IL PARTITO E IL DIBATTITO
Stile di lavoro, metodo di direzione, direzione collegiale e dipartimentazione nel partito comunista
Nelle conferenze d’organizzazione del partito comunista, il tema dominante
deve e non può non essere la funzionalità degli organismi
dirigenti, l’attivismo dei quadri e la loro formazione, la partecipazione
dei militanti e degli iscritti, la vita delle sezioni, la composizione
sociale del partito, ecc.. Con due belle tipiche espressioni, lo stile
di lavoro e il metodo di direzione. Così è stato nella tradizione
del Partito Comunista Italiano; nella migliore tradizione del PCI; ma,
come già in quella tradizione, la domanda di fondo da cui partire
è la seguente: quale organizzazione per quale linea politica,
quale organizzazione per il raggiungimento di quali obiettivi strategici,
quale organizzazione per quale analisi di fase e relative tattiche
e strategie del partito? Fu così nel 1947, alla III Conferenza d’Organizzazione
di Firenze, - l'organizzazione era ciò che aveva permesso al PCd'I
della cospirazione antifascista di sopravvivere e preparare le condizioni
dell'insurrezione nazionale. In quel momento i difetti dell'organizzazione
comunista erano anche i limiti del partito dei piccoli gruppi; l’insegnamento
che ci è venuto da quella tradizione:
- la costruzione di un partito di massa si ha rafforzando al massimo
e capillarmente l'organizzazione, migliorando cioè e sviluppando
una vera politica di quadri;
- la 'guerra di posizione' non può diventare 'rendita di posizione'
per gruppi dirigenti imbelli e passivi: la palude del tatticismo e dell'opportunismo
la si guada con la chiarezza della prospettiva strategica (per un partito
comunista il socialismo, esito non più di una rottura, ma di un
processo rivoluzionario);
dunque
Stile di lavoro/metodo di direzione, ma per la linea
politica. Oggi il Prc è impegnato in un dibattito che deve ancor
più investire tutto il corpo dell’organizzazione: per quanto mi
riguarda, interpreto l’analisi sulla fine del centrosinistra, il seppellimento
di questa formula con cui i gruppi dominanti hanno governato o tentato
di governare la conflittualità sociale e la transizione politica,
e la strategia per una sinistra plurale, come una strategia che ha bisogno
di due precondizioni indispensabili:
- la costruzione, lo sviluppo e l’unità d’azione della sinistra
antagonista
- il rafforzamento e il radicamento, non disgiunto da un’identità
più accentuata e marcata, del progetto della rifondazione Comunista;
dunque un bisogno maggiore, non minore, del partito comunista di quadri
e di massa radicato nel popolo.
E qui a Taranto ne abbiamo la riprova.
Taranto e i processi di modernizzazione capitalista che ci riportano
alla prima rivoluzione industriale in termini di sfruttamento dei lavoratori;
altro che new economy!
Taranto e i processi di populismo demagogico: meglio la delega che
la partecipazione, meglio credere nelle virtù terapeutiche dell’uomo
forte piuttosto che affermare la propria soggettività di classe;
tranne poi che svegliarsi una mattina, quella di due mesi fa, e ritrovarsi
il grosso Masaniello detronizzato dalla lady di ferro, da colei che parla,
sa parlare e si presenta bene, che curerà look e immagine come sua
della città, che da due mari, operaia e inquinata, diventerà
dei due volti, un Giano bifronte, da una parte gli altoforni dell’Ilva
e il suo ‘mobbing’ e dall’altra le sfavillanti convention e il salotto
buono da mostrare come i gioielli di famiglia.
Taranto e la cultura: una città in cui fare e produrre cultura
sembra ormai sinonimo di due cose: le amene manifestazioni tra il pirotecnico
e il folcloristico di pessimo gusto e la delega ai baronati universitari
per quanto riguarda la ricerca, naturalmente asservita alle esigenze produttive.
E intanto gli storici locali, gli studiosi, i certosini che pazientemente
tengono in vita, con la loro passione, un’identità collettiva sempre
più calpestata dai processi di globalizzazione e americanizzazione,
per loro non c’è spazio, a meno che non si occupino della fetta
di Medio Evo presente in questa falsa modernizzazione e si dedichino ai
riti religiosi collettivi, l’unica ancora di identità possibile.
Non parliamo poi degli storici del movimento operaio, una specie in estinzione
da ridurre all’afasia e all’impotenza.
