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"Perché verrà messo tutto in cantina e addirittura bruciato,
comunque sepolto, in modo che di me si
perderà anche la memoria.
Non crediate che di Pietro Secchia
non si parlerà mai più in un prossimo
avvenire"
Pietro Secchia, lettera al figlio Vladimiro, 1973
Fu conseguenza delle capacità politico-organizzative
dimostrate durante gli anni della Resistenza, ma anche prima del suo
arresto avvenuto il 3 aprile 1931 mentre preparava, sfidando le
maglie repressive del regime fascista, il IV Congresso del PCd'I che
si doveva tenere a Colonia (e che si tenne senza la sua presenza 'attiva',
ma sotto la sua egida), che Pietro Secchia ricevette anche
formalmente l'incarico di dirigere il settore 'organizzazione' del
partito, subito dopo il V Congresso del PCI, tenutosi presso
l'Università di Roma tra il 29 dicembre del 1945 e il 6 gennaio
1946 (si racconta che i congressisti e i delegati salutassero l'anno
nuovo riuniti nelle commissioni). E che questo ruolo si attagliasse
perfettamente alla sua personalità politica, per i meriti
indiscussi che si era conquistato (già prima di diventare, dopo la
sua liberazione dal confino di Ventotene nell'agosto del 1943
commissario generale delle brigate 'Garibaldi' incorporate nel
C.V.L., di cui Luigi Longo era vice-comandante) lo testimoniano le
parole accorate che Palmiro Togliatti scrisse per La
Vie Proletarienne nel giugno 1931:
"La perdita di Secchia
(riferita al suo arresto, ndr) colpisce in pari tempo
la 'vecchia guardia' e la nuova generazione. Nel compagno Secchia
infatti, meglio che in qualsiasi altro elemento dei nostri quadri,
si era realizzato il contatto, la unità di due diversi strati di
militanti e dirigenti del partito. (:) tra i giovani, egli è uno di
quelli che più rapidamente hanno acquistato capacità di direzione,
cioè qualità di slancio, doti di entusiasmo e di ottimismo,
freddezza di giudizio ed equilibrio."
Doti che Secchia mantenne in seguito anche a dispetto delle
alterne vicende che lo videro ora osannato, amato, temuto tra i
militanti comunisti e il gruppo dirigente, ora allontanato da
incarichi rilevanti e progressivamente emarginato
con cinica superbia, violenza morale ed opportunismo, da una
parte di quella stessa leadership del PCI che lo aveva visto
ascendere fino al ruolo di vice-segretario. E con quelle doti egli
si apprestò a dirigere l'organizzazione del partito, ma non solo
doti 'organizzativistiche': per lui, la struttura organizzativa
discendeva direttamente dall'arte politica e dunque dalla linea
del partito, così come durante la Resistenza antifascista, nella
'guerra di movimento', l'arte militare si situava all'interno del primato
della politica. Ma è indubbio che lo specifico contributo di
Secchia, nell'ambito della tradizione comunista e della riflessione
marxista-leninista, va ricercato nella sua complessiva filosofia
dell'organizzazione:
"Alla fine del 1945, quando si
celebra a Roma il V Congresso del Pci, gli iscritti al partito sono
già più che triplicati rispetto all'aprile. Sono 1.800.000,
organizzati in 7.000 sezioni e 30.000 cellule; al VI Congresso nel
1948, gli iscritti sono 2.250.000 e le cellule sono diventate
50.000. Se nessuno, e tanto meno Secchia, avrebbe mai pensato di
attribuirsi tutto il merito di questa crescita, è pur vero che in
massima parte proprio a lui, ai suoi metodi e al suo stile di lavoro
- e alla capacità di trasmettere questo stile a centinaia e
migliaia di quadri - va ascritto quel successo. (:) Il mito
dell'organizzazione, di una macchina funzionante perfettamente a
tutti i livelli, che non lascia nulla all'improvvisazione o al caso,
si diffonde rapidamente nel partito."
L'organizzazione come concetto 'non ristretto', ma legato
intimamente al primato della politica e alla prassi leninista e
concreta dell'azione, sarà ribadito, dal dirigente comunista di
origini piemontesi, in
specie negli scritti che qui presentiamo successivamente al '47 e
cioè nel suo discorso al VI Congresso del gennaio del 1948 e
nell'articolo per Rinascita del
dicembre 1949. Il periodo che va dal gennaio 1947 (la III Conferenza
d'organizzazione di Firenze) a tutto il 1949, può essere
considerato, a ragione, come il periodo in cui Secchia dispiega il
massimo del suo impegno di militante e dirigente comunista nelle
fila del PCI guidato da Palmiro Togliatti. E non solo perché,
proprio dopo il VI Congresso, nel febbraio del '48, assurgerà alla
carica di vice-segretario con Luigi Longo, ma per il fatto
fondamentale che avrà modo, operativamente, di dare gambe alla sua
concezione di partito comunista radicato
nel popolo, di massa,
facendone rimanere inalterate l'identità di partito
di quadri che si era conquistato nella Resistenza antifascista e
dunque con le qualità tipiche di un partito d'avanguardie,
leninisticamente inteso. Se la nuova fase politica aperta da
Togliatti con la 'svolta di Salerno' (1944), rendeva il partito
cospirativo e di piccoli gruppi con scarso raccordo tra di loro,
insufficiente per la 'guerra di posizione', era anche vero che la
quantità rilevante di iscritti, che portò il PCI dai 501.960
aderenti del 1944, ai 2.252.446 del '47 (massimo storico dell'intera
vita politica del Partito comunista fondato a Livorno nel 1921),
poneva il problema di non stemperarne la 'qualità', la funzione
d'avanguardia, di valorizzare al massimo l'esperienza acquisita da
centinaia e centinaia di quadri nel corso della guerra di
liberazione antifascista; di 'vaccinarlo', insomma,
dall'omologazione istituzionalista e governativistica, in virtù
anche del difficile crinale politico che intersecava la linea
togliattiana del 'partito nuovo' e della 'democrazia progressiva'
con la partecipazione dei comunisti ai governi di unità nazionale
insieme alle forze moderate e conservatrici (fino all'aprile 1947) e
con i lavori coevi dell'Assemblea Costituente dopo le elezioni del 2
giugno 1946. Secchia non è nè fuori della linea togliattiana nè
fuori della specifica fase storica che attraversava il nostro paese,
ma aveva connotati suoi propri sia di interpretazione della linea
politica sia dell' analisi di fase; e ciò permarrà come carattere
distintivo di tutto il suo lavoro politico in simbiosi dialettica
con Togliatti fino al 1954.
