LA MEMORIA RITROVATA
RISORGIMENTO, RESISTENZA E RIVOLUZIONE
Nel saggio di Angiolo Gracci sulla ‘rivoluzione negata’, una riflessione storico-politica matura dell’intreccio tra identità nazionale giacobina e antimoderata, lotta di classe, ‘quistione meridionale’ e processo rivoluzionario
----- Ferdinando Dubla -----
G.Friedmann, dopo la rivolta del maggio parigino nel ’68, scrisse:
“Molti sono coloro che si immergono totalmente nella politica militante,
nella preparazione della Rivoluzione sociale. Rari, molto rari, sono coloro
che, per preparare la Rivoluzione, intendono rendersene degni.”
(La puissance et la sagesse, Paris, 1970, pag.359).
Angiolo Gracci, combattente garibaldino nella Resistenza antifascista
italiana (1943-45), è un emblema della coerente dignità di
un rivoluzionario a tutto tondo, che sa di dover operare un consuntivo
della propria attività incessante, in quanto il bilancio critico
dell’esperienza è la strada maestra della stessa progettazione rivoluzionaria.
Gracci ha scelto un evento-simbolo per questo bilancio, un evento che gli
permette di tirare il filo ‘rosso’ che porta direttamente agli interrogativi
di oggi, al ‘che fare?’ qui e adesso: la rivoluzione napoletana del 1799
[La rivoluzione negata – Il filo
rosso della Rivoluzione italiana, memoria storica e riflessioni politiche
nel Bicentenario 1799-1999, prefazione di Guido D’Agostino, La
Città del Sole, 1999].
L’occasione del bicentenario, da poco sorpassato, gliene offre l’occasione:
ma l’evento storico, letto attraverso i processi politici profondi, le
implicazioni ideali, il martirologio calpestato dalla jena reazionaria
e dalla canaglia sanfedista (il filo ‘nero’, che con il suo segno egemonizza
l’organizzazione sociale dominante) è il segno di quella primavera
del riscatto che ancora ricerchiamo, che è stata la ricerca
dei giacobini eredi della rivoluzione francese, delle avanguardie leniniste
eredi sia del robespierrismo e del buonarrotismo che della rivoluzione
d’ottobre, del laboratorio gramsciano e dei meridionalisti progressisti,
dei partigiani antifascisti e il sogno, l’impegno per la liberazione sociale
integrale; infine dei resistenti di oggi alla globalizzazione capitalista,
di tutti coloro, cioè, che si oppongono alla cancellazione storica
della memoria, al revisionismo storico e politico, erede diretto del filo
‘nero’ delle classi dirigenti borghesi reazionarie (borghesia reazionaria
versus la stessa borghesia progressista promotrice dell’istanza radicale
della trasformazione sociale). Per un militante comunista, che porta i
segni indelebili del maoismo come Gracci, vissuto e impersonato in modi
tutt’altro che dottrinari e schematici, liturgici, è ancora la contrapposizione
tra la ‘linea nera’ e la ‘linea rossa’:
“Questa contraddizione consegue alla ‘lotta tra le due linee’
che, latente o esplicita, si è manifestata, praticamente fin dall’inizio,
tra la componente politica democratico-moderata e quella democratico-rivoluzionaria.
Potremmo dire trattarsi, in fondo, di una conflittualità ereditata
e già corposamente evidente nella Rivoluzione francese. Più
obiettivamente, potremmo definire il fenomeno come una contraddizione interna
alla pur positiva azione svolta, nella storia, dalla borghesia nella sua
fase rivoluzionaria.
Mao Tse Tung ha insegnato come il principio del ‘l’uno che si
divide in due’ sia alla base della visione dialettica della realtà
e come questo, in politica, nello scontro di classe che ne è l’essenza
principale, si traduca appunto nella cosiddetta ‘lotta tra le due linee’”.
[pag.191]
La chiave è però tutta nostra: la costruzione dell’identità
nazionale, la piena rivendicazione dell’autonomia e sovranità del
nostro paese, senza della quale ogni radice profonda dei processi rivoluzionari
è destinata a rimanere sterile e infruttuosa. Sovranità e
piena indipendenza calpestata da eserciti stranieri e dalle armate
clericali (come chiaro ed evidente nel caso della rivoluzione napoletana
del ’99) e, ancor oggi, limitata e circoscritta, soffocata, dagli eredi
diretti di quei poteri, l’imperialismo USA e il Vaticano.
