linea
rossa-lavoro politico
Angiolo Gracci (fondatore):la vita, gli
scritti
Ferdinando Dubla (direttore):biografia e
opere
Relazione sull’iniziativa
“Pietro Secchia. Attualità di una proposta di lotta per la democrazia progressiva”
Fermo – 7/12/2010
Associazione politico-culturale Marx XXI
da sx: Giorgio Raccichini, Alessandro Volponi; Ferdinando Dubla, Ruggero Giacomini
di Giorgio Raccichini
Il 7 dicembre scorso, a Fermo, si è svolta un’iniziativa incentrata sulla figura di Pietro Secchia, importantissimo dirigente della Resistenza e del Partito Comunista Italiano. L’incontro, intitolato “Pietro Secchia, attualità di una proposta di lotta per la democrazia progressiva” e promosso dall’Associazione politico-culturale Marx XXI in collaborazione con il Partito dei Comunisti Italiani del Fermano, è stato un importante momento di riflessione e di dibattito sulle attuali principali problematiche, come quella del rapporto tra lotta istituzionale ed extra-istituzionale, dell’azione dei comunisti in Italia. Non si è trattato quindi tanto di un appuntamento di carattere meramente storico, bensì di un’iniziativa mirante a far riflettere sull’attualità del pensiero e dell’azione politici di Pietro Secchia.
Se il pensiero marxista-leninista costituisce una guida per l’azione, così anche l’esperienza di coloro che hanno combattuto sotto la sua bandiera, nei più diversi contesti storico-geografici, rappresenta una miniera di insegnamenti da leggere alla luce delle peculiari condizioni in cui i comunisti si ritrovano a lottare. Sono state le parole dello stesso Secchia, impressionanti per una lucidità analitica che resiste al passare degli anni e al mutare delle condizioni soggettive e oggettive del movimento comunista italiano, ad introdurre gli interventi dei relatori: Ferdinando Dubla, storico del movimento operaio e curatore delle opere di Secchia, e Ruggero Giacomini, storico e autore dell’opera “Ribelli e partigiani. La resistenza nelle Marche 1943-1944”. L’analisi di Secchia contenuta nella Relazione al Partito Comunista dell’Unione Sovietica del dicembre del 1947 indica ai comunisti d’oggi i fattori soggettivi di una sconfitta storica da cui è necessario ripartire per riprendere la lotta per la “democrazia progressiva”, cioè per quelle riforme di struttura tese ad aumentare i diritti sociali e la partecipazione democratica delle masse nelle scelte politiche del nostro paese, e in prospettiva per il Socialismo.
“Vi è una certa indifferenza del partito per quanto riguarda la comprensione e la discussione della sua linea politica, per quanto riguarda l’acquisizione della sua ideologia. Si studia, si discute, si dibatte poco. Le questioni ideologiche e di linea politica interessano scarsamente. Si tratta di un fenomeno abbastanza grave al quale dobbiamo porre attenzione”, e ancora “il difetto più grave del nostro partito mi sembra essere una grande massa di iscritti inattivi, che non fanno niente”, una “massa che non lavora” che “ad un certo momento cesserà di essere una massa passiva, ma diventerà una massa che se ne va”, finendo per “favorire l’offensiva dell’avversario”[1]. Studio teorico, dibattito e lavoro pratico nel partito sono, secondo Secchia, fattori di crescita di ogni compagno tanto che “saper scoprire le qualità che esistono in ogni individuo, saper ben utilizzare queste qualità, studiare i pregi e le insufficienze di ogni compagno, saper collocare ognuno al posto che meglio risponde alle sue attitudini, questo è uno dei compiti fondamentali dell’organizzatore”[2].