E simbiosi dialettica non significa nè adeguamento passivo e
opportunista, nè negazione della linea politica. Contro i pericoli
della via istituzionale come prioritaria a quella
dell'organizzazione del conflitto di classe nella società, che era
il punto che maggiormente lo distingueva da Togliatti, Secchia aveva
avvertito già nel corso del 1946, nella direzione del 20/22 giugno
successiva al referendum e alle elezioni per l'Assemblea
Costituente; "l'intervento
di Secchia appare assai importante e significativo"
- ha scritto recentemente R.Martinelli -
"prendendo la forma di
una valutazione complessiva di tutta la situazione del partito (:) e
in esso appare una trasparente polemica contro Togliatti, espressa
dal rifiuto di attribuire gli insuccessi registrati in varie località
unicamente alle deficienze di linea politica e al lavoro
insufficiente dei dirigenti. (:) Pur non mettendo in discussione la
linea politica, Secchia afferma che questa non è stata compresa e
assimilata in modo largo ed effettivo. Di qui prende le mosse
un'esposizione di grande incisività, nella quale si bilanciano
osservazioni diverse, in parte contraddittorie e divergenti: nelle
parole di Secchia (:) si riflette e si esprime in effetti tutta la
straordinaria complessità di una fase politica nella quale
l'elemento della combattività e dell'offensiva politica deve
coniugarsi con una grande responsabilità sociale, la propaganda per
l'URSS con l'adesione alla realtà nazionale, ecc.. Egli propone
infine un insieme di misure (scuole di partito, epurazione,
spostamenti di quadri, ecc.) di carattere organizzativo. Il discorso
di Secchia trae la sua importanza dal fatto che egli mette il dito
sulla piaga, dando voce ad un risentimento assai diffuso e
caratterizzandosi in termini diversi e lontani dall'impostazione
togliattiana: non a caso non parla mai del governo."
Questa specifica caratterizzazione di Secchia, interpretazione
di classe e rivoluzionaria della linea togliattiana e
progressiva differenziazione
da essa, data, a nostro modo di vedere, dal giorno successivo alla
Liberazione del 25 aprile 1945, per le profonde diversità di
profilo politico tra le due personalità comuniste; come, d'altra
parte, testimoniano a più riprese due dei maggiori curatori
dell'Archivio Secchia presso l'Istituto G.G.Feltrinelli, Ambrogio
Donini e Leo Valiani. Il primo dichiara, in polemica con le
ricostruzioni troppo unilaterali di Giorgio Amendola (cfr. per tutte
il libro - intervista a cura di Renato Nicolai Il
rinnovamento del PCI, Editori Riuniti, 1978, che si occupa a
lungo della figura di Secchia e data la polemica con Togliatti al
1953, causa la 'destalinizzazione' che sfocerà nel XX Congresso del
PCUS) che "Il dissenso
tra Secchia e Togliatti è molto più antico, non riguarda i metodi
organizzativi o il 'settarismo' di Secchia come tenta di far credere
Amendola, ma piuttosto un grave contrasto di linea politica. (..) E'
certo che Secchia condivise la svolta di Salerno, ma cominciò a
dubitare fortemente della linea togliattiana a partire dal
1946."
Valiani, l'azionista che condivise con Secchia la reclusione nei
penitenziari di Lucca e Civitavecchia dal febbraio 1932 fino al
1936, è ancora più radicale e scrive che "Il
contrasto nacque così nel '45. Secchia non era del tutto convinto
dell'utilità della collaborazione a lungo termine con la democrazia
cristiana, che formava il cardine della linea di Togliatti. Secchia
avrebbe voluto che il partito comunista difendesse più
risolutamente il governo Parri e, in generale, le conquiste
dell'insurrezione partigiana."
Dunque nessuna meraviglia che Secchia presenti nel dicembre
del 1947 ai sovietici, a Stalin, un memorandum che è un vero e
proprio consuntivo della linea togliattiana e dei suoi esiti
insoddisfacenti, rimarcando una sempre più netta distinzione che,
nellle forme e nei modi del tempo, egli confermerà nella sua
relazione al VI Congresso del PCI nel gennaio 1948: per questo qui
premettiamo a quella relazione, stralci significativi di quel
memorandum, che è il filo conduttore dell'analisi secchiana, tra la
Conferenza d'organizzazione di Firenze e, appunto, il VI Congresso.
Lo scritto fu presentato non per fedeltà filosovietica e
staliniana, dunque (quanto a questo, Togliatti e Secchia erano due
diversi tipi di stalinisti, come si vedrà a proposito dell'articolo
su Rinascita del dicembre del 1949) ma per limpida coerenza di princìpi,
di concezioni e di analisi politiche. Una coerenza che portava
Secchia ad una linea di classe e rivoluzionaria seppur in una fase
di 'guerra di posizione' e di tattica politica flessibile (ma
flessibilità non è assoluta spregiudicatezza) dunque all'interno
delle caratteristiche 'nuove' del partito comunista, ma senza
slegare la concezione della 'democrazia progressiva' dalla strategia
per il socialismo:
"(:) la lotta politica concepita
come combinazione di lotta parlamentare e di lotta
extraparlamentare, di azione al vertice e di mobilitazione di base;
lotte più decise, lotte più impegnative, un movimento di massa
ininterrotto, un'azione più incisiva e più incalzante, la
consapevolezza che il cedere a certe posizioni - dalla scissione tra
la vita del partito e l'azione del governo nella fase della
partecipazione al governo, dalla passività di fronte alla caduta
del governo Parri a quella di fronte alla estromissione delle stesse
sinistre dal governo - significasse perdere, e per sempre, una parte
dei risultati conseguiti nello spostamento degli equilibri interni,
non già nella conquista di una egemonia che Secchia non avrebbe mai
vantato, prodotti dalla lotta armata e dalle lotte di massa negli
anni della resistenza."