La rivoluzione partenopea che conclude sanguinosamente il secolo XVIII
del nostro paese, è la genesi oggettiva del complessivo moto
risorgimentale. Così come le Quattro giornate di Napoli (28 settembre-
1 ottobre 1943) costituiscono la genesi oggettiva del complessivo moto
resistenziale antifascista. Genesi oggettiva, si badi: oltre, cioè,
la piena coscienza dei partecipanti a quei moti. E che ciò avvenga
a Napoli, capitale del Mezzogiorno, è destinato, per Gracci, a lasciare
una traccia indelebile nella costruzione, appunto, dell’identità
nazionale:
“Allora, in quel 1799, Napoli, storico caposaldo dell’antica civiltà mediterranea, era stata teatro dell’ultima difesa, in Europa, del grandioso sogno politico giacobino di ‘libertà, fratellanza ed uguaglianza’ per l’intera umanità; adesso, i suoi popolani, i soldati sbandati, i giovanissimi studenti, gli scugnizzi e un pugno di intellettuali infliggendo, prima città nell’Europa occupata, una sconfitta a forze che, all’epoca, rappresentavano, sul piano politico-sociale, la forma più efficiente raggiunta dalla reazione.” [pag.249]
Nel 1943, nella storia italiana, operai e contadini, sempre pronti allo
sciopero, all’agitazione, alla solidarietà politica, alla lotta,
parteciparono ad un grande movimento nazionale e democratico, che segnò
una svolta fondamentale nella storia del paese. Ed è proprio la
lotta di massa, portata sui luoghi di lavoro con un intreccio di rivendicazioni
economico-politiche, il tratto tipico della Resistenza italiana rispetto
a quella degli altri paesi.
Il movimento partigiano esprimeva socialmente un’Italia dei lavoratori;
a questa partecipazione doveva corrispondere nei programmi politici degli
antifascisti una contropartita di gestione popolare nello stato che doveva
nascere dopo l’abbattimento del fascismo. Da ciò, quindi, è
facile dedurre come la Resistenza e la Costituzione siano intimamente legate.
E come la Costituzione del 1948 sia strettamente legata al Progetto di
Costituzione della Repubblica napoletana del 1799, come dimostrato dalle
pagine in appendice documentaria de La rivoluzione negata, in particolare
in un punto spinoso e controverso: il popolo ha diritto di resistenza,
“baloardo di tutti i dritti”; articolo consimile fu non a caso bocciato
dai moderati dell’Assemblea Costituente nel 1947.
Chi meglio di Gramsci, morto nel 1937, aiuta a riannodare questi fili?
La ‘quistione meridionale’, il Risorgimento, il giacobinismo, la costruzione
del processo rivoluzionario nel nostro paese, sono temi centrali della
sua riflessione, interamente inscrivibili nel marxismo e nella sua attualizzazione
nell’epoca dell’imperialismo, nel leninismo.
Il Risorgimento è stato storicamente un processo che ha portato
alla formazione dello Stato nazionale unitario e indipendente. Esso è
stato il prodotto di un riscatto politico-morale legato ai movimenti liberal-democratici,
espressione della Rivoluzione francese. Partendo da questa prospettiva,
Gramsci ha visto il Risorgimento italiano come intimamente legato al processo
di trasformazione politico-sociale iniziatosi attivamente con gli avvenimenti
francesi del 1789, che si sono tradotti e trasferiti gradualisticamente,
riformisticamente, passivamente in Italia, portando comunque, nonostante
le deficienze dei movimenti politici e l’immaturità delle classi
sociali, alla dissoluzione dell’antico regime. Il termine ‘rivoluzione
passiva’ Gramsci lo mutua proprio dal Vincenzo Cuoco, storico testimone
degli eventi rivoluzionari del ‘99:
«Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può
e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata
al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere
dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione
di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei
limiti in cui esso si è effettuato, senza ‘terrore’, come ‘rivoluzione
senza rivoluzione’, ossia come ‘rivoluzione passiva’.»
(A.Gramsci: Il Risorgimento, Editori Riuniti, Roma, 1971, pp.95.)