E il monito di Secchia contro una linea politica eccessivamente appiattita sulla ricerca della visibilità istituzionale rimane tuttora valido e si carica di vaghi toni profetici nel momento in cui vengono paventate le sue conseguenze nefaste, che noi comunisti degli inizi del ventunesimo secolo possiamo vedere e subire nel loro concreto esplicarsi: “Noi dobbiamo orientarci verso lotte più ampie, più dure, più decise. Dobbiamo avere coscienza che il nemico che è riuscito ad impossessarsi di tutto il potere non rimarrà inattivo, lo impiegherà contro di noi …. Noi lottiamo per realizzare le riforme di struttura, per la pace, per la libertà; si tratta di obiettivi democratici, però questa lotta non possiamo combatterla soltanto in Parlamento; ritengo sia necessario, oggi più che mai, sottolineare che deve essere combattuta soprattutto fuori dal Parlamento …. Ho il timore che, malgrado il gran numero di nostri iscritti al partito e ai sindacati, le posizioni nei comuni, nelle province, in Parlamento, la larga influenza che abbiamo, ecc., se non ci impegniamo con decisione, se il governo De Gasperi dovesse consolidarsi, SI CREEREBBE PER NOI UNA SITUAZIONE SEMPRE Più DIFFICILE, UNA SITUAZIONE DI CEDIMENTO E DI RITIRATA TALE CHE CI PORTEREBBE VIA VIA A PERDERE TUTTO E AD AVER PERSO TUTTO, A TROVARCI IN UN REGIME DIVERSO, DI TIPO REAZIONARIO, SENZA NEPPURE AVERE DATO BATTAGLIA”[3].
Nel suo intervento, Ferdinando Dubla ha sgombrato il campo da alcuni luoghi comuni che si sono sedimentati sulla figura storica di Pietro Secchia, distorcendola o addirittura falsificandola. Durante la Resistenza, anche per l’assenza di Togliatti dall’Italia fino alla primavera del ’44, Secchia fu sicuramente il dirigente principale dell’organizzazione del PCI e rimase una figura di spicco anche nel dopoguerra, almeno fino alla sua estromissione dai vertici del partito avvenuta nel ’54. Secondo una vulgata dura a morire, Secchia rappresentava un fedele servitore, una sorta di agente di Mosca all’interno del PCI, colui che avrebbe agito politicamente in Italia perseguendo gli interessi dell’Unione Sovietica. Da marxista-leninista coerente, certamente portando avanti l’amicizia internazionalista con il grande paese del socialismo realizzato, Secchia intese sempre la rivoluzione in Italia come un processo autonomo messo in atto dalle masse popolari italiane dietro la guida dell’avanguardia rivoluzionaria rappresentata dal Partito Comunista. La forza del movimento comunista internazionale e della stessa Unione Sovietica rappresentava un fattore esterno importante per il successo della rivoluzione in Italia; ma dovevano essere le stesse masse lavoratrici italiane, guidate dall’avanguardia cosciente, a metterla in moto e ad elaborarla tenendo conto delle specificità dell’Italia. E così Pietro Secchia era profondamente d’accordo con la linea politica del PCI sintetizzata nell’espressione “democrazia progressiva”, cioè lotta per il Socialismo attraverso il passaggio fondamentale della realizzazione di riforme strutturali nella società e nella organizzazione politica dell’Italia, tese a far acquisire diritti politici e sociali via via maggiori alle masse lavoratrici italiane, a far conquistare posizioni avanzate alle forze democratiche e socialiste nella lotta contro i circoli reazionari dell’imperialismo.