Taranto e l’americanizzazione non più come metafora di civiltà,
come in «Americanismo e Fordismo» di Gramsci, ma come delega
a forze tecnocratiche come la società americana a cui è stata
appaltata, come primo atto significativo della nuova giunta Di Bello, la
progettazione e lo sviluppo, il ridisegno urbanistico e produttivo della
città. E noi che continuiamo a pensare che questo sia un diritto/dovere
dell’intero popolo tarantino!! Espropriati chissà quante volte
del nostro territorio: i nuovi Pirro si chiamano militarizzazione, poi
monocultura dell’acciaio e ora tecnocrazia manageriale dei ricchi e forti
della globalizzazione. Oggi il politico che impersona la Di Bello è
l’amministratore dei poteri forti. Non più il politico che media
gli interessi dei poteri forti rendendoli egemoni ai bisogni delle masse
popolari: questa era l’architettura democristiana del capitalismo assistenzialistico
di Stato. No: oggi si amministrano direttamente gli interessi. E siccome
il politico non ha competenze settoriali, ecco comparire gli staff. Lo
staff della nuova giunta polista di Taranto è di prima grandezza:
vecchi socialisti riciclati, spezzoni di ceto politico che si credeva decomposto
per sempre, city manager (da campagna-acquisti: ingaggio dai 150 milioni
della Provincia a 250 del Comune), tecnocrati da ‘master continuo’, e pure
il fratello della lady, perchè il profitto (in questo caso dovrebbe
essere il profitto sociale) non può fermarsi davanti agli imperativi
morali. Imperativi morali? E poi bisogna pagare le cambiali contratte in
campagna elettorale! E così che i nuovi padroni della città
drenano risorse pubbliche, denaro della collettività a favore dei
padroni di sempre! Altro che libero mercato! (Per inciso, questa operazione
costerà 1.500.000.000 alle tasche esangui dei tarantini).
Queste operazioni dovrebbero poi essere coperte malamente appunto dall’amministrazione
del potere: e così, come già nell’era-Cito, ordinaria amministrazione
a copertura degli affari pompata come straordinaria dal barocco scenografico
delle inaugurazioni di pezzi di strada e dalle multe per le cacche dei
cani.
E mentre questi fenomeni ci accadono sotto gli occhi, il partito
dov’era e dov’è? [Ci sarebbe certo da dire prima: quanto la
sinistra moderata e governista, compatibile e concertazionista, abbia di
responsabilità in questa situazione. Tante, tantissime, soprattutto
perchè ha risposto ai processi della destra vecchia e nuova con
un’etica della legalità che a troppi strati popolari, subalterni
è apparsa fuori tempo massimo, quando non estranea non perchè
ingiusta, ma perchè inutile e soprattutto etica del non-cambiamento,
della non-trasformazione, soprattutto delle non-risposte ai propri bisogni.
Citare il caso del rapporto DS-Taranto solidale] Nonostante questo, i comunisti
devono innanzittutto operare il loro bilancio critico dell’esperienza.
E’ quello che stiamo cercando di fare.
Espropriati del grande PCI degli anni ‘70, la prima Rifondazione ci
ha lasciato in eredità un vuoto difficilmente colmabile; un vuoto
che prima era riempito dal ‘socialismo’ in un paese solo, Montemesola e
poi via via dagli opportunismi che un ceto politico autoreferenziale e
turpemente dispotico aveva messo in essere per occupare lo spazio politico
‘naturale’ e ‘fisiologico’ di Rifondazione. Colpe che è compito
del nostro, di questo gruppo dirigente del partito espiare. Come? Con l’iniziativa
politica di massa, bandendo l’opportunismo, la rissosità, la litigiosità
dalle nostre fila; il personalismo senza opzioni politiche che dobbiamo
estirpare come una mala pianta che impedisce al Prc di decollare, prima
che come forza organizzata, nel sentimento delle masse.
E’ in ragione di questa pesante eredità che non possiamo, noi,
commettere gli stessi errori. L’accentramento delle decisioni non è
solo strozzatura della democrazia, ma è scarsamente funzionale.
Non è giusto, ma quand’anche: a che serve?
Allora: Direzione collegiale e dipartimentazione, come un laboratorio
con le finestre spalancate: le massime aperture del partito comunista,
politiche e sociali, sono possibili solo e a condizione che esso si radichi
sempre di più e sempre meglio nel territorio, nei luoghi di lavoro,
nei luoghi di elaborazione e nelle istituzioni.
Queste ultime devono essere considerate delle risorse, delle possibilità
per far irrompere i bisogni di classe nei luoghi decisionali. (caso Belleli)
Che irrompa questo o quel personaggio, da aggiungere alla lista del
ceto politico, in rapporto conflittuale perenne con la base della propria
organizzazione, è una possibilità che ci dobbiamo lasciare
alle spalle come malattia esantematica.
