Ferdinando Dubla
Tutto
e di più è come prima: la guerra imperialista di lunga durata e il
‘miracoloso talismano’
Intervento Convegno Napoli "Il mondo dopo Manatthan: i comunisti di fronte alla guerra", 20 e 21 ottobre 2001, sala della Provincia
Cosa dovrebbe differenziare la categoria di guerra imperialista utilizzata da Lenin all’alba del primo conflitto mondiale del ‘900, dalla categoria capace di leggere, da comunisti, il conflitto di oggi?[1]
Una differenza esiste, certo, ed è compito dei comunisti di oggi sottolinearla: la guerra imperialista si trasforma in guerra imperialista di lunga durata. I comunisti oggi non discutono più della lotta popolare di lunga durata, in particolare i comunisti occidentali che così dimostrano di non aver metabolizzato le sconfitte del XX secolo; gli imperialisti, al contrario, la individuano come “new war” di inizio secolo. Le cause di questa guerra sono nella sostanza le stesse di quelle analizzate da Lenin, ma gli effetti e i modi si sono modificati. Non è dunque l’impianto di lettura della guerra che siamo chiamati a trasformare, ma l’analisi di fase, ed è su questo che dovremmo concentrare la nostra attenzione.
Così impostavano la questione i comunisti vietnamiti nel 1964, che di guerra imperialista e di resistenza ad essa se ne intendevano:
“I marxisti-leninisti giudicano che la natura aggressiva e guerrafondaia dell’imperialismo non può cambiare, perché è determinata dall’economia imperialista, la quale genera la politica fondamentale dell’imperialismo: la politica di guerra. Lenin ha detto più volte che la tendenza fondamentale dell’imperialismo è la violenza. Oggi che si è iniziata la terza fase della crisi generale del capitalismo e che l’imperialismo morente è obbligato a ritirarsi successivamente dalle proprie posizioni davanti all’impetuoso incalzare dell’offensiva del movimento rivoluzionario e di lotta dei popoli e delle nazioni oppresse, questa tendenza dell’imperialismo alla violenza, lungi dall’affievolirsi, si rafforza sempre più. L’imperialismo considera oggi la politica di guerra come il più miracoloso dei talismani capace di salvarlo dall’annientamento” [dalla rivista Tuyen Huan (Informazione ed educazione) nr.4 – 1964, pag.21, pubblicata nella Repubblica democratica del Vietnam].
Oggi
la guerra imperialista di
lunga durata si rende necessaria non per “l’incalzare dell’offensiva
del movimento rivoluzionario”, nonostante le forme di resistenza più o meno
organizzate che non godono più del riequilibrio della costruzione statale
sovietica, ma per le contraddizioni interne al sistema (di cui il
fondamentalismo religioso in alcuni paesi islamici è un’espressione)[2]
che ne minano una riproduzione allargata: è la crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale e l’egemonia del
capitale speculativo-finanziario (che è egemonia reale di capitale apparente,
virtuale si dice oggi) e la sovrapproduzione di merci che ne
derivano che provoca l’esito della guerra permanente. [3]
- Accade per la guerra quello che accade per il cosiddetto “movimento dei movimenti” che dovrebbe contrastarla: la lettura meramente fenomenica e descrittiva è funzionale all’abbandono delle categorie forti del paradigma marxista. Su questa china, non c’è il revisionismo classico né moderno, c’è la liquidazione. Proviamo a schematizzare:
- il terrorismo fondamentalista ha colpito il cuore dell’impero con le stesse armi tecnologiche utilizzate dall’impero; il terrore suscitato nelle classi dominanti USA e capitaliste dell’occidente non è l’arcaicità neomedioevale del suo progetto sociale (fino a quel momento risultato indifferente), ma l’uso di una potenza economica non per la riproduzione infinita del capitale ma per la distruzione di simboli sostanziali del capitalismo stesso.