Nella Relazione al Partito Comunista dell’URSS precedentemente citata Pietro Secchia esplicita la sua posizione riguardo alle modalità tramite cui perseguire la democrazia progressiva. Egli sostiene la necessità di una azione politica più dura, svincolata dai partiti della reazione e in particolare dalla Democrazia Cristiana che costituiva di fatto il partito di rappresentanza del grande capitale, dell’imperialismo statunitense e del Vaticano. Nel 1953, in un discorso tenuto al Senato contro la cosiddetta “legge truffa”, Secchia dipinse la Democrazia Cristiana e i partiti ad essa apparentati nel modo seguente: “E voi potete forse negare di rappresentare gli interessi della grande borghesia? Voi rappresentate gli interessi del grande capitale direttamente e direi anche personalmente. Non è necessario che un partito ed un governo per fare gli interessi dei grandi industriali, dei grossi agrari, dei grandi capitalisti sia diretto da grandi industriali, da grandi agrari e da grandi capitalisti. Sappiamo molto bene che costoro preferiscono nella loro maggior parte, in Italia e negli altri paesi, restare fra le quinte, alla testa delle loro aziende, delle loro società anonime, preferiscono avere le mani libere per appoggiare e sostenere oggi il vostro e domani un altro governo che più facesse loro comodo. Però, nel caso vostro, il grande capitalismo lo rappresentate non solo indirettamente come comitato d’affari della grande borghesia, ma lo rappresentate anche direttamente, personalmente, perché un grande numero di grandi industriali, di grossi agrari, banchieri, consiglieri di grandi società sono addirittura membri del vostro partito o lo appoggiano apertamente, voi ne avete portato un numero cospicuo a deputati e senatori”[4].
Il PCI era un partito di massa e derivava la sua forza dal radicamento nella società e non dall’essere un partito di governo. Quindi, Pietro Secchia non era sostanzialmente in disaccordo con Togliatti sulla linea politica da seguire, incardinata sulla lotta per la democrazia progressiva e sulla natura di massa del Partito Comunista Italiano; tuttavia metteva in guardia il PCI sia sui limiti di una azione politica che non tenesse conto dell’importanza dello scontro politico al di fuori delle istituzioni, sia sull’esigenza di mantenere la qualità di un partito di quadri. Solo attraverso quadri attivi e preparati il Partito Comunista, secondo Secchia, può assolvere alla propria funzione storica di costruire una propria egemonia in Italia; infatti è grazie ai quadri che il partito guida la lotta di classe, mobilita e organizza le masse educandole allo stesso tempo. “La formazione e lo sviluppo dei quadri è il compito fondamentale di un'organizzazione, l'utilizzazione di tutte le forze di cui il partito dispone, saper aumentare giorno per giorno queste forze ed il loro rendimento, riuscire ad indurre ogni compagno a migliorarsi quotidianamente e ad impegnare tutta la sua volontà tutte le sue energie fisiche ed intellettuali nell'interesse del partito, nella realizzazione della linea politica del partito: in questo consiste essenzialmente l'arte dell'organizzazione”[5]. Fino alla metà degli anni ’50, cioè fino a quando Secchia non venne estromesso dal vertice del partito, il PCI rimase effettivamente un partito di quadri.
Altro stereotipo diffuso è quello di un Pietro Secchia ambiguo, da un lato sostenitore della democrazia, dall’altro organizzatore di attività cospirative. In verità, cosciente dell’attività anti-democratica e anti-costituzionale dei grandi capitalisti e degli Stati Uniti, delle trame occulte degli ambienti reazionari di cui è testimonianza la struttura paramilitare di Gladio, Secchia sostenne sempre la necessità che il partito mantenesse costantemente alta l’attenzione e fosse sempre preparato a ritornare, qualora vi fosse stato costretto, ad un’esistenza e ad un’attività illegali e clandestine. E nel ’53 Secchia, di fronte al Senato, lanciava queste parole infiammate, che costituirono un monito contro tutti quelli che attentavano alla democrazia e contrastavano l’applicazione della Costituzione e testimoniano la fiducia di Secchia nella forza organizzativa del PCI di allora: “Il partito comunista è rimasto e vuole restare con tutte le sue forze fedele alla Costituzione repubblicana. Ma