Centro Studi e Documentazione marxista
Archivio Opere Secchia, Taranto

Pubblicazioni  di Ferdinando Dubla

Riproduciamo l'introduzione agli scritti di Pietro Secchia: I quadri e le masse (1947/49) - Per un Partito Comunista radicato nel popolo, volume curato da Ferdinando Dubla edito da Laboratorio Politico, 1996

"Perché verrà messo tutto in cantina e addirittura bruciato, comunque sepolto, in modo che di me si perderà anche la memoria. Non crediate che di Pietro Secchia non si parlerà mai più in un prossimo avvenire"

Pietro Secchia, lettera al figlio Vladimiro, 1973

 

 

Fu conseguenza delle capacità politico-organizzative dimostrate durante gli anni della Resistenza, ma anche prima del suo arresto avvenuto il 3 aprile 1931 mentre preparava, sfidando le maglie repressive del regime fascista, il IV Congresso del PCd'I che si doveva tenere a Colonia (e che si tenne senza la sua presenza 'attiva', ma sotto la sua egida), che Pietro Secchia ricevette anche formalmente l'incarico di dirigere il settore 'organizzazione' del partito, subito dopo il V Congresso del PCI, tenutosi presso l'Università di Roma tra il 29 dicembre del 1945 e il 6 gennaio 1946 (si racconta che i congressisti e i delegati salutassero l'anno nuovo riuniti nelle commissioni). E che questo ruolo si attagliasse perfettamente alla sua personalità politica, per i meriti indiscussi che si era conquistato (già prima di diventare, dopo la sua liberazione dal confino di Ventotene nell'agosto del 1943 commissario generale delle brigate 'Garibaldi' incorporate nel C.V.L., di cui Luigi Longo era vice-comandante) lo testimoniano le parole accorate che Palmiro Togliatti scrisse per La Vie Proletarienne nel giugno 1931:

"La perdita di Secchia (riferita al suo arresto, ndr) colpisce in pari tempo la 'vecchia guardia' e la nuova generazione. Nel compagno Secchia infatti, meglio che in qualsiasi altro elemento dei nostri quadri, si era realizzato il contatto, la unità di due diversi strati di militanti e dirigenti del partito. (:) tra i giovani, egli è uno di quelli che più rapidamente hanno acquistato capacità di direzione, cioè qualità di slancio, doti di entusiasmo e di ottimismo, freddezza di giudizio ed equilibrio."[1]  

Doti che Secchia mantenne in seguito anche a dispetto delle alterne vicende che lo videro ora osannato, amato, temuto tra i militanti comunisti e il gruppo dirigente, ora allontanato da incarichi rilevanti e progressivamente emarginato  con cinica superbia, violenza morale ed opportunismo, da una parte di quella stessa leadership del PCI che lo aveva visto ascendere fino al ruolo di vice-segretario. E con quelle doti egli si apprestò a dirigere l'organizzazione del partito, ma non solo doti 'organizzativistiche': per lui, la struttura organizzativa discendeva direttamente dall'arte politica e dunque dalla linea del partito, così come durante la Resistenza antifascista, nella 'guerra di movimento', l'arte militare si situava all'interno del primato della politica. Ma è indubbio che lo specifico contributo di Secchia, nell'ambito della tradizione comunista e della riflessione marxista-leninista, va ricercato nella sua complessiva filosofia dell'organizzazione:

"Alla fine del 1945, quando si celebra a Roma il V Congresso del Pci, gli iscritti al partito sono già più che triplicati rispetto all'aprile. Sono 1.800.000, organizzati in 7.000 sezioni e 30.000 cellule; al VI Congresso nel 1948, gli iscritti sono 2.250.000 e le cellule sono diventate 50.000. Se nessuno, e tanto meno Secchia, avrebbe mai pensato di attribuirsi tutto il merito di questa crescita, è pur vero che in massima parte proprio a lui, ai suoi metodi e al suo stile di lavoro - e alla capacità di trasmettere questo stile a centinaia e migliaia di quadri - va ascritto quel successo. (:) Il mito dell'organizzazione, di una macchina funzionante perfettamente a tutti i livelli, che non lascia nulla all'improvvisazione o al caso, si diffonde rapidamente nel partito."[2]

