della teoria del totalitarismo, diventa allora più urgente che mai rivendicare la persistente validità del ragionamento di Lenin, affermando oltretutto il suo statuto integralmente scientifico. La sua capacità, cioè, di andare oltre la superficie che gli eventi storico-politici ci mostrano, per rivelarne la più riposta e celata essenza, dissolvendo la loro immediatezza per scoprirne la genesi dialettica nella concretezza dei rapporti di subordinazione tra le classi, le nazioni e le aree geopolitiche imperiali.
Non c’è dubbio che gli studi di Lenin - che nei loro particolari riflettono la situazione di una fase storicamente determinata - vadano adeguati alla specifica realtà del capitalismo contemporaneo, e che alcune sue prese di posizione vadano seriamente criticate. Pensiamo solo, ad esempio, all’idea di una natura puramente stagnante del capitale finanziario monopolistico, o all’impossibilità di Lenin di studiare le strategie intensive di sviluppo del capitalismo novecentesco entro i mercati nazionali (servizi, industria del divertimento…). Ma, tenuto conto dei suoi limiti storici, esiste oggi una categoria capace di comprendere meglio il significato politico generale della realtà in cui viviamo di quella che ci consente di vedere come «il capitalismo si è trasformato in un sistema mondiale di oppressione e di iugulamento finanziario della schiacciante maggioranza della popolazione del mondo da parte di un pugno di paesi “progrediti”» (Lenin, 1994, passim), e che «la spartizione del “bottino” ha luogo fra due o tre predoni… di potenza mondiale, armati da capo a piedi, che coinvolgono nella loro guerra, per la spartizione del loro bottino, il mondo intero»? Abissale è «il distacco tra i quattro paesi capitalistici più ricchi» e «gli altri paesi», denunciava Lenin nel 1916. I paesi «più ricchi di colonie» e quelli «più progrediti in rapporto alla rapidità di sviluppo e all’ampiezza di diffusione del monopolio capitalistico di produzione» detengono «circa l’80 % del capitale finanziario internazionale», per cui «quasi tutto il resto del mondo, in questa o quella forma, fa la parte del debitore o tributario di questi Stati». Una volta aggiornate le forme, ritoccate le cifre e compreso il nuovo meccanismo di riproduzione del dominio, è necessario aggiungere molto a questo quadro?
Il concetto di imperialismo è dunque la verità della globalizzazione: esso fa saltare impietosamente la copertura idealistica e la legittimazione morale con cui questa “grande narrazione” borghese cerca di convincere il suo pubblico della natura pacifica, armoniosa e spontanea di questo processo dell’economia e della stessa civiltà occidentale, rivelando invece nei dettagli i conflitti di interesse che lo animano e l’origine politica, frutto di concrete decisioni nell’ambito di una precisa lotta, che ne guida le direzioni. Mostrando poi, da un lato, tutta l’entità delle feroci contraddizioni che tale processo suscita all’interno dell’élite privilegiata delle potenze che agiscono da soggetti nella spartizione del mondo, la sempre più aspra conflittualità inter-imperialistica. E dando parola, dall’altro, alle ancor più drammatiche contraddizioni che esso genera entrando in collisione con la sovranità nazionale degli Stati investiti dalla sua avanzata.
Proprio dalla persistenza e dall’attuale rafforzamento dei caratteri imperialistici del sistema capitalistico mondializzato, discende allora il ruolo della questione nazionale come questione politica centrale di questa fase storica, nella quale, sia pure nelle forme più aggiornate, «si acuisce l’oppressione delle nazionalità e la tendenza alle annessioni, cioè alla soppressione della indipendenza nazionale». E’ una conseguenza impossibile da rimuovere già sul piano logico, ma che trova ogni giorno conferma sullo scacchiere politico mondiale. Si capisce allora che una politica che si vuole di sinistra ma che non riflette sulla questione nazionale e non ne comprende la posizione cruciale, cercando di coniugarla con un programma socialista, si lasci sfuggire la contraddizione fondamentale del XX e del XXI secolo, perché rinuncia di fatto alla categoria di imperialismo, condannandosi così all’arretratezza teorica e alla perpetua ineffettualità politica.