il partito comunista non è oggi al potere, al governo; al potere ci sono i democristiani, ai governanti spetta per primi restare fedeli alla Costituzione e farla rispettare da tutti. Se dovesse avvenire, come è avvenuto per lo Statuto albertino che ad un certo momento è stato messo sotto i piedi dalle classi dirigenti le quali per mezzo di bande armate hanno fatto quello che sapete, se dovesse avvenire che per mezzo dello squadrismo e con altri mezzi …. si tentasse di annullare le libertà democratiche, di rimettere in catene i lavoratori, i loro partiti e le loro organizzazioni, oh allora non fatevi nessuna illusione, noi non resteremo fermi a dire di no, mentre gli altri con la violenza faranno di sì. Ciò che è accaduto nel 1921, nel 1922, nel 1924 e dopo, non accadrà più. Ne siano ben certi coloro che sognano galere, confini e campi di concentramento”[6]. Secchia, come rivoluzionario coerente nemico di ogni avventurismo, riuscì a distogliere molti partigiani comunisti dal tentare la via insurrezionale improvvisata, da loro auspicata sia nel ’46, sia nel ’48 dopo l’attentato a Togliatti. Per Secchia l’insurrezione è preparatoria di una rivoluzione, deve essere studiata, valutata e organizzata in maniera molto approfondita. Perciò è assolutamente pretestuosa l’allusione nemmeno troppo velata ad un Pietro Secchia morbosamente attratto dalla lotta armata presente nel titolo di un noto libro di Miriam Mafai (“L'uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia”).
Secondo un’altra credenza infondata, Pietro Secchia sarebbe stato un autoritario. Al contrario, egli era un grande sostenitore di un tipo di dibattito franco e democratico, purché si rispettasse il centralismo democratico, espressione dell’unità del partito. E la sua concezione del dibattito democratico travalica i confini del partito. Si leggano i passi seguenti.
“Fissata la linea politica del partito, ogni federazione, sezione, cellula deve sapere che sulla base di quella linea non solo può ma ha il dovere di agire con iniziative proprie, efficaci sul piano locale … Non si tratta di abbandonarci alla spontaneità, ad una autonomia disordinata di iniziative improvvisate e non ben studiate; ma, fissata la linea politica, le istanze di base non devono attendere che tutto venga dal centro, perché, quando tutto si attende dall’alto, una parte resta inattiva e le iniziative vengono prese talvolta in ritardo, e soltanto da una parte del partito. Non si tratta soltanto del problema di attirare nuove forze nel grande fronte di lotta per la libertà e la pace, ma di organizzare un più largo, continuo contatto tra il partito e le larghe masse e fra i dirigenti delle diverse istanze del partito, da un lato, e i militanti e le masse, dall’altro. Questo contatto non si realizza soltanto attraverso determinate forze strutturali, ma soprattutto stimolando una grande iniziativa nel partito, moltiplicando i suoi contatti vivi con i lavoratori la cui voce il partito ascolta attentamente. Milioni di lavoratori lavorano, vivono, lottano tra difficoltà quotidiane, quasi sempre pesanti e dure. Non è certo facile la vita dei lavoratori nelle fabbriche, nei campi, negli uffici. Lottando contro ogni sorta di difficoltà e di ostacoli, accumulano ogni giorno una enorme esperienza pratica: questa esperienza il partito non può, non deve trascurarla. Di qui la necessità non soltanto di fare regolarmente funzionare tutte le istanze di base del partito, di tenere regolarmente le riunioni, ma di far sì che il più gran numero di compagni intervenga nelle discussioni, dia un contributo di studi, di esperienza, di elaborazione dei problemi nei dibattiti, sulla azione da svolgere, sulle iniziative da prendere, perché questa è la condizione necessaria per sviluppare l’azione del partito, per il rafforzamento dell’unità dei lavoratori e per la realizzazione dei compiti che la situazione pone davanti non soltanto ai comunisti e ai socialisti, ma davanti a tutto il popolo italiano … Lo sviluppo e la forza del partito sono in funzione e, nello stesso tempo, la conseguenza della sua capacità d’azione, non soltanto per difendere, ma per allargare la democrazia in tutte le sue forme, per portare avanti con successo i lavoratori italiani nella lotta per la pace, per la libertà, per il socialismo”[7].