Infatti i pericoli dell'omologazione riformista per il PCI erano
dietro l'angolo: ma rispondere in chiave ideologica, astrattamente
ideologica, era per Secchia una mera perorazione insussistente;
bisognava migliorare la qualità dei quadri, e lo studio, come è
ricordato proprio in questi scritti e discorsi, è uno dei compiti
prioritari del comunista. Ma il marxismo-leninismo è un'arma vitale
e vincente solo se si gli si fa respirare l'aria dell'azione
diretta, incisiva, tutt'uno con i bisogni e le rivendicazioni di
potere della classe operaia, con le aspirazioni del proletariato e
la necessità di renderlo egemone nel movimento di massa. Un partito
di quadri e radicato nel popolo, un partito punto di riferimento
essenziale della classe e di guida reale della classe: dunque la
selezione dei gruppi dirigenti, oltre che dallo studio e
dall'esigenza di alfabetizzazione politica, di formazione,
molto oltre la stantìa categoria di pedagogia catechistica con la
quale si cerca di connotarla, non può avvenire nelle appiccicose
reti burocratiche e cooptative delle calde mura della propria
sezione territoriale o della federazione, nella palude di una fase
logorante di 'guerra di posizione' basata sull'attendismo,
anticamera di tutti i carrierismi e opportunismi, ma deve avvenire
nel fuoco della lotta di classe. Per questo, organizzazione e
politica sono inseparabili, e più l'organizzazione è minuziosa e
dettagliata, fino alla sua vera
e propria caratteristica previsionale e predittiva per la
pianificazione dell'intervento politico, maggiore sarà il primato
della politica, non in chiave di autonomia separata, ma in
quella dell'arte del potere e, per un partito comunista alle prese
con il sistema capitalistico e le mene reazionarie, dell'arte della
conquista del potere politico (l' 'egemonia'
di Gramsci). Questa sfida dell'arte dell'organizzazione come
interna tutt'intera all'arte politica, sarà la filosofia
complessiva della relazione tenuta da Secchia a Firenze nel gennaio
1947 e il filo comune della sua riflessione (mai astratta, ma legata
al concreto lavoro politico) nel 1948 e nel 1949.
Ed è bene che, riflettendo proprio su questi scritti e
discorsi di Secchia, il concetto di 'organizzazione' si liberi della
cappa di sociologismo che gli aleggia intorno, per assumere una
valenza proponibile nell'ambito della teoria politica marxista e
della prassi operativa dei comunisti. La storia del movimento
operaio italiano ha proposto una 'organizzazione' liberata dagli
schemi ideologici borghesi, solo per brevi periodi: tra questi, gli
anni della ricostruzione post-bellica e una buona metà degli anni
'50. Ciò, nonostante la profonda riflessione di Gramsci al riguardo
(contro il sociologismo borghese e all'interno dei processi per
l'egemonia), si ebbe non certo per la spinta al 'partito nuovo' e
per la strategia della 'democrazia progressiva', che pure non fu solo
la piega togliattiana al corso del Partito Comunista Italiano, ma
anche per il tentativo di radicare il partito di classe nel popolo,
farlo diventare di massa, senza perdere i connotati del partito di
quadri, senza cioè che la quantità stemperasse o deprivasse o non
facesse sviluppare la qualità.
Può dunque dirsi che la potente spinta a quel formidabile
'apparecchio' di riproduzione del consenso e
formazione-alfabetizzazione-qualificazione che fu il PCI negli anni
1945/1954, partito nuovo togliattiano, gestito organizzativamente da
Secchia, fu la Resistenza, che temprò nell'azione la teoria
politica dei comunisti come avanguardia combattente e che entrò a
far parte del 'bagaglio organizzativo'
di molti quadri, specie intermedi,
almeno fino a quando una linea politica diversa (la 'via
italiana al socialismo'), sebbene in continuità in molti punti con
la precedente, non fu però in contraddizione con gli aspetti più
marcatamente conseguenti rivenienti dalla lotta partigiana e dalle
scelte radicali degli anni della 'svolta', al tornante degli anni
'30. Insomma, la lettura semplicistica e di comodo, nonchè
francamente fuori di ogni criterio marxista e leninista di analisi,
che l''organizzazione' di quegli anni fosse il frutto dello
stalinismo del partito e dell'intero movimento operaio, ha fatto sì
che ogni discorso sull' 'organizzazione'
(contro lo spontaneismo, ma anche contro la creatività, per
la disciplina ottusa e cieca, contro l'autonomia, ecc..) convergesse
nella diffidenza di chi concepisce l' 'organizzazione' come mera
categoria astratta, al pari del sociologismo borghese. Per cui, ogni
organizzazione politica di classe, diventa organismo divoratore
delle volontà, per antonomasia, soggettive e libere. Ma il concetto
di 'organizzazione' ha un suo spessore rilevantissimo nell'ambito
del marxismo e gli scritti di Secchia permettono di rimeditare in
maniera feconda l'esperienza del movimento operaio italiano al
riguardo, rendendo la
categoria attuale,
utile alla pratica politica e all'iniziativa di classe.
