linea Rossa
LA MEMORIA TRADITA
"Ai lettori"
Il presente saggio storico - breve e a carattere divulgativo - ha, a
sua volta, una storia che può aiutare il lettore a comprenderne
le ragioni e il senso. Scritto, infatti, nei primi anni '50, quasi mezzo
secolo fa, rispose all'insopprimibile impulso di reagire alla persecuzione
anticomunista della D.C. scelbiana posta in essere all'indomani dell'insurrezione
partigiana e popolare del 25 aprile 1945 che aveva concluso, in Italia,
la disastrosa Seconda guerra mondiale.
Il decennio successivo vide l'insediamento e il consolidamento al potere
di una massiccia restaurazione moderata che si sarebbe protratta, di fatto,
fino ad oggi, alle soglie del XXI secolo.
Ciò avvenne attraverso una precisa strategia elaborata, da tempo,
nelle linee essenziali, oltre Oceano e concertata, per la pratica attuazione,
con i vertici collaborazionisti delle tradizionali forze conservatrici
del nostro Paese. Queste, mantenutesi in vita e rafforzatesi con la dittatura
fascista e la sua aggressiva politica imperialista, nonostante la catastrofe
bellica di cui erano le prime responsabili, riuscirono a riciclarsi, in
buona par te, nella medesima Resistenza: dalle alte gerarchie capitaliste
e agrarie a quelle ecclesiastiche, dagli apparati dirigenti della burocrazia
pubblica e militare alle vecchie "cupole" della criminalità organizzata.
Così, poggiando sull'impunità e l'attivo sostegno assicurato
dal poderoso dispiegamento delle forze armate e della propaganda degli
alleati angloamericani "liberatori"-occupanti, stragi banditesche, assassinii
mafiosi ed eccidi polizieschi riuscirono a bloccare, nel Meridione, il
movimento di riscossa delle masse contadine da sempre affamate di terra
e, nel Settentrione, il
movimento operaio che era stato avanguardia cosciente e spina dorsale
dell'intera lotta antinazifascista.
Come, ormai, ampiamente documentato, a partire dalla fine degli anni
'60 fece seguito la lunga stagione delle "stragi di Stato" promosse dai
servizi segreti indigeni assoggettati ai piani criminali di destabilizzazione
programmati dai servizi statunitensi e fatte eseguire da manovalanza neofascista.
Non a caso tutti i mandanti e gran parte degli esecutori sono rimasti impuniti.
Al primo governo unitario postbellico di Ferruccio Parri, ultima
espressione del potere politico del Comitato nazionale di liberazione (C.N.L.),
fu concessa brevissima vita. I partiti storicamente rappresentativi delle
masse popolari lavoratrici, il P.C.I. e il PSI, dapprima furono estromessi
dall' esecutivo e, poi, ricorrendo anche alla corruzione dei vertici, indotti
a rompere il prezioso patto unitario che, assicurando la condizione primaria
per portare avanti le parole d'ordine di "libertà, democrazia
e indipendenza", aveva consentito di giungere alla vittoriosa insurrezione
del "25 aprile". Sorte analoga subì la stessa grande organizzazione
sindacale unitaria, la Confederazione generale italiana dei lavoratori
(C.G.I.L.).
Rivolgendosi ai milioni di reduci e disoccupati, il capo del nuovo
governo, Alcide De Gasperi, indicò ,per sopravvivere, la via dell'emigrazione.
L'avvento della Costituzione repubblicana fondata sul lavoro (1 gennaio
1948) venne sprezzantemente definito dal ministro degli interni Mario Scelba
come una "trappola". Irridendo al giuramento dato veniva tradito, così,
il preciso dovere istituzionale che imponeva, invece, l'impegno,
in prima persona, per attuare, difendere e fare rispettare il nuovo solenne
"patto sociale".
L'epurazione dell'apparato statale e della pubblica amministrazione
- saturo di gerarchi fascisti e quadri politici e militari già attivi
strumenti della ventennale dittatura e della filonazista Repubblica Sociale
Italiana (R.S.I.) - si risolse in una autentica beffa mentre, per contro,
si dispiegava la rappresaglia persecutoria nei confronti di migliaia di
partigiani. Gli stati maggiori delle forze armate e di polizia venivano
sottoposti al controllo, alle direttive e ai superiori interessi, oscuri
e inconfessabili, della nuova potenza straniera egemone, gli Stati Uniti
d'America. L'imponente movimento popolare dei "partigiani della pace"-
sorto per contrastare il continuo, minaccioso brandeggiare, sull'intero
mondo, di un ricatto atomico che evocava le ecatombi di Hiroshima e Nagasaki
- fu fermato dalla violenza e dalla provocazione che profittavano della
incerta, debole risposta delle centrali politiche dell'opposizione.