“I partiti sono una realtà e – piaccia o non piaccia a certuni – sono alla base della nostra Costituzione, gli strumenti necessari e indispensabili della dialettica e della vita democratica …. Ma i partiti, i loro apparati e i loro gruppi parlamentari non risolvono e non possono pretendere di risolvere tutto da soli. Da che cosa nasce questa serpeggiante sfiducia nei partiti e nelle istituzioni democratiche? Da molte cause, ma una di esse e forse la principale è che oggi tutto si risolve sempre più dall’alto nei grandi centri di potere e questo «potere» è nelle mani di gruppi sempre più ristretti che dominano la vita nazionale, nell’economia (monopoli), nella politica (governi), nei partiti (direzione e apparati)… Sempre più forte è sentita dalla grande massa dei cittadini la necessità di poter partecipare più direttamente alla determinazione della politica nazionale. Sempre più forte il cittadino produttore …. sente la necessità di contare, di poter esprimere e fare valere la sua opinione, di poter esercitare un peso effettivo nelle decisioni, nella soluzione dei più importanti problemi della vita nazionale”[8].
Perché Secchia fu estromesso dai vertici del partito nel 1954?
Si può dire che la vicenda del ’54 fu l’epilogo di dissapori sorti negli anni precedenti. Nel 1951 Stalin, che probabilmente non vedeva Togliatti all’altezza della situazione determinatasi in Italia, propose a Pietro Secchia e a Luigi Longo di prendere in considerazione e di discutere nel partito la possibilità di far diventare Togliatti il massimo dirigente del COMINFORM. La direzione del PCI discusse e accettò a maggioranza la proposta, mentre Togliatti si trovava malato a Mosca. Lo stesso Secchia fu incaricato di far sapere al PCUS e a Togliatti la decisione presa dal PCI. Togliatti non accettò, ma mostrò la sua contrarietà solamente una volta ritornato in Italia. Allora si scagliò contro Secchia, accusato di aver tramato contro di lui. Non è però forse un caso che Togliatti se la prenda solo con Secchia, con colui che incarnava una determinata concezione organizzativa e di lotta del partito, che egli probabilmente considerava desueta. E vale la pena ricordare che, dopo la fuga del suo braccio destro Seniga con la cassa del partito, Secchia fu sostituito come responsabile dell’organizzazione del PCI da Giorgio Amendola, fautore di una ben diversa concezione del partito e dell’azione rivoluzionaria. Si è così messo in moto un processo lento che porterà alla svolta della Bolognina, allo scioglimento del PCI; viene progressivamente abbandonata l’organizzazione di partito così come delineata da Secchia, fondata su militanti studiosi e attivi, che devono a loro volta attivizzare le masse, strappandole dal torpore della passività e quindi dalla possibilità di essere penetrate dal nemico di classe.
Negli anni ’60 Secchia nutrì molte speranze nella lotte condotte dalla nuove generazioni. Tuttavia egli, intimamente convinto della necessità dell’unità del movimento operaio e delle masse lavoratrici, vide il movimento del ’68 frantumarsi in tanti piccoli gruppi settari e auto-referenziali. Egli credeva che, pur con le sue mancanze e le sue insufficienze, fosse proprio il Partito Comunista Italiano a rappresentare lo strumento fondamentale di lotta dei lavoratori contro le forze capitaliste e reazionarie. Proprio per questo non accettò la proposta, avanzata per tramite di Angiolo Gracci, di diventare il presidente onorario del Partito Comunista d’Italia Marxista-Leninista fondato nel ’67. Emblematica di questa convinzione è la testimonianza di Gracci sull’incontro in cui egli avrebbe dovuto proporre a Secchia di uscire dal PCI e prendere parte alla costituzione del PCd’I m-l: Gracci parlò di questo partito in via di formazione ma non avanzò la richiesta per cui era andato: “Secchia mi ascoltò con attenzione, ma senza nulla dire che potesse essere interpretato come consenso o semplice sua valutazione del preannunciato, importante avvenimento. In sostanza, mi apparve, ancor più di quanto avessi potuto considerarlo prima, come un grande compagno dirigente, ma totalmente «prigioniero» del partito al quale aveva dedicato, del resto, tutta la sua vita. Quindi, assolutamente impossibilitato, proprio sul piano della sua ferrea coerenza politica e morale, a rompere e scindere la sua sorte da quella del partito che, d’altra parte, con sacrificio e abnegazione, aveva contribuito a far diventare, attraverso tante lotte e vicende, punto di riferimento, speranza e aggregazione di milioni e milioni di lavoratori italiani. Indubbiamente egli soffriva di questa sua volontaria «prigionia», ma ritenni doveroso rispettarla e non, invece, esacerbarla sicuramente avanzando la richiesta formale del distacco dalla «sua» organizzazione per quanto ciò, oggettivamente, potesse apparire giustificabile”[9].
