linea Rossa
LA MEMORIA RITROVATA
La concezione gramsciana
del Partito comunista
Autonomia ideologica, politica
e organizzativa. Radicamento
nei luoghi di produzione.
Politica delle alleanze. Teoria rivoluzionaria
di Michele Martelli *
In questo volume, col quale termina l'edizione completa degli scritti precarcerari dì Gramsci, dato alle stampe nel 1971, sono raccolti gli editoriali, gli articoli e note polemiche varie del grande dirigente comunista italiano, quasi tutti o firmati o di sicura attribuzione, apparsi dall'ottobre 1923 all'ottobre 1926 su organi dì stampa del Partito o dell'Internazionale comunista (l'"Unità", l"'Ordine Nuovo" terza serie, "Lo Stato operaio", la "Correspondence internationale"), nonché le relazioni e gli interventi svolti nello stesso periodo nelle istanze dirigenti del Partito. Vi sono compresi anche il testo integrale delle tesi congressuali di Lione, il famoso scambio epistolare con Togliatti sulla crisi nel Pcus e il saggio sulla questione meridionale, ponte di passaggio ai Quaderni carcerari (di questi ultimi, era allora in corso di preparazione l'edizione critica, apparsa nel 1975, dove finalmente l'ordinamento dei quaderni e delle note gramsciane non era tematico, ma cronologico). Con l'inserimento nel volume dello scambio di lettere con Togliatti, nel frattempo morto a Yalta nel 1964, la divergenza fra i due dirigenti nel 1926, su cui tanto si era speculato, diventava ormai un fatto storico irrefutabile. Il carteggio, del resto, era già noto perché pubblicato da Angelo Tasca prima e poi dallo stesso Togliatti. Divergenza teorica, tattica o strategica che fosse quella intercorsa allora fra i due dirigenti comunisti, è certo che la riflessione precarceraria e carceraria di Gramsci, e quindi anche la sua linea di autonomia critica nell'interdipendenza sostenuta nel carteggio del 1926, esercitò un enorme influsso sulla politica di Togliatti e sulla costruzione del Pci nel secondo dopoguerra. La cosa è ovvia ma non è ovvio ribadirla oggi, e rifletterci ancora sopra. Senza Gramsci, sia Togliatti sia la storia del Pci sarebbero stati impossibili, impensabili. E diversa, ma in peggio, sarebbe stata la storia postbellica dell'Italia democratica e repubblicana. Quali i temi affrontati nel volume? Poiché non si tratta di uno scritto teorico-politico sistematico (Gramsci non ne ha mai composto) ma di parole e pagine vergate c di discorsi pronunciati nel fuoco della lotta politica, legati agli eventi spesso drammatici di quegli anni, ripercorrere l'intero arco dei temi qui affrontati vorrebbe dire ricostruire la storia non solo italiana del periodo. Ma il tema principale è senza dubbio indicato dal titolo stesso del volume: la (ri)costruzione del Partito comunista d'Italia, ossia i problemi della sua piattaforma ideologica e delle sue regole organizzative, della sua linea di massa e della sua politica di alleanze nello scontro contro il fascismo.
Quale partito?
Innanzitutto la necessità del Partito. Le argomentazioni
di Gramsci a riguardo sono di natura sia storica sia teorica. Sotto l'aspetto
teorico, è riaffermata con forza la dottrina leninista del partito
come parte della classe operaia, sua avanguardia organizzata e cosciente;
senza il Partito, senza la coscienza o teoria rivoluzionaria, senza la
comprensione dei rapporti reciproci tra le classi e fra le classi e lo
Stato, in ogni situazione storica concreta, le lotte "spontanee" della
classe operaia non supererebbero i limiti dell'economicismo; la classe
operaia rimarrebbe senza guida politica e senza alleanze, e non solo la
rivoluzione anticapitalistica, ma anche la lotta per la democrazia sarebbe
condannata inesorabilmente alla sconfitta e al fallimento. Questa certezza
teorica non nasce in Gramsci da faziosità o fanatismo ideologico,
da astratte e soggettivistiche elucubrazioni mentali, bensì dalla
riflessione critica e autocritica sull'esperienza storica del movimento
operaio e rivoluzionario in Italia e in Europa. Nel biennio rosso l'occupazione
delle fabbriche torinesi non era stata forse sconfitta per la mancanza
di un partito rivoluzionario in grado non solo di collocare organicamente
il movimento nell'insieme delle contraddizioni sociali e politiche del
paese, ma di potenziarlo ed estenderlo, inserendolo in una strategia politica
complessiva, nazionale e internazionale? Fenomeni simili si erano poco
dopo del resto verificati anche in Ungheria, in Germania ecc. E negli anni
seguenti, l'ascesa del fascismo al potere in Italia non era stato oggettivamente
facilitato anche dalla linea settaria e massimalista del Partito
comunista sotto la direzione di Amedeo Bordiga? Occorreva dunque rifondare,
ricostruire il Partito.
