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murales di Filippo Girardi
IL CONGRESSO DELL'ESILIO (ferdinando dubla) pubblicato su Rinascita della sinistra nr.12/07, 23 marzo 2007
C’è stato un tempo in cui celebrare congressi del Partito Comunista era impresa ardua, in cui anche la semplice circolazione delle tesi congressuali poteva costar caro in termini di privazione della propria libertà. Correva l’anno 1931 e il regime fascista cercava, nonostante un crescente malessere sociale (in quell’anno si assistè a vere e proprie rivolte, come a Parabiago e a Martina Franca) di radicare un consenso di massa alle sue politiche, sferrando a fondo il suo attacco alle opposizioni, gran parte già esuli principalmente in Francia, e ai militanti e quadri comunisti riparatisi nella clandestinità, ma non per questo meno domi nella ricerca di uno spazio di opposizione sociale da utilizzare nelle contraddizioni del regime. Ma tanti, molti furono i comunisti che caddero nelle maglie della repressione carceraria, proprio per celebrare il “congresso del partito”, che sebbene si dovesse svolgere a Colonia, in Germania, nell’aprile di quell’anno, doveva pur essere preceduto da un più largo dibattito precongressuale, doveva vedere il coinvolgimento di quanti più possibile iscritti e militanti. E fu proprio per garantire quella partecipazione democratica, in un partito già tacciato allora di monolitismo e di ferrea disciplina, per le note vicende della “liquidazione” degli “opportunisti” e “frazionisti dottrinari” (come Secondino Tranquilli-Ignazio Silone e Amadeo Bordiga), che Pietro Secchia, giovane e infaticabile organizzatore di quel congresso, fu arrestato dalla polizia fascista a Torino, rimanendo nelle carceri del regime dal 3 aprile 1931 al 18 agosto 1943. E non è un caso che sia Palmiro Togliatti a tributare al giovane dirigente un caloroso omaggio nel suo discorso all’apertura del Congresso, il 14 aprile, tra i boschi che cingevano il circondario di Dusseldorf, in un’aria di cospirazione, a 56 spaesati delegati provenienti dall’Italia e dall’esilio. Spaesati, ma non meno convinti di dover elaborare un compiuto piano d’azione per evitare al nostro paese la catastrofe della guerra, epilogo della crisi irreversibile del capitalismo, come recitavano le analisi del X Plenum dell’Internazionale del luglio dell’anno precedente, che però indicavano anche la priorità della battaglia contro quella che sbrigativamente fu definita con la categoria di ‘socialfascismo’, la complicità dei socialdemocratici e dell’attendismo opportunista alla reazione fascista. Ma il Congresso della ‘svolta’, come fu chiamato, doveva solo ratificare decisioni già prese da Mosca? Questa è l’immagine che di quel congresso e di quella ‘svolta’ venne data posteriormente, sempre per confermare l’asservimento ai voleri di Stalin dei comunisti italiani. Ma quei delegati, anche solo a leggere i resoconti a noi noti e la relazione di ‘Ercoli’ (Palmiro Togliatti) nel prezioso opuscolo edito alcuni mesi dopo a Parigi per le Edizioni di cultura sociale [Il IV Congresso del Partito Comunista d’Italia (aprile 1931). Tesi e risoluzioni], dovevano decidere qualcosa che poteva dare sì una ‘svolta’, ma alle loro stesse vite di rivoluzionari professionali, se intensificare cioè l’operato delle cellule clandestine all’interno del nostro paese, e per questo rafforzare il quadro e l’azione del Centro interno, oppure privilegiare l’azione del Centro estero, a Parigi, luogo di incontro-scontro-confronto dell’intera opposizione antifascista. Era stato un tema dibattutissimo anche alla II Conferenza nazionale del PCd’I a Basilea nel gennaio 1928, sotto la spinta dei giovani comunisti e per la spinta di problemi interni: l'esame autocritico per elaborare una nuova linea politico-organizzativa che consisteva essenzialmente nello spostare il centro di gravità all'interno delle organizzazioni del fascismo, cioè nei dopolavoro, nelle organizzazioni giovanili e nei sindacati fascisti, nelle associazioni sportive, culturali e anche nelle file della milizia fascista. Questo avrebbe portato un carico di lavoro e responsabilità maggiore per quei delegati, in gran parte operai e contadini, nonché un aumento dei fattori di rischio di arresti, torture e morti (sfidare su questo piano la polizia fascista e l’Ovra non era certo impresa di poco conto), rischio accettato con la consapevolezza, come scrisse più tardi Giorgio Amendola, di aver operato una ‘scelta di vita’. Con passione Togliatti aprì il Congresso, rendendo omaggio a Secchia, e a tutti i compagni caduti o reclusi nelle patrie galere, ma non rinunciando a chiedere a quei delegati uno sforzo alto di analisi, il tema dominante del Congresso essendo “per un partito di massa alla testa di un blocco operaio-contadino rivoluzionario”, che poi doveva tradursi in un attivo impegno all’applicazione di quella linea politica così collettivamente discussa. I delegati ebbero, per questo, un dettagliato rapporto di attività dal III al IV Congresso, sull’arco di tempo, cioè, che andava dal 1926 al 1931, anni che avevano visto la decapitazione del quadro dirigente comunista, primo fra tutti Antonio Gramsci, che a Turi attendeva le risoluzioni del Congresso condividendo solo in parte e non nella tattica politica le risoluzioni dell’IC degli anni ‘29/’30. Un passaggio di quel rapporto non poteva trovare la condivisione di Gramsci, quello titolato La esclusione della prospettiva di una rivoluzione democratico-borghese , laddove cioè si dava per “dimostrata da noi sulla base della analisi della situazione oggettiva, l’affermazione che non si può parlare in Italia che di una rivoluzione proletaria e che soltanto una rivoluzione proletaria potrà risolvere tutti i problemi della società italiana”; ovvero la negazione di un problema, quello della transizione, che invece attraversava la riflessione di Gramsci nelle sue annotazioni così profonde e acute dei ‘Quaderni’. Il lungo periodo successivo, durante il quale non potrà tenersi alcun congresso (il V si aprirà nel dicembre 1945), è quello della fase fascista in Europa, dell’aggressione coloniale in Africa, dei fronti popolari, della guerra di Spagna, della Seconda guerra mondiale: avvenimenti che modificheranno radicalmente la situazione generale e la storia e il carattere stesso del Partito Comunista Italiano. Ma chi, oggi come ieri, potrà mai sostenere che il cuore e l’intelligenza di Gramsci, così come la nostra moderna visione di comunisti ‘secolarizzati’, non fosse tra quei 56 delegati nelle foreste tedesche, e che, sfidando la temperie dell’epoca, consegnavano alla storia un’esperienza che nessun revisionismo potrà mai più cancellare?
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