In Italia, nella peculiare esperienza del PCI, se si rimane
circoscritti alla connotazione 'nazionale' della strategia
togliattiana (parliamo naturalmente del processo avviato con la
'svolta di Salerno', dal ritorno
di Togliatti in Italia da Mosca nel marzo 1944) si rischierà di
trovare, come è stato fatto da fronti contrapposti, o il massimo
dell'autonomia e l'affrancamento da ogni legame internazionalista
effettivo nell'elaborazione della linea politica e nella direzione
concreta del partito, o il massimo dell'eterodirezione, senza alcuna
specificità nè nella teoria, nè nella pratica. Il togliattismo,
noi crediamo, non è una categoria storica. Esiste, al contrario,
l'elaborazione e l'esperienza effettiva dei comunisti italiani e,
all'interno di questa, una differenziazione o una omogeneità. Sul
tema dell'organizzazione di classe, sull'organizzazione
dell'antagonismo e della conflittualità sociale, legata certo
principalmente allo
strumento-partito, ma non in toto assimilabile ad esso, c'è la
possibilità di utilizzare le categorie dell' 'officina gramsciana'
e la pratica politica e la riflessione su di essa di Pietro Secchia:
perchè, grande insegnamento proprio di Gramsci e Secchia, è che
l'organizzazione è principalmente la
programmazione dell'azione politica secondo obiettivi
determinati che entrano nella strategia e connotano la tattica,
nonchè la volontaria coesione
(disciplina+consenso) 'di una parte che si fa tutto' e il
coordinamento di questa coesione in base alla condivisione di
principi, valori, mezzi e fini (vera sostanza e 'anima' del
centralismo democratico). Anche questo può, e deve essere
considerato, leninismo
creativo, marxismo non dottrinario,
pulsante nella produzione di esperienze, quando non
vittoriose, grandemente significative per il radicamento popolare
dei comunisti. Marxismo e leninismo, dunque, come teoria e prassi
dell'organizzazione della lotta di classe e delle forme di questa
lotta nelle formazioni economico-sociali specifiche.
Il passaggio da massa, indistinta e priva di coscienza di
classe, ad esercito politico
organicamente predisposto,
massa popolare guidata dal partito di classe, richiede un
prerequisito indiscutibile: elevare la capacità dei quadri (coscienza+organizzazione)
per formare dirigenti capaci di incidere sulla quantità
(organizzazione/direzione=egemonia). Il legame con le masse non
stempera l'identità di classe dello strumento-partito se si afferma
la doppia valenza che molti hanno individuato come pedagogica,
ma che in effetti è formativa
come tutti i mezzi che mirano all'emancipazione, individuale e
collettiva: è la società, le classi che determinano i partiti,
questi formano i quadri che elevano la formazione
delle classi stesse; per un partito comunista ciò è
essenziale, una traduzione del principio marxista della
determinazione della coscienza da parte dell'
'essere sociale'.
E la qualità dei quadri non si misura dalla capacità
astratta di perorare la causa idealmente intesa, ma dall'effettiva
capacità di guidare le masse nell'azione politico-sociale, qualità
dell'avanguardia, appunto, nel fuoco delle contraddizioni di classe
e in direzione del socialismo.
Il nuovo tipo di intellettuale nasce da qui: 'organico' alla
classe e all'organizzazione di classe, è dentro la classe come
organizzatore della trasformazione qualitativa nella costruzione del
processo rivoluzionario, per l'egemonia, dalla massa 'tumultuosa'
all'esercito disciplinato coscientemente alla realizzazione dei
fini-obiettivi: la congruità delle strategie si misura dalla
realizzazione operativa di obiettivi immediati e intermedi, non
dall'idea che se ne fa chi le stabilisce.
L' origine e l'articolazione di questa analisi, è certamente
all'interno della tradizione terzinternazionalista, sebbene
assolutamente fuori delle sue degenerazioni, che non sono le stesse,
per intendersi, di quelle denunciate in modo strumentale e
paradossale dalla cultura borghese. E' lo schema di riferimento e di
lavoro organizzativo anche di Secchia, che cercherà, nelle maglie
di una tattica e di una strategia politica (la 'linea') da lui
condivisa ma non scelta (nella rottura/continuità tra il partito
semiclandestino e clandestino al 'partito nuovo' della 'svolta di
Salerno') di renderlo operativo fino agli anni della sua
emarginazione politica dal partito sul pretesto del caso-Seniga
(1954); dirigendo dunque uno dei settori più potenti e influenti
nella tradizione dei comunisti non solo italiani. Secchia conosce
poco l'elaborazione gramsciana (anche se proprio in quegli anni avrà
modo di rifletterci sopra in progressione con la pubblicazione della
criticabile edizione curata da Togliatti dei 'Quaderni dal carcere'),
anche se si è formato ed è stato profondamente influenzato dai
suoi scritti dell' Ordine
Nuovo (nelle sue ricostruzioni storiche, infatti, come ad
esempio nell'opera Le armi del fascismo, pubblicata da Feltrinelli nel 1971, abbondanti
sono le citazioni del Gramsci ordinovista, quasi del tutto assenti
quelle dei 'Quaderni'). L'esperienza pregressa di Secchia, nel 1945,
è quella del combattente proletario e del dirigente nella
Resistenza di matrice comunista;
se Engels aveva studiato appassionatamente l'arte militare (dunque
un importante settore dell'arte dell'organizzazione), Secchia cerca
di fare diretta esperienza di essa seguendo il motto di Luigi Longo,
combattente nelle brigate internazionali di Spagna, che il
moto si apprende camminando. Anche Secchia studia in carcere e
al confino l'arte militare, ma per lui la lettura di alcuni classici
in materia, ha la stessa influenza che per Gramsci la lettura del
'teorema delle proporzioni definite' di M.Pantaleoni: spunti di
riflessione teorica, ma ciò che conta è la sperimentazione
e verifica materiale, è la concreta prassi rivoluzionaria. Ed in lui
così si fondono, mirabilmente, le lezioni di Engels, di Lenin e di
Gramsci, proprio sulla concretissima arte dell'organizzazione. Più
volte insiste sul concetto di 'adeguata attrezzatura' per il
partito: e questa 'attrezzatura', deve essere pronta per ogni colpo
dell'avversario, scontando l'esperienza che già il movimento
operaio italiano aveva realizzato nel '19/'22, un'incapacità di
fronteggiare la reazione della borghesia, legale e illegale, e che
aveva portato al fascismo. La democrazia è il potere popolare, che
si sostanzia di istituti non formalistici come nella tradizione del
diritto borghese, ma di
istituzioni controllate e attraversate dal popolo, altrimenti le
mene dei reazionari avranno prima o poi la meglio e tenderanno a
svuotare le istituzioni stesse, a seconda dei loro interessi
contingenti e della piega delle lotte sociali. E' una delle più
acute lezioni leniniste, i due metodi della borghesia:
"In tutti i paesi capitalistici la
borghesia si serve di due metodi di lotta contro il movimento
operaio e i partiti operai. Il primo è quello della violenza, della
persecuzione, del divieto, della repressione (..) Il secondo metodo
di lotta impiegato dalla borghesia contro il movimento operaio
consiste nel dividere i lavoratori, nel disorganizzare le loro file,
nel corrompere singoli rappresentanti o singoli gruppi del
proletariato per farli passare dalla parte della borghesia."