L'organizzazione come concetto 'non ristretto', ma legato intimamente al primato della politica e alla prassi leninista e concreta dell'azione, sarà ribadito, dal dirigente comunista di origini piemontesi,  in specie negli scritti che qui presentiamo successivamente al '47 e cioè nel suo discorso al VI Congresso del gennaio del 1948 e nell'articolo per Rinascita del dicembre 1949. Il periodo che va dal gennaio 1947 (la III Conferenza d'organizzazione di Firenze) a tutto il 1949, può essere considerato, a ragione, come il periodo in cui Secchia dispiega il massimo del suo impegno di militante e dirigente comunista nelle fila del PCI guidato da Palmiro Togliatti. E non solo perché, proprio dopo il VI Congresso, nel febbraio del '48, assurgerà alla carica di vice-segretario con Luigi Longo, ma per il fatto fondamentale che avrà modo, operativamente, di dare gambe alla sua concezione di partito comunista radicato nel popolo, di massa, facendone rimanere inalterate l'identità di partito di quadri che si era conquistato nella Resistenza antifascista e dunque con le qualità tipiche di un partito d'avanguardie, leninisticamente inteso. Se la nuova fase politica aperta da Togliatti con la 'svolta di Salerno' (1944), rendeva il partito cospirativo e di piccoli gruppi con scarso raccordo tra di loro, insufficiente per la 'guerra di posizione', era anche vero che la quantità rilevante di iscritti, che portò il PCI dai 501.960 aderenti del 1944, ai 2.252.446 del '47 (massimo storico dell'intera vita politica del Partito comunista fondato a Livorno nel 1921), poneva il problema di non stemperarne la 'qualità', la funzione d'avanguardia, di valorizzare al massimo l'esperienza acquisita da centinaia e centinaia di quadri nel corso della guerra di liberazione antifascista; di 'vaccinarlo', insomma, dall'omologazione istituzionalista e governativistica, in virtù anche del difficile crinale politico che intersecava la linea togliattiana del 'partito nuovo' e della 'democrazia progressiva' con la partecipazione dei comunisti ai governi di unità nazionale insieme alle forze moderate e conservatrici (fino all'aprile 1947) e con i lavori coevi dell'Assemblea Costituente dopo le elezioni del 2 giugno 1946. Secchia non è nè fuori della linea togliattiana nè fuori della specifica fase storica che attraversava il nostro paese, ma aveva connotati suoi propri sia di interpretazione della linea politica sia dell' analisi di fase; e ciò permarrà come carattere distintivo di tutto il suo lavoro politico in simbiosi dialettica con Togliatti fino al 1954.[3] E simbiosi dialettica non significa nè adeguamento passivo e opportunista, nè negazione della linea politica. Contro i pericoli della via istituzionale come prioritaria a quella dell'organizzazione del conflitto di classe nella società, che era il punto che maggiormente lo distingueva da Togliatti, Secchia aveva avvertito già nel corso del 1946, nella direzione del 20/22 giugno successiva al referendum e alle elezioni per l'Assemblea Costituente; "l'intervento di Secchia appare assai importante e significativo" - ha scritto recentemente R.Martinelli - "prendendo la forma di una valutazione complessiva di tutta la situazione del partito (:) e in esso appare una trasparente polemica contro Togliatti, espressa dal rifiuto di attribuire gli insuccessi registrati in varie località unicamente alle deficienze di linea politica e al lavoro insufficiente dei dirigenti. (:) Pur non mettendo in discussione la linea politica, Secchia afferma che questa non è stata compresa e assimilata in modo largo ed effettivo. Di qui prende le mosse un'esposizione di grande incisività, nella quale si bilanciano osservazioni diverse, in parte contraddittorie e divergenti: nelle parole di Secchia (:) si riflette e si esprime in effetti tutta la straordinaria complessità di una fase politica nella quale l'elemento della combattività e dell'offensiva politica deve coniugarsi con una grande responsabilità sociale, la propaganda per l'URSS con l'adesione alla realtà nazionale, ecc.. Egli propone infine un insieme di misure (scuole di partito, epurazione, spostamenti di quadri, ecc.) di carattere organizzativo. Il discorso di Secchia trae la sua importanza dal fatto che egli mette il dito sulla piaga, dando voce ad un risentimento assai diffuso e caratterizzandosi in termini diversi e lontani dall'impostazione togliattiana: non a caso non parla mai del governo."[4]

Questa specifica caratterizzazione di Secchia, interpretazione di classe e rivoluzionaria della linea togliattiana e progressiva differenziazione da essa, data, a nostro modo di vedere, dal giorno successivo alla Liberazione del 25 aprile 1945, per le profonde diversità di profilo politico tra le due personalità comuniste; come, d'altra parte, testimoniano a più riprese due dei maggiori curatori dell'Archivio Secchia presso l'Istituto G.G.Feltrinelli, Ambrogio Donini e Leo Valiani. Il primo dichiara, in polemica con le ricostruzioni troppo unilaterali di Giorgio Amendola (cfr. per tutte il libro - intervista a cura di Renato Nicolai Il rinnovamento del PCI, Editori Riuniti, 1978, che si occupa a lungo della figura di Secchia e data la polemica con Togliatti al 1953, causa la 'destalinizzazione' che sfocerà nel XX Congresso del PCUS) che "Il dissenso tra Secchia e Togliatti è molto più antico, non riguarda i metodi organizzativi o il 'settarismo' di Secchia come tenta di far credere Amendola, ma piuttosto un grave contrasto di linea politica. (..) E' certo che Secchia condivise la svolta di Salerno, ma cominciò a dubitare fortemente della linea togliattiana a partire dal 1946."[5] Valiani, l'azionista che condivise con Secchia la reclusione nei penitenziari di Lucca e Civitavecchia dal febbraio 1932 fino al 1936, è ancora più radicale e scrive che "Il contrasto nacque così nel '45. Secchia non era del tutto convinto dell'utilità della collaborazione a lungo termine con la democrazia cristiana, che formava il cardine della linea di Togliatti. Secchia avrebbe voluto che il partito comunista difendesse più risolutamente il governo Parri e, in generale, le conquiste dell'insurrezione partigiana."[6]

Dunque nessuna meraviglia che Secchia presenti nel dicembre del 1947 ai sovietici, a Stalin, un memorandum che è un vero e proprio consuntivo della linea togliattiana e dei suoi esiti insoddisfacenti, rimarcando una sempre più netta distinzione che, nellle forme e nei modi del tempo, egli confermerà nella sua relazione al VI Congresso del PCI nel gennaio 1948: per questo qui premettiamo a quella relazione, stralci significativi di quel memorandum, che è il filo conduttore dell'analisi secchiana, tra la Conferenza d'organizzazione di Firenze e, appunto, il VI Congresso.[7]  Lo scritto fu presentato non per fedeltà filosovietica e staliniana, dunque (quanto a questo, Togliatti e Secchia erano due diversi tipi di stalinisti, come si vedrà a proposito dell'articolo su Rinascita del dicembre del 1949) ma per limpida coerenza di princìpi, di concezioni e di analisi politiche. Una coerenza che portava Secchia ad una linea di classe e rivoluzionaria seppur in una fase di 'guerra di posizione' e di tattica politica flessibile (ma flessibilità non è assoluta spregiudicatezza) dunque all'interno delle caratteristiche 'nuove' del partito comunista, ma senza slegare la concezione della 'democrazia progressiva' dalla strategia per il socialismo:

"(:) la lotta politica concepita come combinazione di lotta parlamentare e di lotta extraparlamentare, di azione al vertice e di mobilitazione di base; lotte più decise, lotte più impegnative, un movimento di massa ininterrotto, un'azione più incisiva e più incalzante, la consapevolezza che il cedere a certe posizioni - dalla scissione tra la vita del partito e l'azione del governo nella fase della partecipazione al governo, dalla passività di fronte alla caduta del governo Parri a quella di fronte alla estromissione delle stesse sinistre dal governo - significasse perdere, e per sempre, una parte dei risultati conseguiti nello spostamento degli equilibri interni, non già nella conquista di una egemonia che Secchia non avrebbe mai vantato, prodotti dalla lotta armata e dalle lotte di massa negli anni della resistenza." [8]