Cosa modifica ciò dell’assunto che la guerra è imperialista, la sua causa è da ricercarsi nel ventre delle contraddizioni del sistema capitalista impigliato geneticamente nella sua stessa crisi ed è nutrito dalle conflittualità intercapitaliste? Una modifica c’è ed è nel fatto che l’attacco alle Torri Gemelle permette di considerare la guerra fattore permanente di lunga durata del tentativo di soluzione di quella crisi. Sono interessanti le analisi sulle contraddizioni intercapitaliste tra i poli statunitense, europeo e asiatico, ma in questo momento, in questa fase, non è questa la contraddizione principale. La contraddizione principale su cui lavorare, per noi comunisti, è quella fra il capitale per la riproduzione di capitale e quella fra il capitale e la sua riproduzione finalizzata alla distruzione del sistema che lo sorregge. Bin Laden è un figlio dell’imperialismo, non dell’antagonismo e della resistenza ad esso, e non solo perché finanziato a suo tempo quando il nemico principale era il comunismo sovietico, ma perché interno alla crisi del capitalismo globalizzatore. Il fondamentalismo religioso (di tutte le religioni) non può opporsi all’imperialismo perché tende ad assumere i caratteri dell’universalismo non secolarizzato. Esso si fa forte della resistenza di massa all’imperialismo, ma non è antimperialista. Se noi comunisti non lottiamo su questa contraddizione principale, il rischio è di una prassi di opposizione debole: da una parte, il collante antiamericano può rischiare il plauso – palese , camuffato o nascosto - alle forme della lotta fondamentalista; anche a prescindere dalla lontananza siderale dal terrorismo, sarebbe ed è un fenomeno di codismo sterile, insussistente e disperato.[4] Dall’altra, il collante antiterroristico si risolverebbe in una mera condanna morale, senza strumenti né d’analisi né propriamente politici. Un’altra forma di codismo sterile, insussistente e disperato.
- La crisi del movimento comunista internazionale non è il lasciapassare per l’abdicazione ai propri princìpi: tant’è vero che quella crisi, che prende le mosse dalla ‘transizione bloccata’ delle esperienze del socialismo del XX secolo, non permette di contrastare con efficacia la guerra imperialista qui in occidente né le radici popolari del fondamentalismo religioso, che infatti sono stati uniti nel recente passato dalla lotta contro il socialismo.
Quali rapporti abbiamo noi, comunisti marxisti occidentali con le forze comuniste americane, con i partiti comunisti dell’Iraq, dell’Iran, dei paesi asiatici e del Medio Oriente? Voglio ricordare solo questo: con la decolonizzazione, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti entrarono nella regione del Golfo Persico per impedire la penetrazione sovietica, sostenendo lo stato di Israele contro la resistenza arabo-palestinese e organizzando il sanguinoso colpo di Stato del 1953 in Iran, che portò al massacro di migliaia di comunisti e oppositori. Dopo la rivoluzione iraniana del 1978-79 che portò alla caduta dello Scià, furono costretti a cambiare cavallo e passarono a sostenere e finanziare Saddam Hussein, che li ringraziò mettendo fuori legge i comunisti irakeni, incarcerando e uccidendo i suoi leaders per scatenare poi una sanguinosissima guerra contro l’Iran per il controllo della regione petrolifera del Khuzistan, durata 8 anni (1980-88). E in quanto ai comunisti iraniani, il Tudeh, il Partito comunista iraniano, fu decapitato da arresti, processi, condanne a morte e lunghe pene detentive, come documentato dal bel libro del grande dirigente comunista iraniano Mohammed Ali Amouhi,, mai tradotto in italiano, “L’essenza del tempo”; lo stesso Ali Amouhi è stato liberato solo nel 1995 “per grazia ricevuta”, dopo inenarrabili traversìe e torture. E che dire di Aman Najibullah, ultimo presidente comunista dell’Afghanistan, capo del governo dal 1988 al 1992? Evirato e trucidato dai Taliban nel settembre 1996, provocò solo fioche proteste delle istituzioni internazionali, come ben si può comprendere, ma una scarsa attenzione da parte dei comunisti di questa parte del mondo, nella maschera di anime belle che preferiamo indossare, per non essere ‘contaminati’ dalle asprezze della storia, con la falsa coscienza che molti accettarono, l’Afghanistan come ‘Vietnam sovietico’. [5]
Il movimento che si oppone alla guerra, così come il movimento antiglobalizzazione che si oppone al liberismo capitalista, ha bisogno dei comunisti. Nessun imbarazzo dei marxisti militanti dinanzi a questi movimenti: i movimenti di massa sono l’acqua in cui nuotano i comunisti, così come la considerazione che non l’imperialismo ma i popoli sono la tigre vera della trasformazione della storia, due profonde e attualissime riflessioni di Mao.
Ma così come l’afferrare le contraddizioni principali rispetto a quelle secondarie renderebbe più efficace la nostra azione di lotta contro la guerra imperialista [in sintesi, la contraddizione principale è ancora oggi tra borghesia imperialista dominante USA e classi popolari oppresse ad occidente come ad oriente, le contraddizioni secondarie quelle tra borghesia imperialista dominante Usa e i poli capitalistici europei e asiatici, nonché l’antagonismo con le borghesie nazionali per questioni di mercato interno e internazionale, la contraddizione apparente con cui si mascherano quelle contraddizioni è quella tra borghesia dominante USA e la borghesia clerical-capitalista che guida il fondamentalismo religioso) così cercare di ‘contaminare’ il movimento non sarebbe pretesa di egemonia ma rendere più efficace l’ azione del movimento stesso.