Un partito comunista, pur in situazioni estremamente
complesse, non deve rinunciare a legare la sua tattica politica a un
respiro strategico che non può non avere inscritto la capacità
della sua organizzazione di portare all'offensiva il movimento
proletario e antagonista al sistema di sfruttamento capitalista, e
quindi deve essere pronto a rintuzzare in ogni momento le forme
palesi, ma sovente occulte, in cui si esprime la reazione delle
classi dominanti minacciate nei loro atavici e parassitari
privilegi:
"Un partito comunista, un partito
rivoluzionario deve avere due organizzazioni, una larga, articolata,
di massa, visibile a tutti, ed una ristretta, segreta. Questo anche
in tempi della più ampia democrazia e legalità, poichè non si può
mai fare affidamento sui piani del nemico. Noi vogliamo procedere
per via pacifica avanzando verso il socialismo. Ma il nemico è
d'accordo? Starà a vedere? Occorre prepararsi a qualsiasi
eventualità e questo può farsi sia disponendo di un apparato
propagandistico (orientamento dell'opinione pubblica) che
organizzativo (rapporti con militari e ufficiali nostri e avversari)
e di una adeguata attrezzatura per fare fronte a qualsiasi
eventualità".
L' 'adeguata attrezzatura' è innanzitutto un partito di
autentici quadri rivoluzionari, premessa indispensabile per potersi
radicare nel popolo e configurarsi come 'partito di massa': ma non,
appunto, una qualsiasi formazione politica di massa - ciò è
possibile ai partiti della borghesia, le idee dominanti sono quelle
della classe dominante (Marx) - ma un partito comunista
di massa, dunque di classe e rivoluzionario. La formazione dei
quadri è vitale in un partito comunista: la selezione dei gruppi
dirigenti, l'organizzazione, non può che avvenire nella lotta di
classe e per la lotta di classe, attraverso la capacità di dirigere
l'azione politica, aborrendo il burocratismo che deriva
dall'inazione e dalla passività. Questo è il filo che lega le
riflessioni e la concreta azione politica di Secchia in tutte le
fasi della sua vicenda all'interno del Partito Comunista. Il fulcro
di questa vicenda è costituito appunto dal biennio '47/'49. Sono
gli anni in cui Secchia ha, come si usava dire un tempo, 'l'intero
polso del partito', assurge a figura di primissimo piano (il numero
'tre' dopo Togliatti e Longo), 'controlla' l'apparato e
l'applicazione della linea politica. Ma sono anche gli anni delle
amare disillusioni rispetto agli ideali resistenziali, delle
persecuzioni giudiziarie contro gli ex-partigiani, gli anni del
rimodellamento dello Stato borghese post-fascista, formalmente
democratico e costituzionalmente democratico, sostanzialmente
autoritario e asservito agli interessi dell'imperialismo americano.
In quel periodo si accende e si consuma un coraggioso tentativo: la
costruzione di un partito radicato nel popolo che sarà presidio
delle tante insidie antidemocratiche, ma che non riuscirà a porsi
concretamente il problema della conquista del potere politico.
Quando Secchia insiste in quegli anni per un' 'attrezzatura
adeguata' del partito, lo fa per una duplice ragione: a) essere
pronti in caso di ripresa delle mene fasciste e reazionarie (difesa);
b) mantenere un quadro di partito rivoluzionario e di classe, che lo
salvaguardi dai rischi dell'omologazione e dalle sabbie mobili del
riformismo, che mantenga salda la strategia rispetto alla tattica,
cioè l'edificazione del socialismo (controffensiva
strategica-offensiva). Secchia accetta la svolta di Salerno
togliattiana del marzo '44 (insieme
a Luigi Longo e alla direzione milanese del PCI, contrariamente,
all'inizio e per breve tempo, alla direzione romana capeggiata da
Scoccimarro) perchè in quel momento rispondeva maggiormente alla
fase della 'guerra di movimento': battere il nemico fascista ad ogni
costo, azione politico-militare unitaria, ecc.., non perdersi in
bizantinismi ideologici che avrebbero costituito freno all'azione
decisa contro il nemico. Ma non rinunciò mai a interpretare i
capisaldi di quella linea politica, il 'partito nuovo' e la
'democrazia progressiva', in senso classista
e rivoluzionario: quella linea politica deve e può trovare attuazione
in senso radicalmente antagonista e leninista proprio e solo tramite
l'organizzazione del partito; la verifica di una linea politica è
nella lotta di classe, la verifica, per un partito comunista, è
nell'organizzazione della lotta di classe. Ecco perchè Secchia, ancora
nel 1972, crederà fermamente nella necessità assoluta di un'
'adeguata attrezzatura', rivendicando, in sostanza, la stessa
coerente filosofia con cui aveva cercato di guidare il PCI dopo la
Resistenza. 'Partito nuovo': e certo il partito cospirativo e dei
piccoli gruppi a compartimenti stagno, non poteva più rispondere
alla sfida della 'guerra di posizione', alla via istituzionale come
passaggio cruciale e necessario dell'azione politica, alla esigenza
di legare a sè le grandi masse lavoratrici e dirigerle, con
l'egemonia della classe operaia, verso il traguardo della propria
assoluta autodeterminazione socialista, definitivamente fuori dal
sistema dello sfruttamento capitalista. Ma ciò era possibile,
allora, proprio perchè si veniva da una 'guerra di movimento', dove
la selezione dei quadri era avvenuta impietosamente nella capacità
d'azione contro il nemico nazi-fascista, un patrimonio prezioso,
indispensabile e insostituibile per costruire il radicamento di
massa. In questo senso, 'partito nuovo' era la continuità con la
Resistenza, in una fase storica nuova, non certo il suo
accantonamento. E democrazia 'progressiva', era soprattutto la
convinzione che non più attraverso la rottura rivoluzionaria,
l'ora x che sarebbe dovuta scoccare per la riscossa del
proletariato, ma con la costruzione di un
processo rivoluzionario, con la spinta ai movimenti di massa, si
sarebbero potute ricostituire le basi per l'edificazione del
socialismo nel nostro paese. Il partito comunista di massa, allora,
era il partito radicato nel popolo, il partito della lotta di
classe, che poteva assumere un profilo quantitativo
straordinariamente consistente senza perdere la sua identità e la
sua ragion d'essere per la qualità dei suoi quadri rivoluzionari.