L'alto clero - che, nel ventennio, aveva tratto grandi benefici e nuovo
potere schierandosi a sostegno della dittatura fascista - consacrò,
benedicente, il nuovo scenario con ampio ricorso a miracoli tra le popolazioni
più arretrate e lanciando anatemi e scomuniche contro le avanguardie
democratiche e rivoluzionarie che, per un quarto di secolo, avevano condotto
e sostenuto il peso della durissima, sanguinosa lotta politica contro la
dittatura fascista e della Guerra di liberazione. Esse, ora, dovevano essere
rese odiose alle masse e, quindi, isolate. In questo quadro, il ricostruito
fronte delle forze reazionarie moderate nazionali e internazionali riuscì
ad assicurare il proprio reinsediamento al potere "vincendo" quelle elezioni
politiche del 18 aprile 1948 che una delle figure più rappresentative
del lungo potere D.C., Oscar Luigi Scalfaro, ha inteso esaltare, da presidente
della Repubblica, nel suo ultimo discorso di fine d'anno (31 dicembre 1998),
come quelle in cui "vinse la libertà e [...] la democrazia fu
riservata a tutti".
Questa impudente affermazione - espressa usando strumentalmente l'autorità
conferita dal ricoprire la massima istituzione repubblicana - avrebbe voluto
dare una prima impossibile legittimità democratica a quello che
fu, invece - con le elezioni
politiche del 18 aprile 1948 - un vero e proprio atto di sopraffazione
consumato dalle forze della reazione internazionali e
nazionali attraverso una mobilitazione condizionatrice-coercitrice,
di imponenza mai vista, guidata dall'imperialismo U.S.A. con
estrema, cinica determinazione contro la capacità di libera
determinazione del popolo italiano.
D'altra parte, proprio quelle prime elezioni politiche post-fasciste
dimostrarono l'inequivocabile natura reazionaria di quanti avevano fatto
tutto e di tutto per vincere ad ogni costo. Non a caso, tra l'altro, esse
furono suggellate, poche settimane dopo, non solo dal tentativo d'assassinio
di Palmiro Togliatti, l'allora prestigioso esponente nazionale del P.C.I..
I comunisti italiani, l'anno successivo, sarebbero stati scomunicati e
additati come i nuovi figli del diavolo ripetendo così l'anatema
che, un secolo e mezzo prima, aveva bollato i nostri patrioti giacobini.
Intanto l'ondata repressiva - in una Italia già inserita nel Patto
atlantico - colpì migliaia e migliaia di operai, lavoratori, militanti
insorti spontaneamente dopo l'attentato neofascista al loro massimo dirigente.
Fu, dunque, in tale contesto epocale che un mai precisato ma, sicuramente,
vastissimo numero di veterani della Guerra di liberazione antinazifascista
- rei d'avere combattuto nelle brigate d'assalto "Garibaldi", nei gruppi
e nelle squadre d'azione patriottica (G.A.P. e S.A.P.) e di militare nelle
file comuniste - furono espulsi dai loro posti di lavoro, o costretti,
o indotti a lasciarlo. Questo si verificò, soprattutto, nelle forze
armate e di polizia, tra il personale degli arsenali militari e, più
in generale, in tutti i settori "delicati" dell'apparato dello Stato nonostante
che questo si fosse costituzionalmente trasformato, da dittatura monarco-fascista,
in repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla sovranità popolare.
Quale giovane ufficiale in servizio permanente - che dopo il rimpatrio
dall'Albania e la successiva invasione nazista del Paese, aveva disertato,
per unirsi, in Toscana, ai partigiani - non sfuggii a quella persecuzione,
il cui particolare accanimento traeva giustificazione dal fatto che, nella
Resistenza, ero stato comandante di una delle formazioni garibaldine più
combattive.
Del resto, avevo rifiutato di adattarmi alle mutate circostanze rendendomi
compatibile col "nuovo ordine" e avevo ritenuto
doveroso, invece, continuare, in qualche modo, a resistere. Disarmate,
smobilitate e disperse le formazioni partigiane del
Corpo Volontari della Libertà, primo autentico esercito popolare
volontario nella storia nazionale e punito, inquisito, isolato e trasferito
da un capo all'altro della Penisola, l'unica via per non arrendermi e mantenermi
coerente con quegli ideali sociali e patriottici che la lotta partigiana
aveva maturato in senso più realistico, mi apparve essere la reimmersione
culturale nella
memoria storica del popolo cui sentivo fortemente di appartenere e
nel cui interesse e per le cui antiche speranze di rinnovamento mi ero
battuto. Non poteva essere stato, certo, per nulla l'aver visto cadere,
al mio fianco e di fronte, da una parte e dall'altra della "barricata ",
tanti miei simili, coetanei e perfino più giovani. Tutti, li avevo
sentiti affratellati nella morte, vittime, pressoché tutti innocenti,
di una sola barbarie, la guerra imperialista.
Così, ripercorrendo a ritroso le pagine della nostra storia,
e con l'animo ancora emotivamente scosso anche da quanto avevo visto e
appreso vivendo alcuni anni, a seguito di un trasferimento punitivo, nel
più lontano Meridione, mi ritrovai alle origini del Risorgimento,
al manifestarsi del primo movimento rivoluzionario significativamente caratterizzato
in senso nazionale e unitario. Immedesimandomi, fui indotto a riflettere
sulla straordinaria, drammatica vicenda dei repubblicani giacobini napoletani
che, sebbene esigua avanguardia, sorretti da una fortissima fede ideale,
davvero avveniristica, davanti alle soverchianti forze messe in campo dalla
conservazione, avevano alzato sul loro tricolore, con ammirevole coraggio,
le magiche parole di "libertà e uguaglianza" difendendole,
poi, fino alla morte e al martirio, una volta rimasti soli, abbandonati
a se stessi, dopo il ripiegamento verso il Settentrione dei "liberatori"
francesi.