  Infatti i pericoli dell'omologazione riformista per il PCI erano dietro l'angolo: ma rispondere in chiave ideologica, astrattamente ideologica, era per Secchia una mera perorazione insussistente; bisognava migliorare la qualità dei quadri, e lo studio, come è ricordato proprio in questi scritti e discorsi, è uno dei compiti prioritari del comunista. Ma il marxismo-leninismo è un'arma vitale e vincente solo se si gli si fa respirare l'aria dell'azione diretta, incisiva, tutt'uno con i bisogni e le rivendicazioni di potere della classe operaia, con le aspirazioni del proletariato e la necessità di renderlo egemone nel movimento di massa. Un partito di quadri e radicato nel popolo, un partito punto di riferimento essenziale della classe e di guida reale della classe: dunque la selezione dei gruppi dirigenti, oltre che dallo studio e dall'esigenza di alfabetizzazione politica, di formazione, molto oltre la stantìa categoria di pedagogia catechistica con la quale si cerca di connotarla, non può avvenire nelle appiccicose reti burocratiche e cooptative delle calde mura della propria sezione territoriale o della federazione, nella palude di una fase logorante di 'guerra di posizione' basata sull'attendismo, anticamera di tutti i carrierismi e opportunismi, ma deve avvenire nel fuoco della lotta di classe. Per questo, organizzazione e politica sono inseparabili, e più l'organizzazione è minuziosa e dettagliata, fino alla sua  vera e propria caratteristica previsionale e predittiva per la pianificazione dell'intervento politico, maggiore sarà il primato della politica, non in chiave di autonomia separata, ma in quella dell'arte del potere e, per un partito comunista alle prese con il sistema capitalistico e le mene reazionarie, dell'arte della conquista del potere politico (l' 'egemonia'  di Gramsci). Questa sfida dell'arte dell'organizzazione come interna tutt'intera all'arte politica, sarà la filosofia complessiva della relazione tenuta da Secchia a Firenze nel gennaio 1947 e il filo comune della sua riflessione (mai astratta, ma legata al concreto lavoro politico) nel 1948 e nel 1949.

Ed è bene che, riflettendo proprio su questi scritti e discorsi di Secchia, il concetto di 'organizzazione' si liberi della cappa di sociologismo che gli aleggia intorno, per assumere una valenza proponibile nell'ambito della teoria politica marxista e della prassi operativa dei comunisti. La storia del movimento operaio italiano ha proposto una 'organizzazione' liberata dagli schemi ideologici borghesi, solo per brevi periodi: tra questi, gli anni della ricostruzione post-bellica e una buona metà degli anni '50. Ciò, nonostante la profonda riflessione di Gramsci al riguardo (contro il sociologismo borghese e all'interno dei processi per l'egemonia), si ebbe non certo per la spinta al 'partito nuovo' e per la strategia della 'democrazia progressiva', che pure non fu solo la piega togliattiana al corso del Partito Comunista Italiano, ma anche per il tentativo di radicare il partito di classe nel popolo, farlo diventare di massa, senza perdere i connotati del partito di quadri, senza cioè che la quantità stemperasse o deprivasse o non facesse sviluppare la qualità.  Può dunque dirsi che la potente spinta a quel formidabile 'apparecchio' di riproduzione del consenso e formazione-alfabetizzazione-qualificazione che fu il PCI negli anni 1945/1954, partito nuovo togliattiano, gestito organizzativamente da Secchia, fu la Resistenza, che temprò nell'azione la teoria politica dei comunisti come avanguardia combattente e che entrò a far parte del 'bagaglio organizzativo'  di molti quadri, specie intermedi,  almeno fino a quando una linea politica diversa (la 'via italiana al socialismo'), sebbene in continuità in molti punti con la precedente, non fu però in contraddizione con gli aspetti più marcatamente conseguenti rivenienti dalla lotta partigiana e dalle scelte radicali degli anni della 'svolta', al tornante degli anni '30. Insomma, la lettura semplicistica e di comodo, nonchè francamente fuori di ogni criterio marxista e leninista di analisi, che l''organizzazione' di quegli anni fosse il frutto dello stalinismo del partito e dell'intero movimento operaio, ha fatto sì che ogni discorso sull' 'organizzazione'  (contro lo spontaneismo, ma anche contro la creatività, per la disciplina ottusa e cieca, contro l'autonomia, ecc..) convergesse nella diffidenza di chi concepisce l' 'organizzazione' come mera categoria astratta, al pari del sociologismo borghese. Per cui, ogni organizzazione politica di classe, diventa organismo divoratore delle volontà, per antonomasia, soggettive e libere. Ma il concetto di 'organizzazione' ha un suo spessore rilevantissimo nell'ambito del marxismo e gli scritti di Secchia permettono di rimeditare in maniera feconda l'esperienza del movimento operaio italiano al riguardo,  rendendo la  categoria attuale, utile alla pratica politica e all'iniziativa di classe.

In Italia, nella peculiare esperienza del PCI, se si rimane circoscritti alla connotazione 'nazionale' della strategia togliattiana (parliamo naturalmente del processo avviato con la 'svolta di Salerno', dal  ritorno di Togliatti in Italia da Mosca nel marzo 1944) si rischierà di trovare, come è stato fatto da fronti contrapposti, o il massimo dell'autonomia e l'affrancamento da ogni legame internazionalista effettivo nell'elaborazione della linea politica e nella direzione concreta del partito, o il massimo dell'eterodirezione, senza alcuna specificità nè nella teoria, nè nella pratica. Il togliattismo, noi crediamo, non è una categoria storica. Esiste, al contrario, l'elaborazione e l'esperienza effettiva dei comunisti italiani e, all'interno di questa, una differenziazione o una omogeneità. Sul tema dell'organizzazione di classe, sull'organizzazione dell'antagonismo e della conflittualità sociale, legata certo principalmente  allo strumento-partito, ma non in toto assimilabile ad esso, c'è la possibilità di utilizzare le categorie dell' 'officina gramsciana' e la pratica politica e la riflessione su di essa di Pietro Secchia: perchè, grande insegnamento proprio di Gramsci e Secchia, è che l'organizzazione è principalmente la programmazione dell'azione politica secondo obiettivi determinati che entrano nella strategia e connotano la tattica, nonchè la volontaria coesione (disciplina+consenso) 'di una parte che si fa tutto' e il coordinamento di questa coesione in base alla condivisione di principi, valori, mezzi e fini (vera sostanza e 'anima' del centralismo democratico). Anche questo può, e deve essere considerato, leninismo creativo, marxismo non dottrinario,  pulsante nella produzione di esperienze, quando non vittoriose, grandemente significative per il radicamento popolare dei comunisti. Marxismo e leninismo, dunque, come teoria e prassi dell'organizzazione della lotta di classe e delle forme di questa lotta nelle formazioni economico-sociali specifiche.