Azione politica, studio e lotta di classe, organizzazione: il
gramsciano 'blocco storico' doveva essere antagonista e di massa,
opporre all' 'apparecchio' delle classi dominanti dello Stato
borghese, che aveva però dovuto cedere terreno sul piano della
stesura della Carta costituzionale proprio in virtù del grande
ruolo assunto dal PCI nella lotta antifascista, un
'apparecchio' potente e articolato, forte nelle minute pieghe della
società subalterna, capace di una lotta a tutto campo, difensiva e
offensiva, e in cui ogni tattica doveva divenire 'opportuna', non
opportunistica, legata alla strategia e alla prospettiva socialista.
Prospettiva che la classe operaia, il proletariato, il popolo,
guidato dal partito, costruisce con le proprie mani, non attendendo
messianicamente l'intervento, prima o poi, della 'patria socialista'.
Nemico acerrimo dell'attendismo nella fase più acuta della guerra
di liberazione antifascista dalle colonne de La
nostra lotta', il giornale comunista più letto e seguito dai
partigiani comunisti nel '43/'45, Secchia lo sarà con altrettanto
vigore nella fase post-bellica. Proprio il dirigente accusato,
ancora oggi, a distanza di cinquant'anni, di preparare i famosi
piani K per permettere ai cavalli moscoviti di abbeverarsi alle
fontane di S.Pietro (mentre la borghesia reazionaria preparava ben
più corposi piani di eversione antidemocratica e
anticostituzionale!), spronava senza risparmiarsi in energie a
prendere l'iniziativa, a non aspettare le direttive dall'alto, ad
una vitalità che facesse riconoscere alle masse la qualità del
militante e del quadro comunista, a farlo riconoscere come reale
avanguardia della lotta di classe, in quanto interprete e
rappresentante dei bisogni delle classi lavoratrici e del popolo. Ciò
che era stato La
nostra lotta' negli anni precedenti,
diventò Il Quaderno
dell'attivista' nel dopoguerra,
pubblicato regolarmente per oltre dieci anni dal settembre
1946 al febbraio 1958, e nelle cui pagine è ben spiegata la
filosofia dell'organizzazione di Secchia e, a nostro avviso,
dell'intera leva di resistenti e quadri comunisti della lotta
partigiana alle prese con il 'partito nuovo' di impronta
togliattiana.
Sfogliando l'annata 1954 de Il Quaderno dell'attivista,
troviamo l'impegno di Secchia a ribadire la sua filosofia
dell'organizzazione, ormai per Togliatti in odore di eresia, per lo
svolgimento dei congressi provinciali e la preparazione della IV
Conferenza organizzativa di partito, che si terrà a Roma dal 9 a 14
gennaio 1955, dunque dopo il fatidico 25 luglio 1954 (fuga di Seniga,
segretario e più stretto collaboratore di Secchia e successivo
'processo interno' ed 'epurazione' del dirigente comunista biellese).
Nel n.7 del 1 aprile 1954, 'Il Quaderno' dà conto di alcuni
significativi passaggi del discorso di Secchia al Congresso
provinciale di Savona, tenutosi il 14 marzo di quell'anno, e in cui
si ribadisce la necessità di legare l'azione politica incisiva, la
lotta di classe, l'organizzazione di questa lotta, alla prospettiva
strategica ineludibile per un comunista, il socialismo, senza cedere
nulla all'opportunismo tatticista che era pericolo costante, questo
Secchia lo sapeva bene, della politica togliattiana, nè
all'attendismo e all'inazione tipici della 'sindrome della
sconfitta':
"Non dobbiamo creare nessuna
illusione, dobbiamo dire chiaramente ai lavoratori, agli operai,
agli impiegati, ai contadini, ai lavoratori di ogni categoria che le
cause fondamentali di tutti i nostri mali e delle nostre miserie
saranno eliminate soltanto quando sarà eliminata la società
capitalista. Ragione per cui è necessario che noi ci preoccupiamo
non soltanto di guadagnare i lavoratori alle lotte immediate, ma di
conquistarli all'ideale socialista, di persuaderli a lavorare e a
lottare per obiettivi più avanzati. (..) Nessuno più di noi si
rende conto che difficili sono le lotte e che esse costringono i
lavoratori a duri sacrifici. Sappiamo anche che vi sono delle lotte
che sono costate dolori, lacrime e sacrifici e che non hanno dato
quei risultati immediati che noi avremmo desiderato, che i
lavoratori si attendevano; ma non per questo dobbiamo lasciarci
vincere dallo scoraggiamento e dall'apatia. (..) Dobbiamo studiare e
scoprire nuove forme di azione e queste nuove forme si trovano con
l'attività e con la lotta stessa. Nessuna nuova forma di lotta può
essere trovata senza la discussione, senza il dibattito, senza lo
scambio di esperienze. (..) Dobbiamo studiare di più. Ogni
comunista deve far lavorare il suo cervello, deve tener conto di
ogni esperienza di lotta, deve sforzarsi per assimilare e fare
assimilare i princìpi e i metodi d'azione del marxismo e del
leninismo.