Nel suo intervento Ruggero Giacomini ha subito evidenziato come lo stesso Pietro Secchia considerasse importantissimi, nella sua vicenda politica, soprattutto due momenti:
1) Gli anni 1927-1931, il periodo della “svolta”, quello che inaugurò un maggior impegno del PCI all’interno dell’Italia fascista. Secchia, allora importante dirigente della FGCI, fu decisivo nel far pendere l’ago della bilancia a favore di un più intenso lavoro del partito all’interno del paese. Anche se questa linea partiva dal presupposto, che poi si rivelò infondato, che in Italia esistevano importanti fermenti rivoluzionari, essa svolse un ruolo fondamentale nell’azione di radicamento del PCI nella società italiana, dando quindi i suoi frutti soprattutto durante la resistenza e nel dopoguerra. Ecco cosa si trova scritto in un’opera curata da Pietro Secchia nel 1930: “Ma malgrado tutti gli errori il bilancio del 1927, lo affermiamo senza esitazioni, è un bilancio attivo. Vogliamo richiamare qui alcuni motivi polemici perché questo nostro opuscolo esce in un momento in cui il partito è impegnato in una lotta a fondo contro alcuni elementi opportunisti rivelatisi nel partito stesso, contro alcuni traditori cacciati dal partito. Uno degli argomenti portati in campo dagli opportunisti per combattere la necessità della svolta, la necessità di intensificare tutto il nostro lavoro, di dare ad esso un’estensione, uno sviluppo, un ritmo nuovo per riuscire a porci alla testa delle masse, uno degli argomenti fu questo: Ricordatevi degli errori del 1927, non ricadiamo negli errori del 1927». Quasi che gli errori del 1927 e l’esperienza che da essi abbiamo tratta dovessero servire a farci andare indietro invece di marciare avanti. Alla domanda: dovevamo noi nel 1927 rispondere alle leggi eccezionali con una controffensiva, dovevamo noi condurre il lavoro, l’attività che abbiamo esplicata? A questa domanda noi abbiamo risposto SI. Abbiamo risposto sì ieri, rispondiamo sì oggi, diremo sì domani. Lo diremo sempre, il nostro dovere, il nostro compito è di essere alla testa delle masse della gioventù lavoratrice, è di saper condurre la lotta dei giovani operai e contadini, è d’esser sempre attivi e combattivi in qualsiasi situazione anche se la lotta comporta duri sacrifici. Il lavoro svolto dal nostro partito e dalla Federazione Giovanile nel 1927 era necessario, era indispensabile. Noi non abbiamo mai pensato che la crisi economica del capitalismo italiano anche se gravissima possa da sola esser l’elemento determinante della caduta del fascismo. Noi abbiamo lottato contro coloro che avrebbero voluto che il partito «attendesse», attendesse il momento buono creato dalla crisi, attendesse che «le grandi masse fossero in movimento» per poi uscire fuori, farci avanti con la bandiera in testa…”[10]. Il ruolo guida che il Partito Comunista Italiano si è conquistato tra le grandi masse lavoratrici durante la Resistenza e nel dopoguerra è stato il frutto di un difficile, doloroso e intenso lavoro svolto in Italia nell’illegalità. È infatti negli anni Trenta che avviene, ad esempio in Emilia-Romagna, come dimostrano accurate ricerche storiche, il passaggio al partito comunista della maggioranza degli elementi attivi e con essi della massa che seguiva il partito socialista.