A questo movimento infatti, paradossalmente, manca la ‘contaminazione’ propria dei princìpi comunisti. I quali non possono assolutizzare nessuna forma di lotta: la non-violenza assurta a valore assoluto e la resistenza simbolica tipica della ‘disobbedienza civile’, già in contraddizione tra loro, confliggono (ma, appunto, solo se assolutizzate) potenzialmente con gli esiti possibili della lotta di classe e più in generale con la lotta delle masse popolari. Il nesso che i marxisti pongono è quello tra potere politico-economico dominante/forme della lotta di classe/ processo e rottura rivoluzionaria. Leninisticamente, la fissazione assoluta del secondo termine del rapporto, cambia anche il primo e il terzo: in concreto, la richiesta al potere politico-economico della globalizzazione imperialista di rapporti sociali ‘più equi e giusti’ e non la rivendicazione del potere politico-economico per le classi popolari; un protagonismo mass-mediatico simbolico e la spettacolarizzazione del ‘gesto ribelle’ e non la partecipazione cosciente delle grandi masse, guidata dai ceti produttivi, alla trasformazione rivoluzionaria. Un riformismo compatibilista in un involucro massimalista e ribellistico, che assegna a determinate forme di lotta e resistenza un valore assoluto e paradigmatico. I comunisti devono farsi sì contaminare dalla fase peculiare che le forme di resistenza al liberismo capitalista assegnano al periodo storico, ma senza rinunciare a porre quel nesso fondamentale che non può essere ridotto ad una ‘caricatura’ schematica come quella della coscienza portata dall’esterno dalle avanguardie e alla presunzione egemone del problema della direzione che mirerebbe ad annichilire le differenze. Ogni movimento è il risultato di fasi storiche determinate: rivestirsi esso stesso dell’essere storia, tant’è che nulla è come prima e tutto si è modificato, potrebbe voler significare la rinuncia ad un progetto sociale davvero radicalmente alternativo al sistema capitalista.
E invece ci troviamo a discutere di una proposta, l’ennesima, di mutazione genetica: l’insorgenza e lo sviluppo del movimento, Marcos e Porto Alegre, nonché la guerra imperialista di lunga durata che si affaccia all’alba del XXI secolo, dovrebbero cambiare i connotati organizzativi della forma-partito leninista. Come se essa non si fosse modificata nel tempo, e non in base alle mutate condizioni storiche, ma in base all’opportunismo e allo scambio ineguale quote di potere/modificazione della struttura e dei fini dei partiti comunisti rispetto all’impianto leninista. Riguardo le forme organizzative, propongo una salutare ‘contaminazione’ dal movimento: non lasciare solo alle organizzazioni cattoliche, nostre compagne di viaggio nella resistenza antiglobalizzazione, un recupero delle origini storiche, ma rivendicarlo per sé, per recuperare tutta l’efficacia di quelle forme, senza sovrapposizioni e incrostazioni opportuniste o tipicamente revisioniste. A noi poi il compito di aggiornarle alla fase storica reale dell’epoca contemporanea.
- Con la guerra imperialista di lunga durata, miracoloso talismano per il tentativo di superamento della crisi del capitalismo come sistema, il re è nudo. E’ nuda la struttura democratica dei paesi dell’occidente: la borghesia imperialista chiede e ottiene la restrizione degli spazi di democrazia sociale conquistati dalle masse popolari nel corso di lotte durate secoli, chiede e rischia di ottenere il silenzio compiacente della comunicazione mediatica, l’autocensura delle agenzie di informazione, non sopporta le opinioni plurali e contrastanti il ‘pensiero unico’, chiede e ottiene l’irrigimentazione e la messa alla gogna degli ‘imbelli pacifisti e antiglobalizzatori’ , vuol colpire meglio e con mano libera le prerogative del mondo del lavoro. L’illuminismo come maschera di classe non esiste più: il re è nudo, appunto, vogliono dirci, niente è più come prima. E invece tutto e di più è come prima: e un neoilluminismo materialistico-dialettico, che affondi la lama nelle contraddizioni, può essere un’arma brandita dal proletariato, classico e moderno nella sua composizione e dai marxisti di questo secolo appena iniziato.