Realtà tarantina – stato del partito cittadino
Vedi Pci Taranto del dopoguerra (degli Odardo Voccoli, Giuseppe Latorre,
Nicola De Falco) terza pugliese, ma sesta dell’intero Mezzogiorno (in termini
assoluti). In termini relativi, in rapporto alla popolazione, è
seconda solo a Catanzaro
Il progetto (ristrutturazione, cellula di fabbrica)
Il coordinamento cittadino: sua importanza, ruolo che deve assumere,
equilibrio complessivo del partito, necessità per la città.
Non obiettivo politico lontano, ma da praticare qui, subito e ora,
almeno nelle sue linee portanti e progettuali.
Dotarsi di strumenti di informazione interni ed esterni.
Stato dell’informazione nella città di Taranto: allarme per
il servilismo ruffiano e accondiscendente.
Diffusione Liberazione e Feste di Liberazione
Secchia alla Conferenza d’Organizzazione del Pci nel 1947 (Firenze) fece appello all’impegno attivistico dei quadri per modificare le disparità: «Queste differenze, questi grandi sbalzi dipendono anche dal nostro lavoro e dalla qualità dei quadri di cui disponiamo. Noi siamo convinti che l’uomo e il suo lavoro, specie se è comunista, può modificare anche le situazioni oggettive».
Fluttuazione degli iscritti (dati Taranto): l’opportunismo allontana molti quando non ottengono i favori personali che li avevano indotti a iscriversi: dunque c’è anche un’incapacità nostra di fornire al (nuovo iscritto) una formazione e un compito di lavoro concreto.
Un’adeguata coscienza è elemento necessario di un adeguato agire.
La valutazione di una situazione vale come linea di marcia per una
organizzazione se, almeno nei tratti fondamentali, è condivisa con
piena convinzione dei suoi militanti, tanto da esser pronti ad impegnarsi
nella linea politica conseguente. Se questo non accade, se la linea politica
scende «dall’alto», in base ad astratte elaborazioni soggettive,
è destinata a non essere applicata, neanche dopo esortazioni risolute
ad applicarla. Perché elaborazioni ed analisi possano condurre alla
trasformazione rivoluzionaria della vita e della società, è
necessario che si integrino nella prassi politica e che vengano continuamente
sottoposte alla verifica dell’esperienza politica.
Ogni attivista di partito deve rendersi «intellettuale organico»
della classe lavoratrice, come diceva Gramsci: il partito è il luogo
in cui si realizza una compenetrazione di teoria e prassi, nella stessa
misura in cui la vita di partito si svolge con l’attiva partecipazione
dei militanti; è il luogo, in cui si impara dall’esperienza, si
costruisce la teoria, la si modifica e la si collega alla pratica ed in
cui dalle generalizzazioni teoriche si ricavano conseguenze politiche.
Va da sé che forza ed efficacia di una qualunque organizzazione
di partito dipendono dal grado di attività dei suoi militanti e
cercar di promuovere l’impegno pratico degli uomini, certamente, è
impresa destinata all’insuccesso, se essi fanno riferimento ad una moralità
astratta.
Se si abbassa la motivazione ideale, se il dibattito politico si rabbassa
a personalismo o risulta inesistente, se la tensione ideale e politica
scema nella routine abitudinaria di una prassi insussistente che
fa scomparire le ragioni del militare collettivamente in un organismo rivoluzionario
che tenta l’immane compito di instaurare un’altra società rispetto
a quella dominante del capitalismo imperialista, allora si alza il litigio,
l’insulto, la rissa per l’occupazione di questo o quel posto di potere
(nelle istituzioni o nel partito) che anche questa società è
disposta a rilasciare se, appunto, si assumono i suoi valori di riferimento.
Ha scritto Holz:
«L’unità del partito (dunque, della forma in cui si organizzano
le forze rivoluzionarie) è una condizione della sua capacità
di agire. Va da sè che la costruzione di una società nuova
è un percorso che prevede la possibilità di varianti: di
qui l’altrettanto possibile presentarsi di dissensi all’interno del partito.
Solo un alto livello teorico può garantire che quei dissensi non
si traducano in lotte frazionistiche, bensì in dibattiti da risolvere
con argomenti. « (..)
«un partito comunista è sempre in sviluppo e sempre in
lotta per la sua identità. Se esso non fosse questo (ed esso non
è stato questo in fasi della sua storia), allora degenererebbe in
un apparato burocratico.» (48 e 66)
Noi tutti abbiamo questa responsabilità. Assumiamocene consapevolmente
il carico.
scrivete a linearossa@virgilio.it
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(luglio-agosto
2000)