Non era in discussione la scissione di Livorno, atto
storicamente necessario, imposto dai fatti, dal fallimento del biennio
rosso e dai compiti urgenti della lotta contro il fascismo e per la rivoluzione.
Il problema era: quale partito costruire? Ribadito che
Livorno non fu un errore, che separarsi dai riformisti dl Turati era stato
doveroso e indispensabile, che il riformismo socialista rappresentava allora
non l'ala destra del movimento operaio, ma l'ala sinistra della borghesia,
pronta ad isolare e colpire non il fascismo, ma il comunismo, ribadito
tutto ciò bisognava fare i conti con Bordiga, già criticato
da Lenin per il suo astensionismo parlamentare e oramai in rotta con l'Internazionale
comunista. Bordiga concepiva il partito come una setta chiusa, elitaria,
aristocratica, fortemente burocratizzata e centralizzata, sottoposta ad
una disciplina ferrea, depositaria assoluta della purezza incontaminata
della dottrina rivoluzionaria, priva per principio di legami organici con
le masse (che, incapaci di acquisire nella sua purezza la dottrina rivoluzionaria,
avrebbero potuto esercitare sul Partito effetti negativi, di corruzione
teorica e di disintegrazione organizzativa. Una concezione estranea alle
idee di Marx e di Lenin. Ecco perché per Gramsci occorreva "bolscevizzare"
il Partito. In che senso? Non per adeguarsi meccanicamente ad un pre sunto
modello soprastorico, platonico, miracolisticamente incarnato dal Pcus,
ma per ispirarsi, traducendoli nel linguaggio della concreta realtà
nazionale, ai principii costitutivi di un partito la cui validità
era stata fino ad allora confermata dalla storia. Con riferimento all'insieme
delle realtà nazionali d'Europa e del mondo, questa era stata inizialmente
anche la ragion d'essere dell'Internazionale comunista. Che tipo di Partito
Gramsci voleva dunque (ri)costruire? Innanzitutto un partito ideologicamente
fondato sulle teorie dì Marx e di Lenin, che in Italia avevano trovato
un esponente creativo in Antonio Labriola, teorie da adottare non come
dogmi sacri e intoccabili, ma come criteri di analisi della realtà
e guida per l'azione. In secondo luogo, un partito organizzato sulle regole
non del centralismo burocratico e autoritario, bensì del centralismo
democratico, capace di contemperare le spinte settoriali, l'autonomia relativa,
la
sperimentazione dal basso con la direzione e il controllo
centralizzato dall'alto, al fine di garantire l'elaborazione e l'applicazione
di una linea politica complessa e internamente articolata, ma efficace
ed unitaria. In terzo luogo, un partito che promuovesse attivamente al
proprio interno l'elevamento della coscienza teorica e ideologica dei militanti;
a questo scopo Gramsci aveva organizzato anche una scuola interna di partito,
programmandola in uno scritto dal significativo titolo Per una preparazione
ideologica di massa. Ogni forma di potere (governo, Stato, partito)
è progressivo, dirà poi Gramsci nei Quaderni, solo
se tende a ridurre gradualmente la distanza che separa governanti e governati,
diretti e dirigenti. Il Partito comunista, inoltre, è da concepirsi
come l'unica organizzazione della classe operaia, come sosteneva Bordiga?
No. Per Gramsci "il Partito è la forma superiore dell'organizzazione
di classe del proletariato" Che cosa vuol dire? Che la classe operaia può
avere e spesso ha di fatto una serie di organizzazioni particolari e settoriali,
create ad hoc;, per bisogni urgenti, di breve o lunga durata, di
tipo politico, come i gruppi parlamentari, o di tipo puramente associazionistico,
o rivendicativo, o culturale, come sindacati, cooperative, unione della
gioventù o delle donne senza partito, organi di stampa, iniziative
editoriali, associazioni di cultura ecc. Ma poiché la classe è
una sola, una sola deve essere la direzione delle varie organizzazioni
operaie. Tale direzione democraticamente centralizzata spetta al Partito,
ma non per decreto divino; il Partito deve conquistarsela sul campo, con
la giustezza e la lungimiranza dei suoi programmi, l'oculatezza delle sue
tattiche, il comportamento esemplare dei suoi militanti e dei suoi dirigenti.