Il passaggio da massa, indistinta e priva di coscienza di classe, ad esercito politico organicamente predisposto,[9] massa popolare guidata dal partito di classe, richiede un prerequisito indiscutibile: elevare la capacità dei quadri (coscienza+organizzazione) per formare dirigenti capaci di incidere sulla quantità (organizzazione/direzione=egemonia). Il legame con le masse non stempera l'identità di classe dello strumento-partito se si afferma la doppia valenza che molti hanno individuato come pedagogica, ma che in effetti è formativa come tutti i mezzi che mirano all'emancipazione, individuale e collettiva: è la società, le classi che determinano i partiti, questi formano i quadri che elevano la formazione delle classi stesse; per un partito comunista ciò è essenziale, una traduzione del principio marxista della determinazione della coscienza da parte dell'  'essere sociale'.

E la qualità dei quadri non si misura dalla capacità astratta di perorare la causa idealmente intesa, ma dall'effettiva capacità di guidare le masse nell'azione politico-sociale, qualità dell'avanguardia, appunto, nel fuoco delle contraddizioni di classe e in direzione del socialismo.

Il nuovo tipo di intellettuale nasce da qui: 'organico' alla classe e all'organizzazione di classe, è dentro la classe come organizzatore della trasformazione qualitativa nella costruzione del processo rivoluzionario, per l'egemonia, dalla massa 'tumultuosa' all'esercito disciplinato coscientemente alla realizzazione dei fini-obiettivi: la congruità delle strategie si misura dalla realizzazione operativa di obiettivi immediati e intermedi, non dall'idea che se ne fa chi le stabilisce.

L' origine e l'articolazione di questa analisi, è certamente all'interno della tradizione terzinternazionalista, sebbene assolutamente fuori delle sue degenerazioni, che non sono le stesse, per intendersi, di quelle denunciate in modo strumentale e paradossale dalla cultura borghese. E' lo schema di riferimento e di lavoro organizzativo anche di Secchia, che cercherà, nelle maglie di una tattica e di una strategia politica (la 'linea') da lui condivisa ma non scelta (nella rottura/continuità tra il partito semiclandestino e clandestino al 'partito nuovo' della 'svolta di Salerno') di renderlo operativo fino agli anni della sua emarginazione politica dal partito sul pretesto del caso-Seniga (1954); dirigendo dunque uno dei settori più potenti e influenti nella tradizione dei comunisti non solo italiani. Secchia conosce poco l'elaborazione gramsciana (anche se proprio in quegli anni avrà modo di rifletterci sopra in progressione con la pubblicazione della criticabile edizione curata da Togliatti dei 'Quaderni dal carcere'), anche se si è formato ed è stato profondamente influenzato dai suoi scritti dell' Ordine Nuovo (nelle sue ricostruzioni storiche, infatti, come ad esempio nell'opera Le armi del fascismo, pubblicata da Feltrinelli nel 1971, abbondanti sono le citazioni del Gramsci ordinovista, quasi del tutto assenti quelle dei 'Quaderni'). L'esperienza pregressa di Secchia, nel 1945, è quella del combattente proletario e del dirigente nella Resistenza di matrice comunista;[10] se Engels aveva studiato appassionatamente l'arte militare (dunque un importante settore dell'arte dell'organizzazione), Secchia cerca di fare diretta esperienza di essa seguendo il motto di Luigi Longo, combattente nelle brigate internazionali di Spagna, che il moto si apprende camminando. Anche Secchia studia in carcere e al confino l'arte militare, ma per lui la lettura di alcuni classici in materia, ha la stessa influenza che per Gramsci la lettura del 'teorema delle proporzioni definite' di M.Pantaleoni: spunti di riflessione teorica, ma ciò che conta è la sperimentazione e verifica materiale, è la concreta prassi rivoluzionaria. Ed in lui così si fondono, mirabilmente, le lezioni di Engels, di Lenin e di Gramsci, proprio sulla concretissima arte dell'organizzazione. Più volte insiste sul concetto di 'adeguata attrezzatura' per il partito: e questa 'attrezzatura', deve essere pronta per ogni colpo dell'avversario, scontando l'esperienza che già il movimento operaio italiano aveva realizzato nel '19/'22, un'incapacità di fronteggiare la reazione della borghesia, legale e illegale, e che aveva portato al fascismo. La democrazia è il potere popolare, che si sostanzia di istituti non formalistici come nella tradizione del diritto  borghese, ma di istituzioni controllate e attraversate dal popolo, altrimenti le mene dei reazionari avranno prima o poi la meglio e tenderanno a svuotare le istituzioni stesse, a seconda dei loro interessi contingenti e della piega delle lotte sociali. E' una delle più acute lezioni leniniste, i due metodi della borghesia:

"In tutti i paesi capitalistici la borghesia si serve di due metodi di lotta contro il movimento operaio e i partiti operai. Il primo è quello della violenza, della persecuzione, del divieto, della repressione (..) Il secondo metodo di lotta impiegato dalla borghesia contro il movimento operaio consiste nel dividere i lavoratori, nel disorganizzare le loro file, nel corrompere singoli rappresentanti o singoli gruppi del proletariato per farli passare dalla parte della borghesia."[11]

Un partito comunista, pur in situazioni estremamente complesse, non deve rinunciare a legare la sua tattica politica a un respiro strategico che non può non avere inscritto la capacità della sua organizzazione di portare all'offensiva il movimento proletario e antagonista al sistema di sfruttamento capitalista, e quindi deve essere pronto a rintuzzare in ogni momento le forme palesi, ma sovente occulte, in cui si esprime la reazione delle classi dominanti minacciate nei loro atavici e parassitari privilegi:

"Un partito comunista, un partito rivoluzionario deve avere due organizzazioni, una larga, articolata, di massa, visibile a tutti, ed una ristretta, segreta. Questo anche in tempi della più ampia democrazia e legalità, poichè non si può mai fare affidamento sui piani del nemico. Noi vogliamo procedere per via pacifica avanzando verso il socialismo. Ma il nemico è d'accordo? Starà a vedere? Occorre prepararsi a qualsiasi eventualità e questo può farsi sia disponendo di un apparato propagandistico (orientamento dell'opinione pubblica) che organizzativo (rapporti con militari e ufficiali nostri e avversari) e di una adeguata attrezzatura per fare fronte a qualsiasi eventualità".[12]