2) Il periodo della Resistenza, durante il quale i comunisti dovevano contemporaneamente portare avanti il processo di costruzione del partito e realizzare le più larghe alleanze di forze politiche per condurre la lotta di liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Secchia anche da storico era convinto del fatto che non c’erano state allora le condizioni interne ed esterne per la rivoluzione socialista; per cui la linea della democrazia progressiva teneva fermo l’obiettivo dell’instaurazione del Socialismo, affidato allo sviluppo dei rapporti di forza sociali e politici in maniera processuale, attraverso la crescita dei consensi e misure riformatrici tese ad estendere la proprietà pubblica e i diritti sociali, e ad approfondire la capacità delle masse lavoratrici di incidere sulle decisioni importanti per il paese. La Costituzione Italiana effettivamente consente, stando alla sua lettera, il passaggio dall’anarchia del capitalismo ad un’economia di tipo socialista. E anche per questo viene attaccata oggi nei suoi stessi principi fondamentali.
Il processo storico non è una linea retta di sviluppo progressivo ininterrotto, come pensavano i positivisti. Segue piuttosto il movimento delle ondate e delle risacche. Così alle rivoluzioni seguono le restaurazioni. È accaduto per la rivoluzione francese ed è accaduto per quella russa. Sta accadendo in Italia per la Resistenza, che è stata la nostra rivoluzione e che da molti anni è sottoposta, assieme al suo frutto maggiore che è appunto la Costituzione, a continui attacchi. Naturalmente gli esiti dei processi storici non sono determinati a priori, perché dipendono dal rapporto e dall’urto delle classi sociali e degli uomini, dalla loro coscienza, organizzazione e determinazione. E l’omicidio-suicidio del PCI è stato un fattore di svolta determinante nel modificare i rapporti di forza in Italia a favore del capitale, e in particolare del capitalismo finanziario speculativo e parassitario più aggressivo.
La fase che stiamo vivendo, se non è ancora di compiuta restaurazione, è sicuramente di arretramento o, se si vuole di avanzante fascistizzazione.
Sicuramente sono avvenuti dei grossi cambiamenti sotto i nostri occhi in questi anni.
Per esempio, è mutato profondamente l’atteggiamento del nostro paese nei confronti della guerra: fino agli inizi degli anni ’90 l’Italia non ha infatti partecipato, a differenza di quel che accade oggi, a nessuna missione bellica. Non ci siamo associati alla “guerra umanitaria” e per “la libertà e la democrazia” che l’imperialismo Usa conduceva con i bombardieri e i marines contro il popolo del Vietnam, mentre oggi siamo in Afghanistan e siamo stati in Iraq.
C’è un attacco senza precedenti ai diritti democratici e sociali dei lavoratori; questi ultimi sono sottoposti, a partire dalla Fiat, all’odioso ricatto di essere privati delle conquiste di civiltà e dei diritti o di restare senza lavoro, ricatto di una borghesia che non ha mai avuto spirito nazionale: né quando col fascismo e prima spingeva a guerre aggressive, né ora che corre all’estero inseguendo sempre il proprio esclusivo tornaconto.
È a rischio la stessa unità d’Italia. Non c’è mai stato nella storia repubblicana un pericolo di disgregazione dell’unità nazionale come quello che viviamo oggi, tra leghe contrapposte di interessi regionali.
Non c’è mai stato prima un intreccio così forte tra ricchezza e potere politico, un uso così sistematico della ricchezza per ottenere il potere politico e del potere politico per arricchire, in un dilagare esibito della corruzione nella stessa rappresentanza istituzionale.