Ricercai, allora, ovunque mi fosse possibile, libri e testimonianze
su quel periodo decisivo avvertendo, contemporaneamente, il bisogno incoercibile
di reinterpretarlo attraverso le speranze e le esperienze che avevo acquisito
combattendo nelle file dell'avanguardia più politicizzata delle
masse popolari italiane nell'ultima fase storicamente rilevante, quella
resistenziale, di cui, appunto, ero appena reduce. Mi apparve denso di
messaggi il fatto che questo ampio movimento rivoluzionario delle classi
subalterne del nostro Paese, il primo a livello nazionale, avesse avuto
come suo esordio, a Napoli, le "quattro giornate" insur rezionali del settembre-ottobre
1943. Avvertii, allora, come di esse, di questo primo segnale di riscossa
dell'intero Paese, fos sero stati il preannuncio proprio i patrioti giacobini
napoletani e del Meridione.
Obbedendo, perciò, ad un'intima esigenza, volli esprimere in
uno scritto l'essermi sentito, in qualche modo, testimone attuale di quegli
eventi, esaltanti e tragici, che avevano avuto come interpreti altri italiani,
quei primissimi patrioti rivoluzionari.
Ricordandoli con ammirazione, dai giorni e dai luoghi del loro sacrificio
sentivo giungere come un' eco, una voce che, per quanto remota, chiedeva
di non essere dimenticata, ma considerata presente, di essere accolta e
confluire legittimamente, in conseguente continuità, nell'alveo
più ampio e corale dell'epilogo parzialmente vittorioso della recente
lotta resistenziale. Una lotta sostenuta dal nostro popolo per la sua liberazione
dallo sfruttamento, dall'ignoranza, dai privilegi e dall'abusivo potere
di minoranze privilegiate e corrotte e dalle nuove forme assunte dal predominio
imperialista straniero. Una lotta che aveva inteso spezzare quelle stesse
catene che anche i giacobini di Napoli e del Meridione avevano tentato
di rompere nel fatale 1799.
A distanza di tanti decenni dall'aver soddisfatto quella mia esigenza
psicologica e intellettuale, avevo praticamente dimenticato il dattiloscritto
tra le carte accumulate nel corso di un 'intensa vita militante.
È stato, invece, con l'approssimarsi delle celebrazioni per
il secondo centenario della Repubblica Napoletana che, con l'ap parire
di articoli e recensioni evocanti personaggi e tematiche relativi
alla sua storia, mi sono ricordato come io stesso me ne fossi interessato
tanto tempo prima. Ricuperato quel breve saggio, sono stato, poi, esortato
a farlo conoscere, a socializzarlo. Rileggendolo, mi sono reso conto, d'altra
parte, ch'esso, pur nella sua modestia, avrebbe potuto essere utile strumento
di divulgazione e di riflessione su una parte essenziale della nostra memoria
storica collettiva oggi così assopita, distratta e gravemente minacciata
dalla devastazione culturale condotta, metodicamente, dalle forze della
globalizzazione imperialista.
Nella conseguente decisione di aggiornare e rielaborare alcune parti
del testo per sottoporlo, quindi, al pubblico, mi sono sentito sostenuto,
in modo determinante, dal fondamentale insegnamento gramsciano secondo
cui, in Italia, il primario stru mento utilizzato dalle classi sfruttatrici
per dominare è stata proprio l'ignoranza della storia nazionale
coltivata nelle masse popolari.
Ed è stata, anche, la convinta compenetrazione in quelle pagine,
apparentemente lontane, della nostra storia, che mi ha aiutato a superare
l'ultima esitazione: se sarei riuscito o meno a far emergere e rendere
evidente una rilettura del bicentenario 1799-1999 come rappresentazione
obiettiva di ciò che avevo e ho profondamente recepito essere stato
e continuare ad essere il "filo rosso" che ha percorso almeno tutta la
vicenda storica dell' Italia contemporanea: il "filo rosso" delle profonde,
insoddisfatte tensioni rivoluzionarie, che, a mio avviso, unisce dialetticamente,
ma indissolubilmente, la vicenda dei partigiani "giacobini" della Repubblica
Napoletana, all'alba del Risorgimento, a quella dei partigiani "garibaldini"
della relativamente recente Resistenza popolare, alba, a sua volta, della
lungamente agognata Repubblica di tutti gli Italiani. Una repubblica dalla
democrazia ampiamente incompiuta, perché non vede, ancora, "tutti
i lavoratori" al potere, così come, invece, esige, inequivocabilmente,
la sua insidiata Costituzione.
Buona lettura, dunque, amico lettore!
scrivete a linearossa@virgilio.it
ritorna al sommario del nr.14 (gennaio-febbraio
2000)