La politica delle alleanze. Fascismo e democrazia
Un'altra concezione errata del Partito, che emerge nello
scontro interno tra Bordiga e Gramsci, è quella rappresentata dal
cosiddetto Comitato d'intesa, gruppo frazionistico del Comitato centrale
aggregatosi nel 1924-26 intorno al dirigente napoletano). Secondo tale
gruppo, il partito non è leninisticamente una parte, la più
cosciente e avanzata della classe operaia e solo di essa, bensì
una "sintesi" di proletari, contadini, o transfughi della borghesia. Secondo
Gramsci un tale partito sarebbe una vera e propria "organizzazione interclassista".
Gli intellettuali rivoluzionari aderiscono al Partito individualmente,
indipendentemente dalla classe sociale di provenienza, per mettersi al
servizio unicamente della causa rivoluzionaria del proletariato. Una mera
aggregazione per sintesi progressiva, per mera aggiunta o sommatoria di
gruppi rivoluzionari molteplici classisticamente e teoricamente spuri ed
eterogenei, comporterebbe la distruzione del Partito comunista, e dunque
la decapitazione politica, ideologica e organizzativa della classe operaia.
Da ciò derivavano a parere di Gramsci due conseguenze fondamentali.
Innanzitutto, la necessità che il Partito fosse
radicato nei luoghi di lavoro attraverso l'organizzazione per cellule operaie
ramificate in ogni azienda, fabbrica, officina e rigorosamente distinte
dai comitati sindacali. Senza l'organizzazione politica per cellule nei
luoghi di lavoro, dove si origina la produzione capitalistica e
lo sfruttamento operaio, il Partito rischiava di essere esterno ed estrinseco
alla classe, non sua parte organica e sua avanguardia. Il che significava
respingere la proposta bordighista di sostituire le cellule operaie con
le sezioni o le assemblee territoriali, facile proscenio per la demagogia
e la ciarlataneria avvocatesca e professorale piccolo-borghese. Con tale
proposta, i bordighisti del Comitato d'intesa si collegavano in realtà
alla vecchia tradizione massimalistica e parolaia tipica del vecchio Psi;
in tal modo, il Partito comunista sarebbe regredito ad una fase storica
sorpassata e fallimentare della sinistra italiana, precedente alla scissione
di Livorno del 1921. La seconda conseguenza riguarda la possibilità
di elaborare e sviluppare la politica delle alleanze. Bordiga negava tale
possibilità. Essenziale era preparare il Partito in attesa dell'ora
fatale della rivoluzione, perché fosse pronto allo scoppio inesorabile
dell'unica e fondamentale contraddizione di classe esistente, quella interna
e internazionale tra classe operaia e borghesia capitalistica. Da ciò
il disprezzo elitario per l'arretratezza delle masse, per le rivendicazioni
economiche e sindacali, per la lotta elettorale e parlamentare, per qualsiasi
forma di politica di alleanze. Completamente opposta la concezione di Gramsci.
Occorreva fare l'analisi concreta della situazione concreta, comprendere
la complessità delle molteplici contraddizioni economiche, sociali
e politiche del paese, sviluppare una lotta nel sindacato e per la conquista
dei contadini, partecipare attivamente alla lotta nelle competizioni elettorali
e nel Parlamento, distinguere tra fascismo e democrazia, individuare il
nemico principale e isolarlo costruendo un arco il più ampio possibile
di alleanze di classe e di partiti. Da ciò sia il bilancio critico
e autocritico dell'operato dei comunisti nel 1921-23 (soprattutto il mancato
appoggio, anzi il boicottaggio bordighiano del movimento antifascista degli
Arditi del popolo, in quanto impuro e non comunista), sia la nuova politica
seguita dal Partito sotto la direzione di Gramsci nel 1924-26, per cercare
di uscire dall'isolamento e realizzare un' efficace strategia di alleanze
(la costituzione di Comitati operai c contadini, la proposta dell'Antiparlamento,
l'idea di un "intermezzo democratico" per rovesciare il fascismo ecc.).
Strategia, come è noto, poi ripresa a partire dal VII Congresso
dell'Internazionale comunista, nel 1935, e sviluppata durante e dopo la
Resistenza antifascista. Oggi siamo certo in una situazione storica diversa
da quella di Gramsci, ma la validità, e l' attualità, di
tanti aspetti della sua esperienza politica e delle sue elaborazioni teoriche
è innegabile.
Fondamentali, mi sembrano, in questo momento, soprattutto
due idee: da un lato quella della difesa intransigente dell'autonomia ideologica,
politica e organizzativa del Partito comunista come parte d'avanguardia
della classe, e dall'altra quella della strategia di isolamento del nemico
principale attraverso un duttile sistema di alleanze di tipo al tempo stesso
politico e sociale, parlamentare ed extraparlamentare.
* docente all'Università di Urbino
articolo pubblicato sul nr.1/2000 de L'Ernesto, pp.40-41
scrivete a linearossa@virgilio.it
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