Ed è stata introdotta la disuguaglianza del voto, senza che noi stessi ci rendessimo conto – e non ce ne rendiamo ancora bene conto - della grave lesione al tessuto istituzionale e costituzionale uscito dalla resistenza che ciò viene a rappresentare. Oggi, grazie alla legge maggioritario-sbarratoria del “porco” Calderoni il voto non è uguale. Oltre un milione di elettori di sinistra alle elezioni del 2008 e comunisti alle europee è privato di ogni rappresentanza, mentre Berlusconi può esibire, come sostegno di una “grande maggioranza”, quello che resta – nonostante l’uso spregiudicato dei media e di tutti gli strumenti di potere, manipolazione e corruzione - il consenso di una minoranza, sempre abbondantemente sotto il 50% degli elettori.
In questo contesto di asprezza crescente del conflitto sociale, in cui i giovani sono privati del futuro, il lavoro - che è un diritto e un dovere - viene tradotto in privilegio, e si taglia sulla scuola pubblica per incrementare l’intervento in guerra, cresce l’importanza e la responsabilità delle minoranze consapevoli e organizzate, cioè del partito comunista e del suo progetto di superamento/rovesciamento del capitalismo.
La lezione di Secchia – ha infine affermato Giacomini – è importante perché anche oggi nel partito comunista bisogna rafforzare l’organizzazione e i suoi legami con le masse, criticare il disimpegno e l’estraneità rispetto al lavoro sindacale e promuovere l’istruzione e l’attività dei quadri, assegnare a ciascun compagno un compito. Il partito comunista deve essere all’interno dei movimenti di lotta, cercare di conquistare gli elementi più avanzati, esercitare un’opera costante di educazione a cogliere nel particolare di ogni singola situazione e lotta l’elemento generale di critica del capitalismo. Il partito deve essere attivo nella società, fattore propulsivo di speranza, di costruzione di forze e di riscossa e non farsi assorbire unicamente dagli appuntamenti elettorali.
Gi.R., PdCI -- Fermo
[1] Pietro Secchia, Relazione sulla situazione italiana, da Il partito, le masse e l’assalto al cielo, Scritti scelti di Pietro Secchia (a cura di Marcello Graziosi), La Città del Sole, 2006, pag. 81.
[2] Pietro Secchia, L’arte dell’organizzazione, da Il partito, le masse e l’assalto al cielo, Scritti scelti di Pietro Secchia (a cura di Marcello Graziosi), La Città del Sole, 2006, pag. 61.
[3] Pietro Secchia, Relazione sulla situazione italiana, da Il partito, le masse e l’assalto al cielo, Scritti scelti di Pietro Secchia (a cura di Marcello Graziosi), La Città del Sole, 2006, pp. 85-86.
[4] Pietro Secchia, La nostra lotta per la libertà, la pace e la costituzione, in La Resistenza Accusa, Mazzotta editore, 1976, pag. 170.
[5] Pietro Secchia, L’arte dell’organizzazione, da Il partito, le masse e l’assalto al cielo, Scritti scelti di Pietro Secchia (a cura di Marcello Graziosi), La Città del Sole, 2006, pag. 62.
[6] Pietro Secchia, La nostra lotta per la libertà, la pace e la costituzione, in La Resistenza Accusa, Mazzotta editore, 1976, pag. 191-192.
[7] Pietro Secchia, Il partito nuovo sorto dalla Resistenza, in La Resistenza Accusa, Mazzotta editore, 1976, pp. 283-284.
[8] Pietro Secchia, Dibattito e democrazia, in La Resistenza Accusa, Mazzotta editore, 1976, pag. 468.
[9] In Ferdinando Dubla, Secchia, il PCI e il ’68, Datanews, 1998, pag. 14.
[10] Pietro Secchia, La lotta della gioventù proletaria contro il fascismo, Teti editore, 1975, pp. 7-8.