L' 'adeguata attrezzatura' è innanzitutto un partito di autentici quadri rivoluzionari, premessa indispensabile per potersi radicare nel popolo e configurarsi come 'partito di massa': ma non, appunto, una qualsiasi formazione politica di massa - ciò è possibile ai partiti della borghesia, le idee dominanti sono quelle della classe dominante (Marx) - ma un partito comunista di massa, dunque di classe e rivoluzionario. La formazione dei quadri è vitale in un partito comunista: la selezione dei gruppi dirigenti, l'organizzazione, non può che avvenire nella lotta di classe e per la lotta di classe, attraverso la capacità di dirigere l'azione politica, aborrendo il burocratismo che deriva dall'inazione e dalla passività. Questo è il filo che lega le riflessioni e la concreta azione politica di Secchia in tutte le fasi della sua vicenda all'interno del Partito Comunista. Il fulcro di questa vicenda è costituito appunto dal biennio '47/'49. Sono gli anni in cui Secchia ha, come si usava dire un tempo, 'l'intero polso del partito', assurge a figura di primissimo piano (il numero 'tre' dopo Togliatti e Longo), 'controlla' l'apparato e l'applicazione della linea politica. Ma sono anche gli anni delle amare disillusioni rispetto agli ideali resistenziali, delle persecuzioni giudiziarie contro gli ex-partigiani, gli anni del rimodellamento dello Stato borghese post-fascista, formalmente democratico e costituzionalmente democratico, sostanzialmente autoritario e asservito agli interessi dell'imperialismo americano. In quel periodo si accende e si consuma un coraggioso tentativo: la costruzione di un partito radicato nel popolo che sarà presidio delle tante insidie antidemocratiche, ma che non riuscirà a porsi concretamente il problema della conquista del potere politico. Quando Secchia insiste in quegli anni per un' 'attrezzatura adeguata' del partito, lo fa per una duplice ragione: a) essere pronti in caso di ripresa delle mene fasciste e reazionarie (difesa); b) mantenere un quadro di partito rivoluzionario e di classe, che lo salvaguardi dai rischi dell'omologazione e dalle sabbie mobili del riformismo, che mantenga salda la strategia rispetto alla tattica, cioè l'edificazione del socialismo (controffensiva strategica-offensiva). Secchia accetta la svolta di Salerno togliattiana del marzo '44  (insieme a Luigi Longo e alla direzione milanese del PCI, contrariamente, all'inizio e per breve tempo, alla direzione romana capeggiata da Scoccimarro) perchè in quel momento rispondeva maggiormente alla fase della 'guerra di movimento': battere il nemico fascista ad ogni costo, azione politico-militare unitaria, ecc.., non perdersi in bizantinismi ideologici che avrebbero costituito freno all'azione decisa contro il nemico. Ma non rinunciò mai a interpretare i capisaldi di quella linea politica, il 'partito nuovo' e la 'democrazia progressiva', in senso classista e rivoluzionario: quella linea politica deve e può trovare attuazione in senso radicalmente antagonista e leninista proprio e solo tramite l'organizzazione del partito; la verifica di una linea politica è nella lotta di classe, la verifica, per un partito comunista, è nell'organizzazione della lotta di classe. Ecco perchè Secchia, ancora nel 1972, crederà fermamente nella necessità assoluta di un' 'adeguata attrezzatura', rivendicando, in sostanza, la stessa coerente filosofia con cui aveva cercato di guidare il PCI dopo la Resistenza. 'Partito nuovo': e certo il partito cospirativo e dei piccoli gruppi a compartimenti stagno, non poteva più rispondere alla sfida della 'guerra di posizione', alla via istituzionale come passaggio cruciale e necessario dell'azione politica, alla esigenza di legare a sè le grandi masse lavoratrici e dirigerle, con l'egemonia della classe operaia, verso il traguardo della propria assoluta autodeterminazione socialista, definitivamente fuori dal sistema dello sfruttamento capitalista. Ma ciò era possibile, allora, proprio perchè si veniva da una 'guerra di movimento', dove la selezione dei quadri era avvenuta impietosamente nella capacità d'azione contro il nemico nazi-fascista, un patrimonio prezioso, indispensabile e insostituibile per costruire il radicamento di massa. In questo senso, 'partito nuovo' era la continuità con la Resistenza, in una fase storica nuova, non certo il suo accantonamento. E democrazia 'progressiva', era soprattutto la convinzione che non più attraverso la rottura rivoluzionaria, l'ora x che sarebbe dovuta scoccare per la riscossa del proletariato, ma con la costruzione di un processo rivoluzionario, con la spinta ai movimenti di massa, si sarebbero potute ricostituire le basi per l'edificazione del socialismo nel nostro paese. Il partito comunista di massa, allora, era il partito radicato nel popolo, il partito della lotta di classe, che poteva assumere un profilo quantitativo straordinariamente consistente senza perdere la sua identità e la sua ragion d'essere per la qualità dei suoi quadri rivoluzionari. Azione politica, studio e lotta di classe, organizzazione: il gramsciano 'blocco storico' doveva essere antagonista e di massa, opporre all' 'apparecchio' delle classi dominanti dello Stato borghese, che aveva però dovuto cedere terreno sul piano della stesura della Carta costituzionale proprio in virtù del grande ruolo assunto dal PCI nella lotta antifascista,  un 'apparecchio' potente e articolato, forte nelle minute pieghe della società subalterna, capace di una lotta a tutto campo, difensiva e offensiva, e in cui ogni tattica doveva divenire 'opportuna', non opportunistica, legata alla strategia e alla prospettiva socialista. Prospettiva che la classe operaia, il proletariato, il popolo, guidato dal partito, costruisce con le proprie mani, non attendendo messianicamente l'intervento, prima o poi, della 'patria socialista'. Nemico acerrimo dell'attendismo nella fase più acuta della guerra di liberazione antifascista dalle colonne de La nostra lotta', il giornale comunista più letto e seguito dai partigiani comunisti nel '43/'45, Secchia lo sarà con altrettanto vigore nella fase post-bellica. Proprio il dirigente accusato, ancora oggi, a distanza di cinquant'anni, di preparare i famosi piani K per permettere ai cavalli moscoviti di abbeverarsi alle fontane di S.Pietro (mentre la borghesia reazionaria preparava ben più corposi piani di eversione antidemocratica e anticostituzionale!), spronava senza risparmiarsi in energie a prendere l'iniziativa, a non aspettare le direttive dall'alto, ad una vitalità che facesse riconoscere alle masse la qualità del militante e del quadro comunista, a farlo riconoscere come reale avanguardia della lotta di classe, in quanto interprete e rappresentante dei bisogni delle classi lavoratrici e del popolo. Ciò che era stato  La nostra lotta' negli anni precedenti,  diventò Il Quaderno dell'attivista' nel dopoguerra,  pubblicato regolarmente per oltre dieci anni dal settembre 1946 al febbraio 1958, e nelle cui pagine è ben spiegata la filosofia dell'organizzazione di Secchia e, a nostro avviso, dell'intera leva di resistenti e quadri comunisti della lotta partigiana alle prese con il 'partito nuovo' di impronta togliattiana.[13]