In quest’ottica, se tatticamente è necessario convergere nell’apprezzamento all’appello del primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre, che mette al centro della propria linea politica “la lotta al neoliberismo in nome dell’umanità”, strategicamente sappiamo che esso si rivelerà insufficiente nell’attivazione delle soggettività rivoluzionarie, così come si rivelò insufficiente la visione ‘umanitarista globale’ al posto di quella classista nel PCI del movimento per la pace del 1951 e in tutta la fase mondiale della ‘coesistenza pacifica’.
Sarà bene dunque rilevare queste insufficienze strategiche basate sulla storia concreta dei comunisti anche al prossimo Forum sociale mondiale che terrà il suo secondo appuntamento internazionale sempre a Porto Alegre dal 31 gennaio al 5 febbraio del 2002, che ha come parola d’ordine “un altro mondo in costruzione”, sottolineando le differenze che esistono tra ‘democrazia partecipata’, ‘bilancio partecipato’ e l’esperienza della Comune di Parigi del 1871: e non per esercitazione accademico-stroriografica, s’intende, ma per non rinunciare al punto di vista comunista, al paradigma marxista e leninista, perché quel mondo in costruzione sia il socialismo del XXI secolo.
Ferdinando Dubla,
ottobre 01
Dichiarazione
dei Partiti Arabi Comunisti e dei Lavoratori
L'umanità in tutti i continenti e paesi ha
ricevuto la notizia degli attacchi suicidi a New York e Washington esprimendo
per essi la più ferma condanna. Ma sebbene questi attacchi diffondono paura,
orrore e una situazione di frustrazione in America, creano anche una situazione
di rabbia e condanna fuori di essa a causa delle migliaia di persone innocenti
che sono cadute vittime di questa aggressione.
Ma la condanna non significa rifiutare di vedere questo atto terroristico nella
sua realtà, essendo principalmente un esito amaro della politica americana.
D'altro canto esso è una conseguenza del rancore e della rabbia che sono andate
crescendo in tutto il mondo, contro l'ingiustizia, l'oppressione, lo
sfruttamento e l'impudenza contro gli esseri umani e i popoli; così come contro
la povertà e la miseria crescenti in tutto il mondo. La reazione
dell'amministrazione statunitense a questo evento e i susseguenti atti hanno
mostrato elementi di confusione, arroganza e mancanza di razionalità. Essa ha
considerato quanto accaduto l'inizio di un nuovo tipo di guerra che le forze del
male hanno dichiarato contro le forze del bene e si è impegnata a condurre una
crociata di lungo periodo fino a quando questa non acquisirà la vittoria.
Ha invitato gli stati del mondo ad unirsi con essa contro il terrore e contro
stati e centri che ospitano terroristi e offrono loro assistenza. Tutto ciò
senza arrivare ad una chiara indicazione delle responsabilità. Il suo
atteggiamento ha cominciato ad assomigliare ad un regolamento dei conti in
sospeso coi suoi oppositori, impiegando lo stesso attacco suicida come mezzo per
portare avanti le solite politiche, per esempio la politica di controllo sul
mondo e la sua sottomissione agli interessi americani con esclusione di quelli
altrui. L'amministrazione statunitense sta perciò deliberatamente ignorando i
fattori reali che hanno portato a questa catastrofe, primo e principale la
politica di impoverimento delle nazioni e saccheggiamento delle loro ricchezze,
di ostruzione delle legittime istituzioni internazionali e di supporto alle
infrazioni di Israele a danno dell'onesta condotta palestinese e di arroganza
del potere e di tentativi all'egemonia e all'esclusività. Qui sta il male e la
fonte delle reazioni ad esso. Il più grande esempio di ciò sono gli atti di
ricatto e i crimini commessi dal governo del criminale mondiale Ariel Sharon,
che ha usato gli attacchi negli Stati Uniti come un pretesto asserendo che la
sua aggressione contro il popolo palestinese rappresenta il suo contributo
contro il terrore. Questa complessa situazione richiede che tutte le persone
oneste del mondo lavorino duramente per respingere i propositi americani e
supportare l'idea di convocare una conferenza internazionale sotto l'egida delle
Nazioni Unite che è stata richiesta dalla Siria ed è attualmente accettata
dall'Egitto ed altri paesi. Una tale conferenza può, basata sugli ultimi eventi
e quelli precedenti, definire una esaustiva definizione del terrore
internazionale che faccia una distinzione fra esso e atti legittimi di
resistenza. Solo allora potrà essere instaurata un'alleanza internazionale
contro il terrorismo, dopo avere raggiunto un accordo sulla sua definizione,
sulle sue forze e mezzi.Questa alleanza sarà infine sotto la super visione
delle Nazioni Unite e sotto la sua esclusiva responsabilità.