Gracci si riallaccia fortemente a quella lettura, rivendicando una continuità
piena con la tradizione comunista italiana, sottolineandone, da una parte,
la fecondità degli sviluppi reali [la Resistenza, l’esperienza di
Secchia, la lotta al revisionismo e al riformismo che emergerà da
quel filone anche e soprattutto fuori del Pci (per quest’ultimo punto,
Gracci ne aveva scritto nella prefazione al mio Secchia, il Pci e il
’68, 1998)] e dall’altra un’assenza e una sottovalutazione grave: lo
studio, l’analisi compiuta delle modalità di costruzione dell’identità
nazionale sotto l’egida moderata, intrecciata fortemente alla storia del
Mezzogiorno, e su cui proprio Gramsci si era speso in maniera straordinaria
nei suoi ‘quaderni dal carcere’.
Il carattere nazionale della questione meridionale si è caratterizzato
dal fatto che tutti i problemi del Sud, qualificati come specifici, si
sono dissolti costantemente nei problemi più generali della società
italiana, sottoposta alle scelte politiche e alle leggi economiche del
capitalismo moderno che ha privilegiato gli interessi privati rispetto
a quelli collettivi. Il meridione è ancora adesso questione nazionale,
nell’epoca della cosiddetta globalizzazione, nel senso di un processo reale
prodotto dal capitalismo e funzionale alla sua esistenza, alle sue leggi
interne di sviluppo fondate sulla proprietà privata, il profitto,
la disuguaglianza sociale.
Il processo risorgimentale portò la borghesia alla direzione
politico-economica del nuovo stato unificato; gli interessi di questa classe
determinarono un processo di industrializzazione accelerato, protetto dal
regime protezionistico e comportò elevati profitti (accumulazione)
pagati dalla classe operaia settentrionale e dalle masse di contadini del
Sud. Fu lo stesso processo, però, che portò (fecondità
dell’analisi marxista) gli strati sociali popolari (a Napoli i lazzari
citati da Gracci, nello stesso tempo esempio di massa di manovra per la
mobilitazione reazionaria e/o soggetto pur disgregato per la mobilitazione
rivoluzionaria) a costituirsi in proletariato.
Gracci invita dunque ad avere una visione diversa del piano di sviluppo
nazionale: se la questione meridionale tende a coincidere, gramscianamente,
con la questione settentrionale, la questione nazionale è sempre
più coincidente con la questione sociale. Risolverle significa operare
per un processo nuovo che rimetta in piedi la speranza per un progetto
storico di giustizia da secoli calpestata: “la guerra di classe è
trasversale a tutte le guerre, e questo è evidente soprattutto dalla
Rivoluzione Francese in poi”. (pag.270)
L’implicito messaggio, che mi appare palese forse per la diretta
conoscenza dell’autore, è che nessun internazionalismo autentico
è possibile, meno che mai quello proletario e rivoluzionario, senza
innestarlo sulle radici nazionali. Non nazionaliste, al contrario: nell’epoca
della globalizzazione capitalista lo ‘sradicamento’ è funzionale
all’asservimento al capitale. Lotta di classe e identità nazionale
sono, insomma, reciprocamente interdipendenti: un’interdipendenza non teorizzata,
ma vissuta in prima persona senza immediata mediazione culturale
dai resistenti partigiani come Gracci.
Negata la rivoluzione, la rivoluzione è sconfitta? ‘Gracco’
invita a riprendere il filo ‘rosso’ nelle nostre mani e a dipanarne l’infinità
possibilità di dispiegamento. Contro il disfattismo, l’attendismo,
alleati del revisionismo non solo in tempi di ‘guerra manovrata’, ma ancor
più in quella ‘di posizione’, ci chiama alle incombenze di oggi:
il cammino è difficile, sembra dirci con questo libro, con il suo
magistero e la sua lezione di vita, ma non è mai stato facile. La
rivoluzione non è mai stata ‘un pranzo di gala’, ma è sempre
possibile e sempre attuale: come il capitalismo porta con sé, in
grembo, la nuova società, così la linea nera può essere
sconfitta dalla linea rossa, così il filo ‘rosso’ sconfiggerà
il filo ‘nero’.
In questo stesso sito:
la biografia di Angiolo Gracci
la recensione di Russo Spena
al libro di Gracci su Liberazione
scrivete a linearossa@virgilio.it
ritorna al sommario del nr.15
(aprile-maggio
2000)