3. “Globalizzazione” e dichiarazione di morte della forma-partito

In effetti, proprio la contestazione e la sistematica distruzione del leninismo e del concetto di imperialismo sembra essere l’obiettivo delle principali proposte di rinnovamento della sinistra “critica”. Ad avviso dei suoi più importanti portavoce intellettuali, infatti, proprio la novità della globalizzazione capitalistica renderebbe inutilizzabili le analisi leniniane, imponendo il loro rigetto e un sostanziale cambio di paradigma politico nella ricostruzione della sinistra “antagonista” del XXI secolo.
«Qualcosa di grosso» sta accadendo, sostiene Revelli, «nell’assetto produttivo e sociale mondiale», enormi «processi profondi di ristrutturazione e di trasformazione sociale e produttiva» (Revelli, 1998, p. 5), che mutano drasticamente le condizioni del conflitto di classe. In primo luogo, la trasformazione in chiave “post-fordista” del modo di produzione capitalistico fa venir meno la centralità della fabbrica e la solidarietà interna alla classe operaia, minando alle fondamenta quel compromesso capitale-lavoro che ha costituito il terreno su cui sono stati edificati i sistemi sociali delle civiltà capitalistiche occidentali e le democrazie di massa. Inoltre, la massiccia finanziarizzazione del capitale e la sua transnazionalizzazione – la “globalizzazione” – hanno svuotato di ogni capacità di intervento le istituzioni dello Stato nazionale moderno, rendendole pressoché insignificanti dal punto di vista politico. Ostaggio degli incontrollabili flussi finanziari del capitale globale, lo Stato «perde la propria sovranità sul governo della ricchezza nazionale e perde la propria autonomia politica nazionale» (13).
Qual è la conseguenza di questi rivolgimenti impetuosi? Ne deriva che «in questo modello saltano tutti i riferimenti strategici della politica del Novecento» (15-16), e cioè crolla l’intero asse fabbrica-sindacato-partito-Stato, su cui si sono orientate nel corso di questo secolo sia la riflessione teorica del marxismo egemone sia l’azione pratica del movimento operaio organizzato su base nazionale ad opera dei diversi partiti comunisti: «non solo il ruolo dello Stato, che non deve essere più un mito di intangibilità, ma anche il ruolo delle vecchie identità politiche e delle vecchie formule organizzative vanno in frantumi».
E’ desolante il panorama di queste macerie: «salta la centralità della fabbrica, salta il ruolo del partito e salta il ruolo dello Stato», rendendo non più riproponibile il modello organizzativo e politico che è stato condiviso dall’intera sinistra novecentesca e rivelando la segreta consustanzialità tra il leninismo e la socialdemocrazia. Il salto di paradigma del modo di produzione capitalistico comporta infatti per Revelli una confutazione degli stessi presupposti marxiani secondo cui «il capitale nel suo sviluppo» produce «in maniera in qualche modo meccanica il soggetto destinato a superarlo» (32). Adesso, al contrario, esso «non solo non produce il soggetto che lo affosserà, ma rischia di produrre una frammentazione integrale del soggetto». Nonostante tutto faccia pensare il contrario, si dà però una possibilità di fuoriuscita dal capitalismo, a partire da un rivolgimento totale dei modelli di intervento politico della sinistra. Si tratta di pensare non a «una concezione idraulica della rivoluzione per cui il capitale produce dall’interno il soggetto che crescendo ne fa saltare il reticolo dei rapporti di produzione», bensì alla «necessità che attraverso uno sforzo culturale, di produzione soggettiva di socialità altra, si costruisca il nostro mondo fuori e contro il capitale».
Cosa significa questo discorso? Disattivato ogni potere reale dello Stato-nazione, non ha più alcun senso da parte delle classi subalterne organizzarsi nella forma di un partito politico che punti a conquistare il potere e la direzione delle istituzioni, per instaurare il proprio dominio e tentare da qui di costruire rapporti sociali egualitari e edificare una forma di produzione post-capitalistica. L’orizzonte politico dell’organizzazione del partito comunista e della conquista dello Stato deve essere espunto dai progetti di ricostruzione della “nuova sinistra”, non solo perché partito e Stato sono divenuti ineffettuali, ma perché lo stesso soggetto antagonista è mutato e non ha più caratteristiche di classe. Non si tratta di unificare la classe ma di «organizzare chi non si identifica col modello capitalistico» (17), così come non si tratta più di sviluppare la lotta di classe fino alla sconfitta dell’avversario e alla conquista del potere, ma di programmare una consapevole «secessione dal capitale» (33), un gigantesco «esodo dal capitale».
A tal fine, l’azione “politica” deve concentrarsi non su campi di intervento ormai obsoleti, ma piuttosto deve «fare società, riprodurre un rapporto sociale» (29) – «Una alternativa di società», è il motto della mozione approvata all’ultimo congresso di Rifondazione comunista (cfr. Bertinotti, 1999) -, e cioè costruire “isole” di autonomia e auto-organizzazione sottratte al circuito mercantile, per poi collegarle tra loro. Per fare un esempio, non bisogna cercare di estendere lo Statuto dei lavoratori alle nuove forme di lavoro “flessibile” e “autonomo” parasubordinato: bisogna bensì garantire tale autonomia attraverso la rivendicazione di diritti minimi e, a partire da ciò, «costruire soggettività fuori e contro i soggetti capitalistici» (Revelli, 1998, p. 33). Cioè, in altre parole, convincere queste persone a non scambiare il loro autosfruttamento per vile denaro, integrandosi nel funzionamento del mercato capitalistico, ma piuttosto a connettersi in una sorta di rete di realtà auto-organizzate che, ad un certo punto, acquistata massa critica, decidano di dare l’addio al capitale e di operare una forma di inusitata secessione sociale.
Come questo sia possibile non è dato saperlo. Con quale moneta sonante sia possibile convincere le realtà autogestite e il cosiddetto “terzo settore” a non cedere all’assorbimento nel mercato reale e alla trasformazione in una redditizia impresa capitalistica, sfruttatrice di lavoro nero e divoratrice di Welfare – come avviene tutti i giorni (cfr. Burgio, 1999) –, per dedicarsi alla “secessione dei poveri” e alla costruzione di una «dimensione comunitaria… all’altezza delle dimensioni spaziali di oggi» (Revelli, 1998, p. 33), non viene detto. Perché mai il «settore dell’autorganizzazione… non potrebbe non avere carattere antagonistico» neppure (27). E’ chiaro però quali siano i modelli concreti cui riferirsi: accanto a «qualche forma di sindacalismo rivoluzionario» e al «movimento consigliare» (16), l’unica esperienza «alternativa» al pauroso mostro socialdemocratico-leninista sembra essere la forma associativa del Centro sociale. Quest’ultima è esplicitamente eletta a modello-guida di organizzazione: si tratta di «una formula organizzativa e politica particolarmente adeguata alla nuova dimensione del conflitto, alla trasformazione della composizione di classe e alle nuove forme dell’antagonismo» (5).
 