Sfogliando l'annata 1954 de  Il Quaderno dell'attivista, troviamo l'impegno di Secchia a ribadire la sua filosofia dell'organizzazione, ormai per Togliatti in odore di eresia, per lo svolgimento dei congressi provinciali e la preparazione della IV Conferenza organizzativa di partito, che si terrà a Roma dal 9 a 14 gennaio 1955, dunque dopo il fatidico 25 luglio 1954 (fuga di Seniga, segretario e più stretto collaboratore di Secchia e successivo 'processo interno' ed 'epurazione' del dirigente comunista biellese). Nel n.7 del 1 aprile 1954, 'Il Quaderno' dà conto di alcuni significativi passaggi del discorso di Secchia al Congresso provinciale di Savona, tenutosi il 14 marzo di quell'anno, e in cui si ribadisce la necessità di legare l'azione politica incisiva, la lotta di classe, l'organizzazione di questa lotta, alla prospettiva strategica ineludibile per un comunista, il socialismo, senza cedere nulla all'opportunismo tatticista che era pericolo costante, questo Secchia lo sapeva bene, della politica togliattiana, nè all'attendismo e all'inazione tipici della 'sindrome della sconfitta':

"Non dobbiamo creare nessuna illusione, dobbiamo dire chiaramente ai lavoratori, agli operai, agli impiegati, ai contadini, ai lavoratori di ogni categoria che le cause fondamentali di tutti i nostri mali e delle nostre miserie saranno eliminate soltanto quando sarà eliminata la società capitalista. Ragione per cui è necessario che noi ci preoccupiamo non soltanto di guadagnare i lavoratori alle lotte immediate, ma di conquistarli all'ideale socialista, di persuaderli a lavorare e a lottare per obiettivi più avanzati. (..) Nessuno più di noi si rende conto che difficili sono le lotte e che esse costringono i lavoratori a duri sacrifici. Sappiamo anche che vi sono delle lotte che sono costate dolori, lacrime e sacrifici e che non hanno dato quei risultati immediati che noi avremmo desiderato, che i lavoratori si attendevano; ma non per questo dobbiamo lasciarci vincere dallo scoraggiamento e dall'apatia. (..) Dobbiamo studiare e scoprire nuove forme di azione e queste nuove forme si trovano con l'attività e con la lotta stessa. Nessuna nuova forma di lotta può essere trovata senza la discussione, senza il dibattito, senza lo scambio di esperienze. (..) Dobbiamo studiare di più. Ogni comunista deve far lavorare il suo cervello, deve tener conto di ogni esperienza di lotta, deve sforzarsi per assimilare e fare assimilare i princìpi e i metodi d'azione del marxismo e del leninismo. Quando noi parliamo di critica e autocritica noi non chiediamo delle vane lamentele sulle deficienze e sugli errori, ma chiediamo uno sforzo, un contributo da parte di tutti i compagni per scoprire le nostre debolezze, le nostre deficienze, le cause dei nostri errori, noi chiediamo un contributo di studio e di esperienza per impostare meglio, preparare e condurre con successo le lotte."[14]

   Erano passati solo sette anni dalla Conferenza d'organizzazione di Firenze del gennaio 1947, in cui Secchia aveva riproposto con forza e convinzione e con esiti indiscussi la sua filosofia dell'organizzazione, eppure non solo quella filosofia era stata già emarginata, ma l'interpretazione di una  linea politica in senso classista e modernamente rivoluzionario che la supportava.

Gli scritti e i discorsi di Secchia negli anni '47/'49 che qui presentiamo, dovrebbero essere, oggi, nutrimento vitale per ogni comunista impegnato concretamente nella lotta di classe e nell'organizzazione materiale di questa lotta: la costruzione del partito comunista di massa passa per la costruzione di un movimento di lotta sociale di massa; ma per costruire un movimento di lotta sociale di massa, il partito comunista deve formare i quadri d'avanguardia che siano in grado di promuovere e dirigere la lotta di classe.

Se  dunque un partito comunista non cura l'aspetto della formazione degli stessi militanti, se non mira al rafforzamento della memoria storica che lo ha generato e può farlo sviluppare nel futuro prossimo, se non si rende lo strumento-partito anche una delle agenzie di formazione (delle giovani generazioni, soprattutto) che, in modo aggregante e nella forma del laboratorio di ricerca continua (intellettuale collettivo in senso gramsciano, concetto che rimanda alla potenza dell'ideologia come materialità)  sia fonte preziosa ed inesauribile di sviluppo dello spirito critico nei confronti di tutte le agenzie di formazione falsamente pluralistiche della società in cui dominano gli oligopoli mass-mediologici pubblici e privati,  e conseguentemente  sviluppi   anticorpi che non isolino i comunisti dalla società, anzi,  li faccia entrare in sintonia con le condizioni materiali di vita quotidiana di larghe, larghissime masse popolari, ebbene, il rischio è quello di perdere le sfide e il cimento aspro cui sottopone continuamente il nostro tempo storico.  I risultati possono essere, alla lunga e per questa cronica latitanza, devastanti  per la formazione, necessaria,  di quadri preparati, perchè capaci e temprati alla lotta. Dunque il 'partito di massa' diventerebbe testimoniale perchè opportunistico e carrieristico e 'le masse' diverrebbero solo il paravento della diluizione dei principi nel riformismo ( 'debole' o 'forte', non ha qui importanza alcuna, visto il riconoscimento unanime, almeno formalmente, della fine dei margini riformistici tipici delle fasi keynesiane).  Il carrierismo/opportunismo, proprio perchè tale, è capace di adattarsi a tutte le linee politiche, ma con un unico risultato: l'inazione, l'inattività, la passività, l'ingabbiamento sterile delle energie, l'autoreferenzialità, secondo il lessico in uso. Non tutte le linee politiche sono uguali, è ovvio: ma per la loro verifica, non bastano certo i proclami e le categoriche asserzioni del ceto politico che le esprime.