Quando noi parliamo di critica e autocritica noi non chiediamo delle
vane lamentele sulle deficienze e sugli errori, ma chiediamo uno
sforzo, un contributo da parte di tutti i compagni per scoprire le
nostre debolezze, le nostre deficienze, le cause dei nostri errori,
noi chiediamo un contributo di studio e di esperienza per impostare
meglio, preparare e condurre con successo le lotte."
Erano passati solo
sette anni dalla Conferenza d'organizzazione di Firenze del gennaio
1947, in cui Secchia aveva riproposto con forza e convinzione e con
esiti indiscussi la sua filosofia dell'organizzazione, eppure non
solo quella filosofia era stata già emarginata, ma
l'interpretazione di una linea
politica in senso classista e modernamente rivoluzionario che la
supportava.
Gli
scritti e i discorsi di Secchia negli anni '47/'49 che qui
presentiamo, dovrebbero essere, oggi, nutrimento vitale per ogni
comunista impegnato concretamente nella lotta di classe e
nell'organizzazione materiale di questa lotta: la costruzione del
partito comunista di massa passa per la costruzione di un movimento
di lotta sociale di massa; ma per costruire un movimento di lotta
sociale di massa, il partito comunista deve formare i quadri
d'avanguardia che siano in grado di promuovere e dirigere la lotta
di classe.
Se
dunque un partito comunista non cura l'aspetto della
formazione degli stessi militanti, se non mira al rafforzamento
della memoria storica che lo ha generato e può farlo sviluppare nel
futuro prossimo, se non si rende lo strumento-partito anche una
delle agenzie di formazione
(delle giovani generazioni, soprattutto) che, in modo aggregante e
nella forma del laboratorio di ricerca continua (intellettuale
collettivo in senso gramsciano, concetto che rimanda alla
potenza dell'ideologia come materialità) sia fonte preziosa ed inesauribile di sviluppo dello spirito
critico nei confronti di tutte le agenzie di formazione falsamente pluralistiche della società in cui dominano gli
oligopoli mass-mediologici pubblici e privati, e conseguentemente
sviluppi anticorpi
che non isolino i comunisti dalla società, anzi,
li faccia entrare in sintonia con le condizioni materiali di
vita quotidiana di larghe, larghissime masse popolari, ebbene, il
rischio è quello di perdere le sfide e il cimento aspro cui
sottopone continuamente il nostro tempo storico. I risultati possono essere, alla lunga e per questa cronica
latitanza, devastanti per
la formazione, necessaria, di
quadri preparati, perchè capaci e temprati alla lotta. Dunque il
'partito di massa' diventerebbe testimoniale perchè opportunistico
e carrieristico e 'le masse' diverrebbero solo il paravento della
diluizione dei principi nel riformismo ( 'debole' o 'forte', non ha
qui importanza alcuna, visto il riconoscimento unanime, almeno
formalmente, della fine dei margini riformistici tipici delle fasi
keynesiane). Il
carrierismo/opportunismo, proprio perchè tale, è capace di
adattarsi a tutte le linee politiche, ma con un unico risultato:
l'inazione, l'inattività, la passività, l'ingabbiamento sterile
delle energie, l'autoreferenzialità, secondo il lessico in uso. Non tutte le linee
politiche sono uguali, è ovvio: ma per la loro verifica, non
bastano certo i proclami e le categoriche asserzioni del ceto
politico che le esprime.
Il
settore della formazione-quadri
deve essere il terreno privilegiato, insieme all'infaticabile
necessità di essere dentro le lotte e riconoscibili
socialmente - in quanto riconosciuti
dalle masse, dell'impegno dei comunisti (coerentemente e
nell'azione) marxisti e leninisti.
Secchia così concepì la politica del 'partito nuovo',
preoccupandosi in prima persona (sotto la spinta decisiva, bisogna
ribadirlo, di molti dei dirigenti
della generazione dei 'resistenti', che si erano formati alla scuola
della 'guerra di movimento', tra carcere, confino, cospirazione e
lotta armata) di dare vita alle scuole di partito, agli istituti di
ricerca e documentazione, al proliferare di riviste dirette dal
partito o legate indirettamente ad esso (si pensi al ruolo che
giocarono nel dopoguerra e per tutti gli anni '50, periodici di
massa quali Vie nuove e Il
Calendario del Popolo'). Perchè le trincee e le 'casematte'
della 'guerra di posizione' non diventino lo stagno paludoso
dell'attendismo e del codismo, sede dell'infiltrazione più subdola
dei valori della borghesia, l'opportunismo e il carrierismo, che,
accompagnati da una spregiudicata linea politica in cui scompare o
si annebbia la prospettiva strategica, possono decretare
l'omologazione al sistema capitalista, cioè l'antitesi di ogni
organizzazione che lavori per il comunismo.
Un
partito comunista, che ha dietro di sè la gloria e i drammi,
l'eroismo e le tragedie del XX secolo e si volge a prospettarsi nel
difficile compito di costruire una società di liberi ed uguali per
il secolo che ci sta davanti, non può rinunciare a costituire se
stesso come partito e organizzazione rivoluzionaria e di classe,
seppur modernamente rivoluzionaria e di classe, proprio per
'costruire' e non solo per 'resistere'.
Ogni resistenza, se è buona resistenza, come lo è stata la
lotta di liberazione nazionale dei partigiani contro il
nazifascismo, ha insita in sè non solo la difesa strategica, ma la
controffensiva e l'offensiva strategica. Altrimenti, ogni
radicalismo è destinato a stemperarsi nel vacuo inseguimento di ciò
che la contingenza ci presenta come storico ed è al contrario
effimero e caduco.