da   Per la critica dell'ideologia borghese
Collana di Interventi diretta da Domenico Losurdo
2. Stefano G. Azzarà
Globalizzazione e imperialismo,
La Città del Sole, 1999

Riferimenti bibliografici
 

Samir Amin, 1995
Le defi de la mondialisation. Trad. it., La sfida della mondializzazione, Ed. Punto Rosso, Milano

Hannah Arendt, 1989
The Origins of Totalitarianism, Harcourt Brace Jovanovich & Co, 1951… 1966. Trad. it., di A. Guadagnin sull’ed. del 1966, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1967…

Giovanni Arrighi, 1999
USA, la forza del declino, in “la rivista del manifesto”, n° 1, novembre

Zygmunt Bauman, 1999
Globalization. The Human Consequences, Polity Press-Blackwell Publishers, Cambridge-Oxford 1998. Trad. it., di O. Pesce, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari

Riccardo Bellofiore, 1999
Pensiero unico e il suo doppio, in “la rivista del manifesto”, n° 1, novembre

Fausto Bertinotti, 1999
Un’alternativa di società, mozione approvata al IV congresso del Partito della Rifondazione Comunista

Gianfranco Bettin, 1997
I mondi e le nazioni di Marcos, in Marcos, 1997

Alberto Burgio, 1999
Chi profitta del non profit, in “la rivista del manifesto”, n° 1, novembre