Il settore della formazione-quadri  deve essere il terreno privilegiato, insieme all'infaticabile necessità di essere dentro le lotte e riconoscibili socialmente - in quanto riconosciuti dalle masse, dell'impegno dei comunisti (coerentemente e nell'azione) marxisti e leninisti.  Secchia così concepì la politica del 'partito nuovo', preoccupandosi in prima persona (sotto la spinta decisiva, bisogna ribadirlo, di molti dei  dirigenti della generazione dei 'resistenti', che si erano formati alla scuola della 'guerra di movimento', tra carcere, confino, cospirazione e lotta armata) di dare vita alle scuole di partito, agli istituti di ricerca e documentazione, al proliferare di riviste dirette dal partito o legate indirettamente ad esso (si pensi al ruolo che giocarono nel dopoguerra e per tutti gli anni '50, periodici di massa quali Vie nuove e Il Calendario del Popolo'). Perchè le trincee e le 'casematte' della 'guerra di posizione' non diventino lo stagno paludoso dell'attendismo e del codismo, sede dell'infiltrazione più subdola dei valori della borghesia, l'opportunismo e il carrierismo, che, accompagnati da una spregiudicata linea politica in cui scompare o si annebbia la prospettiva strategica, possono decretare l'omologazione al sistema capitalista, cioè l'antitesi di ogni organizzazione che lavori per il comunismo.

Un partito comunista, che ha dietro di sè la gloria e i drammi, l'eroismo e le tragedie del XX secolo e si volge a prospettarsi nel difficile compito di costruire una società di liberi ed uguali per il secolo che ci sta davanti, non può rinunciare a costituire se stesso come partito e organizzazione rivoluzionaria e di classe, seppur modernamente rivoluzionaria e di classe, proprio per 'costruire' e non solo per 'resistere'.  Ogni resistenza, se è buona resistenza, come lo è stata la lotta di liberazione nazionale dei partigiani contro il nazifascismo, ha insita in sè non solo la difesa strategica, ma la controffensiva e l'offensiva strategica. Altrimenti, ogni radicalismo è destinato a stemperarsi nel vacuo inseguimento di ciò che la contingenza ci presenta come storico ed è al contrario effimero e caduco.

 

Ferdinando Dubla

ottobre 1996

NOTE
[1] Cfr. P.Togliatti: Pietro Secchia, in La Vie Proletarienne n.61, 21 giugno 1931, f.to Ercoli, sta in Opere, vol.III(1) -1929/1935 - Roma, 1973, pp.359/60.

 

[2] Cfr. M.Mafai: L'uomo che sognava la lotta armata - La storia di Pietro Secchia -, Milano, 1984, pp.40/41. La Mafai poi si lascia andare a considerazioni discutibili come questa: "Ordine, disciplina, spirito pratico, tenacia: all'organizzatore si richiede non solo grande capacità di lavoro e spirito di sacrificio, ma anche e soprattutto rinuncia allo spirito critico, la disponibilità ad accettare e trasmettere moduli molto semplici, quasi catechistici di interpretazione della realtà". Ma come mai poi conclude affermando che "Solo i migliori dunque diventano, a livello provinciale, i 'responsabili dell'organizzazione'",? Ivi, pp.41/42. Possibile che i migliori potessero venir fuori da assenza di 'spirito critico' e fideismo ottuso?

 

[3] Due linee politiche? Contrapposizione Secchia-Togliatti? Secchia al contrario interprete disciplinato del togliattismo e incapace di una rottura e di dar voce ad un'alternativa reale dentro il partito comunista? Su questa annosa 'querelle' nell'ambito della storia del PCI abbiamo cercato di dare un contributo, cfr. Ferdinando Dubla: A sinistra di Togliatti: Pietro Secchia, pubblicato da Il Calendario del popolo n. 584, dicembre 1994, pp.36/43, cercando di rilevare la posizione di Secchia come interprete di una linea di classe e coerentemente leninista e rivoluzionaria, pur all'interno dei binari imposti dal togliattismo, dunque affatto estremista e/o avventurista. Lo stesso Collotti,  curatore dell'Archivio Secchia per l'Istituto G.G.Feltrinelli, al riguardo ha scritto: "(::) lo stesso lavoro di organizzazione di Secchia va inquadrato in una prospettiva politica e in una prospettiva che in quel momento non era quella di Secchia o di Togliatti ma quella del partito con le accentuazioni che, a seconda del momento politico, potevano essere impresse da Secchia piuttosto che da Togliatti.", cfr. Introduzione all'Archivio Secchia, Annali Feltrinelli, a.XIX, Milano,1978, pag. 98.

 

[4] Cfr. R.Martinelli: Storia del Partito Comunista Italiano - Il 'partito nuovo' dalla Liberazione al 18 aprile, Einaudi, 1995, pp.100/101.

 

[5] Cfr. A. Donini: Sull'Archivio Secchia, intervista a cura di Gianni Corbi, L'Espresso, 19 febbraio 1978.

 

[6] Cfr. Leo Valiani: Una testimonianza sul caso Secchia e sul lungo dissenso con Togliatti, in Il Corriere della Sera, 19 febbraio 1978.

 

[7] In sostanza in quel memorandum, secondo Donini: "Secchia faceva presente a Stalin e al gruppo dirigente del PCUS le sue gravi preoccupazioni per la conduzione politica del PCI. Secondo Secchia, Togliatti si faceva troppe illusioni sulla possibilità di una collaborazione di lunga durata con la Democrazia cristiana. Rimprovera Togliatti di essere stato colto di sorpresa dal 'colpo di Stato' di De Gasperi che estromise i comunisti e i socialisti dal governo. Avverte i sovietici che Togliatti si mostrava troppo incline ai compromessi pur di difendere la sua posizione di leader del partito.", cit., pag.25.