Il pericolo che l'azione statunitense possa andare oltre la reazione contro gli
attentatori, esige estrema vigilanza da parte araba, in difesa degli interessi
arabi in generale e del popolo palestinese in particolare. Gli Stai Uniti e il
mondo continueranno ad essere esposti al terrorismo finchè durerà l'attuale
politica di Washington e finchè l'ingiustizia, l'usurpazione e l'occupazione
continueranno; fino all'alba di un nuovo ordine mondiale dove armonia, giustizia
ed eguaglianza prevarranno fra i popoli.
Dichiarazione 10 ottobre 2001
Partito Comunista Giordano
Partito Comunista Siriano
Partito Comunista Iracheno
Partito Comunista Libanese
Partito Comunista Sudanese
Partito Comunista Egiziano
Partito del Popolo Palestinese
[1] Commentando l’ultima “fatica” di Michael Hardt e Toni Negri, Impero, Nadine Rosa-Rosso, segretaria generale del PT belga, ha scritto: “L’impostura dipende dalla mania di certi intellettuali di credere che la natura dei fatti cambi solo perché li chiamano con nomi diversi. (..) Sostituite la parola ‘imperialista’ con ‘imperiale’ ed ecco che non ci sono più guerre imperialiste. (..) Per Hardt e Negri l’Impero è caratterizzato dalla sparizione delle frontiere e degli stati nazionali. Non c’è nessuna dimostrazione concreta di questa tesi. Affermando che il ‘nuovo ordine imperiale’ è americano, gli autori rinunciano nei fatti a denunciare l’esistenza di un consistente blocco imperialista europeo.”, cfr. Impero e imperialismo, dal settimanale del partito Solidaire, riportato in Aginform, nr.21, settembre 2001
[2] Per fondamentalismo religioso deve intendersi oggi, più che i princìpi primi e di base di un credo teologico, l’assunzione integrale in termini comportamentali delle norme e della precettistica prescrittivi dello stesso. E’ appena il caso di ricordare che la liberazione dalle illusioni di tipo religioso è, secondo Marx ed Engels, la liberazione da condizioni che rendono le illusioni praticate dai popoli: non può esservi liberazione dalla religione per via di una critica teorica, ma solo con l’abolizione pratica delle condizioni materiali che la rendono possibile. Il “fondamentalismo” è dunque una tendenza che percorre l’ideologia delle classi dominanti, e la tipologia religiosa non è l’unica tipologia che lo riveste. Cfr. F.Engels, L.Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1886) e Marx-Engels, Tesi su Feuerbach (1845), Roma, ed. 1950
[3]
Marx tratta della crisi per
sovrapproduzione assoluta di capitale, nell'ambito dello "Sviluppo
delle contraddizioni intrinseche della legge" ( si riferisce alla
caduta tendenziale del saggio di profitto),
nel cap.15
del III Libro,
inserendola nell'analisi del "conflitto
fra l'estensione della produzione e la valorizzazione" (2.) ed
"eccesso di capitale e sovrappopolazione" (3.):
"
Il vero limite della produzione
capitalistica è il capitale stesso,
è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto
di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la
produzione è solo produzione per il
capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici
mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori. (..)
[5] Antonio Moscato, non certamente tenero nei confronti dell’URSS e della sua storia, ha scritto, a proposito dell’esperienza del governo di coalizione di Najibullah (1988-1992): “Il tentativo di riforme modernizzatici (l’istruzione gratuita per entrambi i sessi, ecc.) era indubbiamente calato dall’alto, senza conoscere e capire bene l’arretratezza del paese. C’è una qualche analogia con la repubblica partenopea del 1799, fragile, con una direzione intellettualistica e aristocratica, aggrappata alla speranza dell’aiuto della Francia, che fu spazzata via dalle bande di contadini analfabeti aizzati contro i “signorini liberali” dal cardinal Ruffo di Calabria, che uccisero, stuprarono, consegnarono al patibolo il meglio dell’intellighenzia napoletana e delle province, compresi alcuni religiosi e parecchie suore. Tutto questo in nome della “Santa Fede”, di fatto una specie di Vandea italiana. Sul conto dei rivoluzionari napoletani del 1799 si possono mettere molti errori e debolezze, e soprattutto l’incapacità di operare una rottura netta con la loro origine aristocratica, ma si poteva forse stare per questo dalla parte delle bande sanfediste?”, cfr. La Lunga tragedia dell’Afghanistan, in Liberazione, 18/10/2001. Per la cronaca della morte dell’ultimo presidente comunista afgano, cfr. Maria R.Calderoni, Assassinio all’Onu, in Liberazione, 6/10/2001
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