Michel Chossudovsky, 1998
The Globalisatio           n of Poverty: Impacts of IMF and World Bank Reforms, 1997. Trad. it., di P. Persio, La globalizzazione della povertà, Edizioni Gruppo Abele, Torino

Antonio Gramsci, 1972
Wilson e i socialisti, in Scritti giovanili 1914-1918, Einaudi, Torino 1958…

Herbert A. Henzler, 1998
La nuova era dell’eurocapitalismo, in Ohmae, 1998

Eric J. Hobsbawm, 1998
Age of Extremes – The Short Twentieth Century 1914-1991, Pantheon Books 1994. Trad. it., di B. Lotti, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995…

John A. Hobson, 1974
Imperialism. A Study, London 1902. Trad. it., a cura di L. Meldolesi, L'imperialismo, ISEDI, Milano

Hans Kohn, 1964
The Twentieth Century, Macmillan, New York 1949. Trad. it., di P. Vittorelli, Ideologie politiche del Ventesimo secolo, La Nuova Italia, Firenze

Gérard Lafay, 1998
Comprendre la Mondialisation, Economica, Paris 1996. Trad. it., di G. Sarti, Capire la globalizzazione, il Mulino, Bologna

Lenin (Vladimir Ilic Ulianov), 1994
L'imperialismo fase suprema del capitalismo. Saggio popolare, trad. it. conforme a quella delle Edizioni in lingue estere di Mosca, Laboratorio Politico, Napoli

Domenico Losurdo, 1993
Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino
Domenico Losurdo, 1996
Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari

Edward Luttwak, 1999
Turbo-Capitalism, 1998. Trad. it., di A. Mazza, La dittatura del capitalismo. Dove ci porteranno il liberalismo selvaggio e gli eccessi della globalizzazione, Mondadori, Milano

Marcos, 1997
La quarta guerra mondiale è cominciata, il manifesto, Roma

Ernst Nolte, 1994
Der Faschismus in seiner Epoche, Piper, München 1963... 1993. Trad. it., di F. Saba Sardi e G. Manzoni, Il fascismo nella sua epoca. I tre volti del fascismo, SugarCo, Milano, 1966…

Kazuo Nukazawa, 1998
Giappone e Stati Uniti: un faticoso cammino verso la reciprocità, in Ohmae, 1998

Kenichi Ohmae, 1996
The End of the Nazion State. The Rise of the Regional Economics, McKinsey & Company 1995. Trad. it., di E. Angelin, La fine dello Stato-nazione. L'emergere delle economie regionali, Baldini & Castoldi, Milano
Kenichi Ohmae (ed.), 1998
The Evolving Global Economy, Harvard Business School Press, 1988.. 1995. Trad. it., di M. Formaggio, Il senso della globalizzazione. Prospettive di un nuovo ordine mondiale, ETAS Libri, Milano

Raffaella Polato, 1999
Il nostro sole sorge a Ovest, “Corriere Economia”, III, n° 39, 8 novembre

Michael E. Porter, 1991
The Competitive Advantage of Nations, 1989. Trad. it., di M. Pacifico, M.T. Cattaneo e M. Zardoni, Il vantaggio competitivo delle nazioni, Mondadori, Milano
Michael E. Porter, 1998
Svantaggio di capitale: carenze del sistema di allocazione dei capitali negli Usa, in Ohmae, 1998

Robert B. Reich, 1998
Noi chi?, in Ohmae, 1998

Marco Revelli, 1997
L'intellettuale sociale del futuro, in Marcos, 1997
Marco Revelli, 1998
Globalizzazione, Mondializzazione e neoliberalismo, in M. Revelli e P. Tripodi, Lo stato della mondializzazione, Leoncavallo, Milano

Pierluigi Sullo, 1997
Introduzione, in Marcos, 1997

Lester C. Thurow, 1992
Heat to Head, 1992. Trad. it., di R. Merlini, Testa a testa. USA, Europa, Giappone: la battaglia per la supremazia economica nel mondo, Mondadori, Milano

Pino Tripodi, 1998
Dalla biopolitica alla bioeconomia, in M. Revelli e P. Tripodi, Lo stato della mondializzazione, Leoncavallo, Milano


scrivete a linearossa@virgilio.it

ritorna al sommario del nr.16 (luglio-agosto 2000)