 

[8] E.Collotti, cit., pag.100, dove si  parla di 'rettifica di linea' rispetto all'impostazione togliattiana, che a noi pare qualcosa di più, una vera e propria 'sinistra' della linea nell'azione politica coerente alla prassi comunista di ogni epoca, la lotta per la conquista del potere politico da parte del proletariato, la lotta per il socialismo. Ancora Leo Valiani, pochi giorni dopo la morte di Secchia, scriveva: "Secchia amava, come tutti i comunisti, e molti socialisti della sua generazione, la rivoluzione sovietica, ma nell'Urss non soggiornò mai per più di qualche settimana. Egli concepiva bensì la rivoluzione, che sperava avrebbe tenuto dietro, in Italia, alla fine della reazione fascista, come parte integrante della rivoluzione proletaria internazionale, nella cui crescita credeva, ma era convinto, da ben prima di qualsiasi formulazione di vie nazionali al socialismo, che la rivoluzione doveva essere opera di forze sociali e politiche interne, della loro determinazione, della loro fermezza, della loro audacia. Il suo leninismo era sostanzialmente qui, nella consapevolezza che la rivoluzione non sarebbe scaturita spontaneamente dal fatale divenire delle cose, nè sarebbe stata importata dall'esterno.", in Che cos'è un rivoluzionario, Corriere della Sera, 15 luglio 1973, esempio di un estremo rigore interpretativo filologico dovuto in gran parte alla personale, approfondita conoscenza di Valiani con Secchia e, pur da sponde molto diverse, di una stima non esteriore e formale.

 

[9] L'espressione è in  A.Gramsci: Quaderni dal carcere (Q.3), ed.critica dell'Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, vol.I, Einaudi, 1975, pp.326/27.

 

[10] Su questi temi, riferiti all'operato di Secchia negli anni '43/'45, mi si permetta di rimandare a Ferdinando Dubla: Il combattente proletario - Dalla parte dell'antifascismo 'cattivo', in Questioni del socialismo n.7, settembre 1995, pp.131/141 e Id.: La Resistenza accusa ancora, in Il Lavoratore/oltre, 28 aprile 1995, pag.8.

 

[11] Cfr. V.I.Lenin: I metodi degli intellettuali borghesi nella lotta contro gli operai (1914), in Opere scelte, Progress, Mosca, 1973, pag. 277.  E nel 1910 Lenin aveva sottolineato che "le oscillazioni nella tattica della borghesia, il passaggio dal sistema della violenza a un sistema di pseudoconcessioni, sono, quindi, propri della storia di tutti i paesi; ed i diversi paesi applicano di preferenza l'uno o l'altro metodo durante determinati periodi.", in I dissensi nel movimento operaio europeo, ivi, pag.90.

[12] Cfr. AS (Archivio Secchia), 'Diari', quaderno n. 11, 1971, op.cit., pag. 587. E' questa concezione secchiana che, a distanza di anni, incute ancora terrore nei reazionari e nei corifei della destra, come può evincersi da un recente fondo del Giornale diretto da Vittorio Feltri, a firma di Mario Cervi: "Abbiamo visto in passato con quale controllo dei nervi la magistratura se ne stesse quieta mentre Pietro Secchia - altro che Speroni o Maroni o Corinto Marchesi - teneva a bagnomaria una struttura militare del PCI, pronta ad entrare in azione se l'emergenza l'avesse richiesto.", cfr. La Digos ha fatto un piacere a Bossi, cit., n. del 20 settembre 1996. A quale struttura militare si riferisce Cervi? Mistero. Se si riferisce alla Volante Rossa, uno studio come quello pubblicato da Guerriero e Rondinelli, La Volante Rossa, Roma, 1996, dovrebbe schiarirgli le idee. A meno che non si voglia arruolare Secchia nella 'Gladio' e nei piani eversivi anticomunisti che, con la promozione e copertura di settori dello Stato, intanto, in quegli stessi anni, articolavano i loro intenti criminosi e anticostituzionali.

[13] Cfr. Il 'Quaderno dell'attivista' - Ideologia, organizzazione, propaganda, nel PCI degli anni '50, (a cura di Marcello Flores), Mazzotta, 1976. "Diretto ai militanti di base e ai quadri intermedi dell'organizzazione, - è scritto nella quarta di copertina - questo periodico intendeva essere uno tra gli strumenti creati per favorire la crescita e il rafforzamento del 'partito nuovo'. Rivolto inizialmente a orientare il lavoro di reclutamento con un'impostazione prevalentemente ideologica-propagandistica, con gli anni il 'Quaderno dell'attivista' diventa sempre più specchio fedele del partito: della sua linea politica ma anche, e soprattutto, della sua struttura organizzativa, della sua funzione politica di avanguardia, delle sue scelte di lotta. La scelta dei testi cerca di offrire l'orizzonte il più ampio possibile degli argomenti, dei problemi, degli avvenimenti legati alla lotta di classe negli anni Cinquanta e del modo in cui essi venivano recepiti e riproposti dagli uomini che dirigevano l'organizzazione e la propaganda. La presenza politica nel paese, il radicamento nella classe operaia e nella società, la lotta contro l'offensiva padronale e il potere democristiano, i dibattiti interni sull'organizzazione e le lotte degli operai e dei contadini, i mutamenti tattici, la contraddittoria elaborazione strategica, le scelte organizzative di partito, emergono dalle pagine del 'Quaderno dell'attivista' come una testimonianza diretta e insostituibile per la comprensione storica della 'questione comunista'".

 

[14] Ivi, pp. 163/166.


"I nostri storici devono essere coscienti della grande responsabilità del loro lavoro; essi non sono solo degli studiosi, essi sono in primo luogo dei combattenti della classe operaia, dei marxisti-leninisti militanti i quali, scrivendo la storia, assolvono una funzione importante di partito. Lo storico marxista deve ricercare la verità, distruggere le false concezioni, far risaltare la superiorità del materialismo storico quale strumento di orientamento e guida per l'azione"

Arturo Colombi, 1954

 

Richiedi il  testo completo al Centro Studi e Documentazione marxista

Scrivi all'autore