Ferdinando Dubla
ottobre 1996
NOTE
Cfr. P.Togliatti: Pietro Secchia,
in La Vie Proletarienne
n.61, 21 giugno 1931, f.to Ercoli,
sta in Opere, vol.III(1)
-1929/1935 - Roma, 1973, pp.359/60.
Cfr. M.Mafai: L'uomo che sognava
la lotta armata - La storia di Pietro Secchia -, Milano,
1984, pp.40/41. La Mafai poi si lascia andare a considerazioni
discutibili come questa: "Ordine,
disciplina, spirito pratico, tenacia: all'organizzatore si
richiede non solo grande capacità di lavoro e spirito di
sacrificio, ma anche e soprattutto rinuncia allo spirito
critico, la disponibilità ad accettare e trasmettere moduli
molto semplici, quasi catechistici di interpretazione della
realtà". Ma come mai poi conclude affermando che "Solo
i migliori dunque diventano, a livello provinciale, i
'responsabili dell'organizzazione'",?
Ivi, pp.41/42. Possibile che i migliori potessero venir
fuori da assenza di 'spirito critico' e fideismo ottuso?
Due linee politiche? Contrapposizione Secchia-Togliatti? Secchia al
contrario interprete disciplinato del togliattismo e incapace di
una rottura e di dar voce ad un'alternativa reale dentro il
partito comunista? Su questa annosa 'querelle' nell'ambito della
storia del PCI abbiamo cercato di dare un contributo, cfr.
Ferdinando Dubla: A
sinistra di Togliatti: Pietro Secchia, pubblicato da Il Calendario del popolo n. 584, dicembre 1994, pp.36/43, cercando
di rilevare la posizione di Secchia come interprete di una linea
di classe e coerentemente leninista e rivoluzionaria, pur
all'interno dei binari imposti dal togliattismo, dunque affatto
estremista e/o avventurista. Lo stesso Collotti,
curatore dell'Archivio Secchia per l'Istituto
G.G.Feltrinelli, al riguardo ha scritto: "(::)
lo stesso lavoro di organizzazione di Secchia va inquadrato in
una prospettiva politica e in una prospettiva che in quel
momento non era quella di Secchia o di Togliatti ma quella del
partito con le accentuazioni che, a seconda del momento
politico, potevano essere impresse da Secchia piuttosto che da
Togliatti.", cfr. Introduzione
all'Archivio Secchia, Annali Feltrinelli, a.XIX, Milano,1978,
pag. 98.
Cfr. R.Martinelli: Storia del
Partito Comunista Italiano - Il 'partito nuovo' dalla
Liberazione al 18 aprile, Einaudi, 1995, pp.100/101.
Cfr. A. Donini: Sull'Archivio
Secchia, intervista a cura di Gianni Corbi, L'Espresso, 19 febbraio 1978.
Cfr. Leo Valiani: Una
testimonianza sul caso Secchia e sul lungo dissenso con
Togliatti, in Il
Corriere della Sera, 19 febbraio 1978.
In sostanza in quel memorandum, secondo Donini: "Secchia faceva presente a Stalin e al gruppo dirigente del PCUS le
sue gravi preoccupazioni per la conduzione politica del PCI.
Secondo Secchia, Togliatti si faceva troppe illusioni sulla
possibilità di una collaborazione di lunga durata con la
Democrazia cristiana. Rimprovera Togliatti di essere stato colto
di sorpresa dal 'colpo di Stato' di De Gasperi che estromise i
comunisti e i socialisti dal governo. Avverte i sovietici che
Togliatti si mostrava troppo incline ai compromessi pur di
difendere la sua posizione di leader del partito.", cit.,
pag.25.
E.Collotti, cit., pag.100,
dove si parla di
'rettifica di linea' rispetto all'impostazione togliattiana, che
a noi pare qualcosa di più, una vera e propria 'sinistra' della
linea nell'azione politica coerente alla prassi comunista di
ogni epoca, la lotta per la conquista del potere politico da
parte del proletariato, la lotta per il socialismo. Ancora Leo
Valiani, pochi giorni dopo la morte di Secchia, scriveva: "Secchia
amava, come tutti i comunisti, e molti socialisti della sua
generazione, la rivoluzione sovietica, ma nell'Urss non soggiornò
mai per più di qualche settimana. Egli concepiva bensì la
rivoluzione, che sperava avrebbe tenuto dietro, in Italia, alla
fine della reazione fascista, come parte integrante della
rivoluzione proletaria internazionale, nella cui crescita
credeva, ma era convinto, da ben prima di qualsiasi formulazione
di vie nazionali al socialismo, che la rivoluzione doveva essere
opera di forze sociali e politiche interne, della loro
determinazione, della loro fermezza, della loro audacia. Il suo
leninismo era sostanzialmente qui, nella consapevolezza che la
rivoluzione non sarebbe scaturita spontaneamente dal fatale
divenire delle cose, nè sarebbe stata importata dall'esterno.",
in Che cos'è un
rivoluzionario, Corriere
della Sera, 15 luglio 1973, esempio di un estremo rigore
interpretativo filologico dovuto in gran parte alla personale,
approfondita conoscenza di Valiani con Secchia e, pur da sponde
molto diverse, di una stima non esteriore e formale.
L'espressione è in A.Gramsci:
Quaderni dal carcere
(Q.3), ed.critica dell'Istituto Gramsci a cura di Valentino
Gerratana, vol.I, Einaudi, 1975, pp.326/27.
Su questi temi, riferiti all'operato di Secchia negli anni '43/'45, mi
si permetta di rimandare a Ferdinando Dubla: Il combattente proletario - Dalla parte dell'antifascismo 'cattivo',
in Questioni del
socialismo n.7, settembre 1995, pp.131/141 e Id.:
La Resistenza accusa ancora, in Il
Lavoratore/oltre, 28 aprile 1995, pag.8.
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